Nel libro "Vendetta pubblica" (Laterza) il magistrato Marcello Bortolato e il giornalista Edoardo Vigna sfatano i luoghi comuni sulla detenzione. E lanciano un messaggio: far scontare la pena non basta, bisogna pensare al dopo.
Salvatore è nella sua cella nel carcere di Rebibbia. Ha conosciuto il crimine da bambino: a 9 anni, a Napoli, rubava rossetti e li rivendeva alle prostitute. In un crescendo di reati, entra nel mondo dello spaccio diventa latitante a Madrid. Arrestato, viene riportato in Italia. Ed è lì, tra le mura del carcere della periferia romana, che la sua vita cambia. Ha dei fogli in mano, Salvatore, che immaginiamo in una cella piccola, pochi metri, poca luce, seduto sul letto. È un copione teatrale. Per lui è come un’epifania: “Ecco che già all’interno della mia cella ha incominciato a entrare qualche raggio di luce”. Ricorda così quel momento Salvatore Striano, prima detenuto, poi attore. Ha conosciuto Shakespeare in prigione e da lì la sua vita è cambiata: approdato al cinema con Gomorra, nel 2012 ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino con Cesare deve morire dei fratelli Taviani, poi ancora le fiction, altro cinema, i libri.
“Io sono la prova vivente che si può cambiare”, sostiene. La sua storia, forse, avrebbe avuto una piega ben diverso se Salvatore non avesse conosciuto il teatro. Se nelle carceri italiane non fosse stata applicato - pur tra mille difficoltà, tante carenze e ancora molta strada da fare - quel principio scritto con chiarezza nell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un principio che i fautori del “buttare via la chiave” tendono, volutamente, a dimenticare e che, invece, racchiude il senso della giustizia penale. Condannare, laddove sia necessario, ma fare in modo che chi entra in carcere riesca a riconciliarsi con la società. A cominciare una vita nuova.
E all’articolo 27 della Carta fanno costantemente riferimento Marcello Bortolato, magistrato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze ed Edoardo Vigna, giornalista del Corriere della Sera, in Vendetta pubblica - il carcere in Italia (editori Laterza). La storia di Salvatore Striano è solo uno dei tanti spunti di riflessione che il volume fornisce, in un momento in cui ancora si sentono gli echi della facile indignazione dell’opinione pubblica per le scarcerazioni - legittime - dei detenuti durante l’emergenza Covid. Decisioni prese da un magistrato sulla base, peraltro, di una norma addirittura precedente alla Costituzione, che hanno condotto alcuni reclusi - indipendentemente, come prevede la legge, dal reato commesso - a scontare una parte della pena a casa. Perché il pericolo del coronavirus per loro, con patologie pregresse, era più grave. L’onda di sdegno - rinfocolata dalle sortite di alcuni politici e, verrebbe da dire, dalla difficoltà di parte della società di interiorizzare l’idea che anche chi ha commesso il più feroce dei crimini abbia diritto alle cure - ha riportato in auge una serie di luoghi comuni sul carcere. Esternazioni mai sopite del tutto, che riemergono di tanto in tanto. In una cultura in cui ancora c’è chi fa fatica a immaginare la detenzione come un momento rieducativo, non punitivo. A pensare a una istituzione che non si limiti alla reclusione, ma guardi al “dopo”. A quando quella cella si aprirà e uscirà un uomo che il mondo deva accogliere, non respingere.
Tanti parlano di carcere, pochi conoscono la quotidianità di chi vive in prigione: la sveglia con il suo del carrello. Quello delle terapie per chi prende farmaci, quello della colazione per tutti. E poi? Una lunga giornata da riempire. In alcuni penitenziari c’è la possibilità di lavorare, di studiare, di fare progetti rieducativi - il teatro ad esempio - in altri questo manca quasi del tutto. Restano i compagni di cella, a volte troppi per uno spazio ristretto - prima dell’emergenza Covid, lo ricordiamo, i detenuti nei penitenziari erano 61239, circa 11mila in più della capienza massima - le ore d’aria, divise tra mattina e pomeriggio, da trascorrere in uno spoglio cortile, e la televisione. La cena arriva alla stessa ora degli ospedali: alle 17.30, se si è fortunati alle 18. Poi altre ore da riempire, prima del sonno spezzato dal rumore degli agenti che passano a controllare.
Se ci si sofferma un attimo, e si lasciano alle spalle le facili conclusioni di chi vorrebbe vedere i detenuti “marcire in carcere”, è facile capire che trascorrere settimane, mesi, anni, nell’inerzia non giova a nessuno. Né al detenuto, né alla società. E che, oltre che incostituzionale, è dannoso.
I numeri lo mostrano chiaramente: se, nei limiti della legge, ai reclusi viene data la possibilità di lavorare fuori dal carcere, di svolgere attività culturali, di avere permessi premio, il reinserimento sarà più semplice. E non si condannerà chi ha già scontato una pena all’esclusione perpetua dalla società. Certo, i casi in cui queste misure falliscono - il detenuto che delinque durante un permesso premio o non rientra in carcere dopo il lavoro all’esterno - non mancano. E sono quelle che balzano più agli occhi. Ma basta leggere i dati, riportati nel volume di Bortolato e Vigna, per capire che si tratta di eccezioni:
Ogni anno i provvedimenti di questo tipo (misure alternative al carcere e benefici, ndr) sono circa 55.00. Importante è osservare che 372 volte in tutto, quindi solo nello 0,63% dei casi, sono stati revocati perché una volta all’esterno della cella i detenuti hanno commesso reati. A questi possiamo aggiungere lo 0,45% (quindi 247 casi) di persone non rientrate in prigione quando dovevano rientrarvi. Risultato finale: nell′1,08% dei casi qualcosa è andato effettivamente male. Nel 98,92% è andato tutto bene.
Il magistrato e il giornalista prendono uno ad uno i luoghi comuni sull’esecuzione della pena - “in carcere non ci va nessuno”, “ci vorrebbero i lavori forzati”, “dentro si vive meglio che fuori” - e li confutano. Li polverizzano. Con i numeri, le norme, le storie. Senza retorica, senza tacere i problemi e le complessità, senza santificare nessuno. Costringendo, però, a indirizzare lo sguardo verso una prospettiva troppe volte accantonata dalla superficialità di chi al trattamento umano preferisce la “vendetta pubblica”, alle misure alternative la costruzione di nuovi penitenziari. Soluzioni che sembrano facili, ma che non portano vantaggi a nessuno. Né al detenuto, né alla vittima o alla sua famiglia, né allo Stato. E che allontanano quello che deve essere lo scopo vero della detenzione: riportare l’uomo, laddove possibile, nella società. Indipendentemente dal reato per cui è stato condannato. Arrivare a questo risultato una scommessa difficile e non priva di rischi. Ma è necessario provarci. Lo dice la Costituzione, lo ripetono le leggi. Lo dimostrano le statistiche e le piccole storie di chi ce l’ha fatta.
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