venerdì 30 ottobre 2020

Senza respiro. Un’inchiesta indipendente sulla pandemia in Lombardia

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“Per non dimenticare. Per ripensare un nuovo modello di sanità pubblica”. Il progetto lanciato da Vittorio Agnoletto: un libro volto a fare chiarezza su quanto accaduto dall’inizio dell’emergenza. La raccolta fondi è in dirittura di arrivo e l’obiettivo è già stato ampiamente superato: oltre 570 persone hanno contribuito a sostenere questo lavoro.

di Daniele Nalbone

Senza respiro. Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus in Lombardia, in Italia, in Europa. Un progetto di ricerca indipendente diretto dal medico, ricercatore e attivista Vittorio Agnoletto volto a documentare quello che non ha funzionato durante l’emergenza e a capire cosa ci insegna l'epidemia. Premessa: i diritti d’autore del libro “Senza respiro”, che sarà pubblicato da Altreconomia, saranno versati all’ospedale Sacco di Milano, struttura pubblica che ha svolto un ruolo fondamentale durante la fase più critica dell’epidemia.

Il progetto è stato già "coperto" economicamente grazie a una raccolta fondi che ha raccolto donazioni da oltre 570 persone e ha come sua base il lavoro svolto in questi mesi da Medicina Democratica e dalla redazione di “37e2”, trasmissione sulla salute di Radio Popolare.

Il progetto analizzerà il modo in cui il Servizio sanitario nazionale ha reagito di fronte all'emergenza Covid-19: gli errori, le debolezze e i fallimenti, con un focus sulle cause del disastro avvenuto in Lombardia, oltre ad analisi e confronti con situazioni in Italia ed Europa. Una vera e propria “scatola nera” della pandemia. Attraverso le testimonianze raccolte da cittadini, dal personale sanitario e dagli operatori sociali impegnati sul campo, verrà evidenziata l’abissale distanza tra le necessità della popolazione e le risposte istituzionali e saranno avanzate delle proposte finalizzate a evitare che una simile tragedia possa ripetersi.

Dottor Agnoletto, perché dar vita a un’inchiesta indipendente sulla pandemia in Lombardia, e non solo?

Per non dimenticare. Perché l’impatto della pandemia, soprattutto in Lombardia, è stato così forte e con dei momenti di tale tragicità che in buona parte della popolazione è scattata a livello inconscio la tendenza a rimuovere quanto vissuto. “Non può essere stato vero. Non può essere accaduto”. L’ho sperimentato recentemente: ero a cena con alcuni amici per scegliere il titolo del libro e ho lanciato la proposta di chiamarlo “Senza ossigeno”. Chi era a tavola con me mi ha guardato esterrefatto, chiedendomi: “Cosa c’entra?”. Hanno rimosso il momento in cui i nostri colleghi hanno dovuto scegliere a chi dare l’ossigeno e chi, invece, abbandonare al proprio destino. Poi la scelta è ricaduta su “Senza respiro”.

Possibile che la gente abbia rimosso una simile vicenda?

È una forma di difesa. Per questo il primo obiettivo di questa inchiesta indipendente è per non dimenticare. Il secondo obiettivo è riuscire a capire cosa è accaduto veramente perché per mesi siamo stati sottoposti a un tale martellamento di notizie, di eventi straordinari e fuori dalla nostra quotidianità, a una tale quantità di decisioni e documenti istituzionali, che non abbiamo chiara, ancora oggi, la situazione. Faccio un esempio: abbiamo calcolato che nei primi due mesi di emergenza sia stata emanata una circolare ministeriale, regionale, un’ordinanza ogni sei ore. Abbiamo perso il filo degli eventi. Abbiamo difficoltà a ricostruire la successione temporale delle decisioni prese. E la successione temporale è fondamentale.

Perché?

Per rispondere alla domanda principale: si poteva fare altro? C’era la possibilità di gestire tutta questa vicenda in modo diverso. L’altra faccia di queste domande è: si potevano salvare delle vite? Per capirlo dobbiamo partire dal percorso di ricostruzione dei fatti.

Il libro uscirà in autunno. Uscirà in quello che potrebbe essere un altro momento difficile, con un ritorno della pandemia. Ha la sensazione che, stavolta, saremo pronti ad affrontarla?

Stiamo lavorando in divenire, su una vicenda che non è conclusa e che non sappiamo come evolverà dal punto di vista clinico ma, soprattutto, da quello della sanità pubblica. Per questo la nostra prima regola è il rispetto del rigore scientifico per poi incrociare la ricerca giuridica e istituzionale. Dobbiamo intrecciare fonti diverse tra loro, sincronizzarle e analizzare le migliaia di denunce arrivate dalla popolazione. Detto ciò, dobbiamo subito fare chiarezza: nessuno è in grado con un minimo di certezza scientifica di dire cosa accadrà in autunno. Chi parla lo fa in base a uno status psicologico: ottimisti contro pessimisti. Una cosa, però, è certa: dobbiamo essere preparati alle diverse situazioni che ci troveremo a dover affrontare.

E lo siamo?

Abbiamo alcune certezze. In autunno avremo due effetti importanti dovuti all’emergenza, a prescindere dal fatto se ci sarà una seconda ondata o meno. In Lombardia a causa della pandemia sono stati annullati dieci milioni di interventi, tra visite, esami e operazioni. Ora, una parte delle persone che si sono viste cancellare la prestazione si sarà rivolta alle strutture private, ma un’ampia parte avrà rinunciato. Abbiamo quindi milioni di esami diagnostici arretrati che impatteranno su un servizio sanitario regionale che già prima della pandemia aveva liste di attese enormi. Parliamo di tutto ciò che è da considerare “no covid”. Il rischio è quindi che il diritto alla salute per la popolazione lombarda sia saltato definitivamente e che le cure dipendano ormai solo dalla dimensione dei portafogli dei cittadini. La domanda è: questo dato, incontrovertibile, è stato preso in considerazione? È stata potenziata la medicina territoriale, ambulatoriale, specialistica di primo livello? No. Risultato: indipendentemente da una nuova ondata in autunno avremo un imbuto pericolosissimo.

Il secondo effetto?

Anche questo è indipendente da quello che accadrà. Ci troveremo davanti alla crisi della medicina generale. In autunno ogni persona con la febbre, magari con la tosse, un raffreddore, qualche difficoltà respiratoria, dovrà essere segnalata dal medico di base alla Asl e, immediatamente, scatterà la quarantena. Lo scorso anno l’influenza “pre-covid” ha coinvolto otto milioni di persone. Il rischio è che in autunno milioni di cittadini siano messi in quarantena senza sapere se è semplice influenza stagionale o covid. La paralisi nei settori lavorativi sarebbe inevitabile. Si sta facendo qualcosa per una diagnosi differenziale? L’unico modo per evitare questa emergenza sarebbe quella di sottoporre a tampone ogni singolo “influenzato” entro 48 ore dalla segnalazione alla Asl. Si sta facendo qualcosa per intervenire con i tamponi prima e con il test sierologico dopo? È paradossale ma, al di là di una nuova ondata di covid, corriamo il serio rischio di avere una parte del paese paralizzata. Non a caso l’ordine dei medici della Lombardia ha messo nero su bianco la richiesta di poter avere, da settembre, un sistema che garantisca il tampone entro 72 ore con risposta immediata. Oggi le risposte arrivano anche dopo due settimane.

E se ci sarà una nuova ondata?

Indipendentemente da una nuova ondata pandemica dobbiamo rivedere il nostro concetto di “rischio per la salute”, altrimenti sarà stato tutto inutile. Quello che possiamo ipotizzare è che in futuro ci ritroveremo davanti a nuove patologie infettive con forti potenzialità pandemiche da parte di agenti che realizzano il “salto di specie”: tutto conseguenza dell’attuale modello di sviluppo. Dovremo fare i conti con situazioni come quelle che abbiamo vissuto tra febbraio e aprile. Per questo serve una sanità organizzata in maniera totalmente diversa, che sappia guardare ai rischi e alle patologie che si trasmettono attraverso i comportamenti umani, sui quali si può intervenire. Il problema è tutto in mano ai decisori politici.

Cosa intende?

Mettiamo che ci sia la possibilità di investire centomila euro. La domanda da porsi è: come investirli? Su cure volte ad aumentare le aspettative di vita delle persone di un mese o su tamponi e test per la tutela dell’intera popolazione? L’impegno dovrà essere necessariamente per difendere la salute di tutti: sanità pubblica, medicina territoriale, costruzione di strumenti che possano funzionare da sentinelle. Vanno potenziate l’epidemiologia e la sorveglianza sanitaria. Va implementata la capacità di curare le persone nelle proprie abitazioni, riducendo così gli impatti sulle strutture ospedaliere. Tutto questo potrà essere drammaticamente necessario fra tre mesi o fra tre anni. Ma lo sarà.


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Sta parlando di un cambio radicale del paradigma alla base della tutela della salute.

Siamo davanti a dilemmi epocali. Da ormai settanta anni ogni investimento è volto a cercare “un farmaco” che prolunghi la sopravvivenza. Visto lo scenario, la necessità è quella di tornare a investire nella ricerca, in primis per i vaccini. Il problema è che la ricerca è in mano ai privati e non è detto che abbiano interesse a investire sulla prevenzione: la cura è spesso molto più remunerativa. Il problema è che questa consapevolezza sembra non esserci, almeno analizzando le recenti decisioni prese. Pochi giorni fa la Regione Lombardia ha annunciato una delibera con nuovi finanziamenti per le strutture ospedaliere comunicando la decisione di mantenere in piedi l’ospedale costruito per l’emergenza in Fiera “perché servirà in caso di una nuova ondata”. Significa non aver compreso nulla. Una nuova ondata non dovrà produrre un nuovo impatto sugli ospedali.

Torno all’inchiesta che state per pubblicare per un’ultima domanda. Oltre 570 persone che decidono di sostenere un progetto indipendente non sono una cosa da poco. Cosa le lascia questa “mobilitazione dal basso” intorno al vostro lavoro?

Significa che quanto fatto in questi mesi, 18 ore al giorno, è stato utile. Credo di poter dire che siamo stati una voce importante che ha cercato di fornire le risposte “fino a quel momento” possibili. Quante volte in tv abbiamo sentito affermazioni dette con grande sicurezza che venivano poi smentite nel giro di poche ore? Ogni volta che facevamo una diretta per informare la popolazione sottolineavamo l’incertezza che stavamo vivendo. Ripetevamo in continuazione “per quello che sappiamo fino a ora” o “da qui in poi non abbiamo certezze”. Non abbiamo ingannato la gente, non l’abbiamo tranquillizzata e non l’abbiamo spaventata. Abbiamo semplicemente informato la popolazione, l’abbiamo ascoltata, aiutata. Il riconoscimento ricevuto quasi mi commuove ma, al tempo stesso, mi consegna una grande responsabilità. Sentiamo di aver riempito un vuoto enorme, istituzionale e di informazione. Ovviamente nel libro non potrà esserci tutto il materiale che ci è stato consegnato o segnalato, dovremo fare un’accurata selezione. Ma ce la metteremo tutta per tirare i fili dell’emergenza. Per capire quanto accaduto. Perché non accada di nuovo.

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