giovedì 29 ottobre 2020

Quando c’era il movimento operaio. L’esperienza torinese

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Lotte e rappresentanza operaia nei momenti delle esperienze consiliari

Sono passati cent’anni dalle prime esperienze di organizzazioni operaie fondate sui “commissari di reparto” e sul loro organismo unitario, il “consiglio di fabbrica”. Ne sono passati cinquanta dalla seconda esperienza dei “delegati di reparto” (definiti anche, non a caso, “delegati di gruppo operaio omogeneo” perché chiamati a lavorare sempre nello stesso modo e nelle stesse condizioni) e del loro organismo unitario, sempre il “consiglio di fabbrica”. Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 si sono ricordate, a Torino, quelle esperienze, per valutarne le differenze e per tentare di mantenere aperto uno sguardo sull’oggi e sul futuro del lavoro.
Il materiale riportato in questa TALPA raccoglie quelle riflessioni e una specifica documentazione. Si riprendono, anzitutto, i contributi di due storici del lavoro, Stefano Musso e Fabrizio Loreto, rispettivamente sul biennio rosso del 1919-1920 e sul “secondo biennio rosso” (1968-1969).

Nella documentazione allegata, poi, viene presentata una documentazione relativa a tre momenti salienti del periodo che è stato tramandato come il “biennio rosso”: l’elaborazione e le prime esperienze dei consigli di fabbrica che vide tra i protagonisti il collettivo della rivista L’Ordine Nuovo con Antonio Gramsci come direttore; lo sciopero ricordato come lo “sciopero delle lancette”, quando gli imprenditori torinesi e l’apparato statale, in prima file le Guardie Regie, utilizzarono l’imposizione di un altro orario di lavoro come provocazione per obbligare i lavoratori allo scontro per poi stroncare la lotta perché favorita dalla CGL nazionale che era contraria ai consigli; la lotta del 1920, ricostruita attraverso i verbali della Fiom nazionale, per il rinnovo del contratto di lavoro, che iniziò come una tradizionale vertenza sindacale condotta con lotte e trattative con gli imprenditori per poi trasformarsi in serrate padronali e conseguenti occupazioni delle fabbriche da parte dei lavoratori che adottarono l’autodeterminazione nello svolgimento del proprio lavoro come forma di lotta. La vertenza finì con un accordo sindacale, il “Concordato di Roma”, e con la costituzione da parte del Governo Giolitti di una commissione tecnica paritetica finalizzata a formulare proposte per un progetto di legge «allo scopo di organizzare le industrie sulla base dell’intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario o alla amministrazione dell’azienda» e a indicare «entro otto giorni» norme per la soluzione delle questioni inerenti l’assunzione e il licenziamento di manodopera. Superfluo dire che il progetto non venne mai presentato e iniziò l’l’offensiva delle squadre fasciste.

Le esperienze del movimento operaio del primo dopoguerra, non solo a Torino, furono molto diverse da quelle del biennio 1968-69 come è ben descritto nell’articolo di Fabrizio Loreto. Nella prima fase ci fu un’azione dei lavoratori volta alla conquista di un potere politico generale, con il controllo della fabbrica come una sua articolazione, mentre la seconda fase vide un’azione sindacale volta ad affermare l’esercizio di un potere di controllo sull’organizzazione e le condizioni di lavoro. La discontinuità tra i due momenti è notevole ma il collegamento era dato dal fatto che, contrariamente ad oggi per la situazione torinese e italiana, si poteva pensare di essere parte, per dirla con Gramsci, di un “gruppo presupposto” passato alla storia come movimento operaio.
Differenze profonde, con un tratto comune, però: la libertà e l’autonomia del lavoratore nello svolgimento dei propri impegni di lavoro stabiliti nel rapporto concordato con l’impresa e il conseguente controllo dell’organizzazione che ne determina lo svolgimento. A questa speranza e a questo obiettivo i padroni risposero, nel 1920, con la serrata delle fabbriche e, nel 1980, con i licenziamenti e la cassa integrazione arbitraria. E dopo la sconfitta operaia del 1980 alla Fiat si riaffermò il principio, puramente ideologico, che ‒ come ebbe ad affermare un dirigente dell’azienda ‒ «l’organizzazione del lavoro non può essere oggetto di contrattazione, ma unicamente orientata dal mercato».
Come sottolinea Fabrizio Loreto l’esperienza dei consigli della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta fu improntata da una “sinistra sindacale” assai variegata e plurale ma fortemente indirizzata all’unità e alla partecipazione dei lavoratori alle scelte attinenti alle loro condizioni e al loro destino. Invece, e non a caso, dopo la sconfitta del 1980 ‒ ricorrono quest’anno quarant’anni da quel momento ‒ ripresero la parola coloro che dieci anni prima si erano opposti ai delegati di reparto per confermare l’istituto delle commissioni interne per la rappresentanza dei lavoratori. All’esperienza decennale dei consigli di fabbrica concorsero idee, elaborazioni e proposte cresciute nelle organizzazioni della sinistra sociale e politica italiana e nel mondo cattolico, in particolare delle Acli. Gli articoli di Riccardo Barbero e di Toni Ferigo richiamano bene questi percorsi e i contributi a un’esperienza unitaria fondata sulla partecipazione diretta dei lavoratori, quella che Fabrizio Loreto richiama come “democrazia deliberante”, diversa dalla democrazia consultiva, anch’essa scaduta oggi a livelli assai bassi.
Il ricordo di Aldo Surdo ‒ membro di commissione interna alla Fiat Mirafiori dal 1952 al 1968, anno in cui venne rieletto con il maggior numero di voti tra i candidati per poi dare le dimissioni per passare il testimone al consiglio dei delegati ‒ e le testimonianze dei delegati eletti alla Fiat, alla Olivetti, alla Rhodiatoce, alla Michelin o a L’Oreal confermano i percorsi della partecipazione, dell’unità e del potere di intervento sull’organizzazione del lavoro dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
Questo percorso si interruppe con la dura sconfitta alla Fiat del 1980 e l’affermazione di Bruno Trentin che un essere umano deve essere una “variabile indipendente” anche sul lavoro è stata profondamente stravolta. Rimane, e non potrebbe essere diversamente, sul piano del comportamento personale ma non assume più una dimensione collettiva.
La domanda se può esistere ancora una cultura del lavoro e se i lavoratori possano ritornare ad avere un’idea comune del loro destino è presente, come commento finale, nello scritto di Gian Primo Cella.
È necessario porsi nuovamente la domanda? Chi deve se la deve porre? E a chi è rivolta?
La discussione è in corso … ma non in Italia e in Europa, non a caso.

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