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di Marco Bersani, Attac Italia
La precipitazione dell’emergenza sanitaria di queste ultime settimane, le recenti misure prese dal Governo per fronteggiarla e le prime esplosioni di rabbia sociale (al netto di alcune provocazioni costruite ad hoc) sono la cartina di tornasole di cosa ha voluto dire seguire la rotta indicata dalle imprese (Confindustria in testa) nella gestione dell’epidemia: cinque mesi dopo e con 120 miliardi spesi, come nel gioco dell’oca siamo ritornati al punto di partenza.
Il sistema sanitario è di nuovo prossimo al collasso, le scuole iniziano a essere chiuse e, quando non lo sono, si muovono in continuo affanno tra disorganizzazione, continue interruzioni, precarietà; i trasporti pubblici, già pesantemente insufficienti nella vita ordinaria, sono divenuti il focolaio principale del contagio.
Dentro questo quadro, se c’era un modo di intervenire male sulla nuova emergenza sanitaria, è esattamente quello che ha scelto il governo, decidendo provvedimenti che salvaguardano alcune fasce produttive a discapito di altre, innescando false gerarchie fra essenziale e superfluo, scegliendo alcuni diritti da tutelare e altri da negare, più in generale ponendo a tutt* il dilemma se scegliere tra la salute e il pane, mettendo in ogni caso in disparte la dignità.
Si è in breve tempo trasformata l’Italia in una gigantesca Taranto, dove sopravvivenza economica e diritto alla vita sono quotidianamente messi in competizione.
Nasce da qui la rabbia sociale che, in maniera scomposta – i poveri sono sempre brutti, sporchi e cattivi – si sta esprimendo in diverse piazze del Paese, nelle quali una società frantumata risponde specularmente e ogni categoria di popolazione porta in piazza il proprio problema e il proprio diritto a sopravvivere.
Una rabbia che, senza una radicale inversione di rotta, è solo destinata ad espandersi e a rivelare come pia illusione quella espressa dalla Ministra dell’Interno di poterla affrontare come problema di ordine pubblico, magari creando il clima giusto attraverso addirittura due sere di scontri in Piazza del Popolo, munificamente concessi ai gruppi fascisti nel pieno centro di Roma.
Per invertire la rotta, occorre innanzitutto indicare le responsabilità, che ricadono pesantemente su tutte le istituzioni – Governo e Regioni – che in questi sei mesi potevano agire e non lo hanno fatto, tanto sulla sanità quanto sulla scuola, tanto sul trasporto pubblico locale quanto sul diritto al reddito, solo per citare le falle più evidenti.
Ma la colpa maggiore è quella di aver continuato ad inseguire il mito del rilancio dell’economia, così come declinato dai vertici di Confindustria, andando a riempire di finanziamenti (il 70% di quanto speso) le imprese per mandare avanti una produzione purchessia, a prescindere dalle necessità e senza controlli sulla sicurezza con cui viene realizzata.
E se questa entra in contraddizione con altri diritti e bisogni, si sceglie la scorciatoia del negare questi ultimi per affermare i primi: è così che il problema dei trasporti viene risolto eliminando gli studenti e che tutto il tempo dedicato a sport, cultura e socialità viene negato tout court, indipendentemente dalle condizioni con le quali viene svolto e/o usufruito.
Il rischio è di non risolvere il problema della salute e di spaccare ulteriormente la società, frammentandola in richieste corporative, tutte in competizione fra loro, tutte espresse con rabbia e disperazione.
Se c’è un insegnamento che la pandemia ci ha dato è che nessun* si può salvare da sol* e che, di conseguenza, nessun* può essere lasciat* indietro.
É ora che Governo, Regioni, Confindustria, grandi interessi finanziari e ceti ricchi se ne rendano conto, invece di pensare di continuare a estrarre valore e profitti, dichiarando degne le proprie vite e considerando da scarto quelle di tutti gli altri.
Non può essere più accettato nessun ricatto a lavorare, e a muoversi per poterlo fare, senza strette garanzie di poter svolgere entrambe le cose in completa salute e sicurezza.
Non può più essere accettata la scelta fra lavoro e salute, così come la gerarchia fra diritti: tutt* hanno diritto al pane, alla salute e soprattutto alla dignità, e ogni scelta deve essere conseguenza di queste garanzie.
Ecco perché la prima misura da prendere è quella di garantire un reddito a tutte le persone fino al termine dell’emergenza sanitaria: solo così si potranno prendere le misure necessarie – dallo svolgere tutte le attività in sicurezza fino ai possibili lockdown – senza far precipitare nessuno nella disperazione.
Ma questa misura va accompagnata da una radicale e urgente inversione di rotta sulla direzione da prendere, costruendo un piano di trasformazione ecologica e sociale che ponga fine alla dittatura del mercato e metta al centro unicamente i diritti, i beni comuni, i servizi pubblici e una produzione esclusivamente finalizzata al benessere collettivo.
Non ci sono i soldi, ci sentiremo di nuovo ripetere. Ma, a parte il fatto che anche i 120 miliardi, spesi per soddisfare in gran parte solo le imprese, non dovevano esserci e sono invece magicamente comparsi, i soldi vanno presi laddove si trovano, a partire da un prelievo su redditi e patrimoni del ceto più alto della società (seppur con ancora qualche timidezza, è quanto ha deciso di fare il governo spagnolo) per arrivare una volta per tutte e mettere a disposizione per gli investimenti necessari alla collettività i 265 miliardi di risparmio postale gestiti da Cassa Depositi e Prestiti, ora utilizzati per operazioni immobiliari, industriali e finanziarie tutte dettate dai profitti e dal mercato.
Tutte cose che si possono fare domani, se solo si abbandonasse la narrazione dominante dell’economia del profitto individuale per approdare alla costruzione della società della cura collettiva.
Tutte rivendicazioni che devono attraversare le piazze perché dalla pandemia si generi una nuova speranza e non la solita cieca disperazione.
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