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Bolivia. Vamos a volver, volvemos (“Torneremo”)… È il commento più bello, che esprime la speranza e il risultato della lotta di un popolo che nella sua maggioranza è indigeno. L’Indoamerica paziente, strategica e intelligente che da tanti anni rivendica la sua identità e cultura politica in un continente che a partire dall’epoca coloniale non si è mai rassegnato a subire lo sfruttamento, la disuguaglianza e la ingiustizia sociale. “Torneremo” è l’espressione più sincera per sottolineare il successo delle forze progressiste e democratiche nelle elezioni presidenziali tenutesi domenica 18 ottobre: andiamo a cambiare. È soprattutto il trionfo del potere sociale, sindacale e comunitario unito che iniziò con i movimenti di campesinos formato da più di 30 nazionalità indigene.La lotta per cambiare è iniziata negli anni ’80 contro i governi neoliberali che applicando le misure di aggiustamento strutturale volevano privatizzare le risorse naturali boliviane e consegnarle alle multinazionali senza controllo dello Stato. Evo cambiò quelle regole con la rifondazione di uno Stato multiculturale e il controllo sovrano della produzione del gas, dell’acqua, della coca e di tutte le sue risorse nazionali ottenendo così maggiori benefici per i boliviani attraverso negoziazioni che portarono a una crescita economica senza precedenti. Anche se questi cambiamenti si fecero più intensi, negli ultimi tempi del Governo di Evo si produssero delle divisioni nei movimenti sociali. In quella fase di conflitto interno arrivò un anno fa il colpo di Stato della destra, dei conservatori, degli integralisti religiosi e dei militari per abbattere il presidente Evo Morales, legittimamente eletto un mese prima.
Mentre ancora oggi gli organi televisivi e di stampa italiani parlano di “dimissioni” di Evo Morales va ricordato che l’esito di quel voto venne contestato dalla Organizzazione degli Stati Americani dominata da Trump e da Bolsonaro senza neanche esaminare i dati elettorali – come dovettero ammettere alcuni mesi dopo – mentre nel Paese gruppi armati sostenuti dalle forze militari e di polizia dettero vita a una caccia all’uomo uccidendo decine di militanti del MAS (Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos) e di indigeni obbligando il Presidente legittimamente eletto ad abbandonare il paese per evitare di essere ucciso a sua volta. Non a caso uno dei primi atti della presidente di fatto, Jeanine Áñez, insediatasi dopo il golpe, fu il decreto che concedeva l’immunità a tutti gli autori di violenze e di omicidi cancellando così ogni responsabilità penale nei confronti dei militari coinvolti nella «restaurazione dell’ordine interno».
L’appello di Evo Morales si fondò sin dal primo giorno sulla resistenza popolare e democratica: «ritorniamo a vincere le lezioni». Donne indigene vecchie e giovani fronteggiarono la polizia in assetto antisommossa e molte furono trascinate agli arresti da militari grandi due volte loro. Una di queste donne, Patricia Arce, è stata eletta senatrice. Furono giorni di dura violenza a cui gli oppositori seppero rispondere rinserrando le fila, organizzandosi per le future battaglie.
Paradosso della storia, i golpisti usarono la religione, secondo antiche tradizioni, come “falsa coscienza” per riappropriarsi delle risorse del Paese e delle sue risorse pubbliche: nei mesi successivi al golpe furono diffusi e frequenti gli atti di corruzione, in poco tempo si dovette per ben due volte cambiare il ministro della sanità.
Già nella primavera di quest’anno Evo Morales aveva denunciato l’ennesima violazione della Costituzione che prevede non più di novanta giorni per ritornare al voto in caso di un Governo di transizione. Manifestò come fossero in corso in Bolivia due pandemie: «in una, il Coronavirus, ci uccide un virus; nella seconda ci uccide la fame. In sette mesi hanno strozzato la Bolivia». Le prime vittime erano le popolazioni indigene e anche gli organismi internazionali dovettero intervenire per chiedere il rispetto delle convenzioni.
La crescita delle diseguaglianze e il venir meno del diritto al voto sono stati alla base di vasti movimenti di lotta mentre il Governo illegittimo annunciava date per le elezioni presidenziali per poi rinviarle con la scusa dell’epidemia del Covid-19 fino a che, quest’estate, la rivolta democratica è esplosa vedendo in prima fila la Centrale Operaia Boliviana, COB, la più importante e rappresentativa organizzazione sindacale nel Paese. Gli scioperi e le manifestazioni hanno imposto la data definitiva del 18 ottobre.
I candidati alla presidenza erano noti sin dall’inizio della battaglia: Luis “Lucho” Arce per lo schieramento progressista con al centro il partito di Evo Morales, il MAS, e diverse candidature della destra poi confluite sul candidato più segnalato dai sondaggi, l’ex presidente Carlos Mesa, anche sotto la spinta dei sondaggi pre-elettorali che davano sempre in testa Luis Arce con un range di oscillazione nelle intenzioni di voto dal 30 al 40%.
Lo scontro elettorale si è svolto in un clima assai aspro con minacce e violenze e molti osservatori internazionali paventavano, ancora negli ultimi giorni, i rischi di un secondo golpe. D’altra parte un ministro dell’illegittimo Governo in carica, Arturo Murillo, si presentava ai comizi elettorali mostrando delle manette (esposas) assicurando il carcere a coloro che volevano riportare il disordine nel paese.
Secondo i dati del conteggio veloce per Luis Arce ha votato il 53% degli elettori. Arce è stato Ministro dell’Economia e delle Finanze pubbliche durante i Governi di Evo Morales. Tra il 2006 e il 2019 è stato il principale artefice della crescita economica boliviana, ha elevato il PIB (il nostro PIL, ndr) da 9500 a più di 40.000 milioni di dollari, riducendo la povertà, con politiche sociali di distribuzione, dal 60 al 37%. È stato eletto al primo turno. Sia la ex presidente di fatto Jeanine Áñez che il candidando della destra Carlos Mesa hanno riconosciuto questa vittoria mentre l’Organizzazione degli Stati Americani è stata (sinora) zitta e così le forze che diedero vita alla rivolta armata contro l’elezione di Evo Morales.
Il programma dello schieramento che ha sostenuto la candidatura di Arce era molto semplice e chiaro: per l’autonomia politica ed economica della Bolivia, contro le diseguaglianze e la corruzione crescenti, per il riconoscimento dei popoli indigeni come parte a pieno titolo della nazione. I risultati delle elezioni sono andati oltre le speranze. Ora si tratta di fare in modo che quelle speranze e quegli obiettivi si possano concretizzare. Luis Arce si propone di farli avanzare nel nuovo Governo con il “fratello” David Choquehuanca, leader indigeno con cui ha condotto la battaglia. Ha di fronte una grande sfida per recuperare la crisi economica e gli effetti della pandemia che ha già lasciato più di 8.400 morti e per iniziare la ripresa economica e sociale puntando sull’emersione della popolazione attiva, che al 70% lavora nella informalità, sulla diversificazione produttiva e sull’industrializzazione del gas e del litio in un contesto di crisi mondiale.
Circola in queste ore in America Latina un commento interessante: «Le elezioni in Bolivia hanno un carattere pedagogico». L’affermazione andrà approfondita, sicuramente è una lezione di democrazia con il protagonismo dei più dimenticati nella storia latinoamericana: gli indigeni e le donne.
Sorgono in chi scrive alcune brevi riflessioni fondate sulle proprie esperienze. La stagione del riscatto dei lavoratori e delle classi subalterne in America Latina sembrava terminata ancora sino a qualche mese fa; i leader politici che avevano guidato questi movimenti sino a giungere al governo nel proprio paese erano persone formatesi nella durissima esperienza delle dittature militari ma sembrava che dietro di loro non ci fossero altri dirigenti politici capaci di continuare sulla strada della liberazione e del progresso sociale assumendosene in prima persona l’impegno. Quello che sta avvenendo ci dice innanzitutto che non possiamo guardare alle esperienze sociali e politiche in America Latina con le lenti di un europeo: quei leader e quella generazione hanno seminato, diffusamente seminato e innovato profondamente, a partire dall’emergere di un diverso senso comune tra chi vive o cerca di vivere del suo lavoro.
Questo momento elettorale in America Latina, che proseguirà nel prossimo anno sino alle elezioni in Brasile, ha visto scendere in campo con un proprio carattere i movimenti sociali che sono fondamentali per guardare a «un altro mondo possibile». I movimenti degli indigeni hanno dimostrato, se ancora ce n’era bisogno, un profilo culturale estremamente importante, basti pensare al rapporto con la terra. Il 2020 sarà ricordato per le imponenti manifestazioni di donne in America Latina, dal Cile al Messico, le più grandi nella storia del movimento delle donne, forse non solo in questo continente. Solo in Cile hanno partecipato, l’8 di marzo, due milioni di donne. Ma la “lezione” è che questi movimenti hanno scelto di convergere verso una nuova e più ampia unità, assieme ai lavoratori e agli studenti.
Passato e presente insegnano che la battaglia sarà impegnativa e non breve, l’importante è essere in campo, uniti in una visione di sviluppo sostenibile coincidente con il messaggio dell’ultima enciclica del Papa che non per caso è un latinoamericano che arricchisce lo scenario politico con una predicazione fondata sul lavoro, la casa e la terra. Come fratelli, direbbe qualcuno oggi.
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