volerelaluna Fulvio Perini
Quest’anno
in tanta parte del mondo il 1° maggio non potrà essere celebrato con
l’incontro tra lavoratori. Possiamo almeno interrogarci e riflettere
sulle ragioni per cui il lavoro, la vita sociale e la democrazia sono
stati così gravemente lesi in questi anni, consapevoli che i
responsabili continueranno ad agire per comprometterli ancor di più.
La pandemia ha messo in luce le
contraddizioni del sistema economico che si è affermato con la
globalizzazione finanziaria, dove tutto è diventato merce misurata in
denaro. Già con la crisi climatica queste contraddizioni erano crescenti
ma, invece di guardare a una soluzione, gli Stati e la maggioranza dei
cittadini – perpetuando una posizione affermatasi sin dalla Grande
Conquista delle Americhe e dal mercato triangolare (merci per schiavi;
schiavi per materie prime; materie prime per merci) – hanno scelto di
far pagare la crisi agli esclusi del mondo. Le oligarchie civili e
militari dei cosiddetti paesi in via di sviluppo si sono accodate: basti
pensare ai recenti golpe, più o meno cruenti e mascherati, in Egitto,
Algeria, Zimbawe, Brasile, Bolivia. All’inizio del millennio nel mondo i
muri e le recinzioni con filo spinato erano lunghe 20mila chilometri,
dopo la crisi del 2008 sono aumentate ed ora sono più di 40mila. Ai
tempi del “trionfo della borghesia”, per dirla con Eric Hobsbawm, si
costruivano migliaia di chilometri di ferrovie in tutto il mondo, oggi i
ricchi costruiscono muri.
Per cambiare modello economico e sociale
e ridare senso e vitalità alla democrazia c’è solo il conflitto, il
sale della democrazia, e la strada è lunga e dura, tant’è vero che
moltissimi hanno rinunciato, almeno qui da noi. Non è così nel mondo:
solo nell’ultimo anno 250 milioni di lavoratori indiani, quasi 60
milioni di lavoratori brasiliani, più di dieci milioni di francesi e
milioni di cileni hanno duramente scioperato, in Cile pagandolo con
quasi 400 morti. La lotta per l’uguaglianza è in corso. Ma non in
Italia.
La pandemia sta esasperando ed
esaspererà le contraddizioni. Già prima, nel mondo, i disoccupati erano
aumentati di 25 milioni perché la crescita dell’offerta era ed è
insufficiente ad assorbire la forza lavoro derivante dall’aumento
demografico. Alcuni dati: sono senza lavoro per effetto del coronavirus
oltre 10 milioni di lavoratori del trasporto aereo, operatori in volo o a
terra; secondo il sindacato europeo sono 40 milioni i lavoratori
disoccupati o sospesi dal lavoro e si vendevano poche automobili prima e
quasi nessuna oggi; l’industria tessile e dell’abbigliamento, allocata
in Asia e sempre più in Africa, è ferma senza lavoro e protezioni
sociali: anzi ci sono già state centinaia di migliaia di licenziamenti
soprattutto in Bangladesh dove si lavora soprattutto per multinazionali
(tra cui Benetton); si è scoperto che coltivare fiori costa meno nei
paesi dell’equatore: poi si recidono e si caricano sugli aerei perché
noi possiamo comperarli (la Colombia è il secondo produttore mondiale e
l’Ecuador il terzo, mentre si stanno affacciando i paesi africani: in
Uganda 4000 addetti non lavorano più e sono senza salario e senza
coperture previdenziali). Ma ci sono azioni positive. In Cile il
movimento Unidad Social, quello della lotta dell’autunno scorso e che ha organizzato le manifestazioni dell’8 marzo con due milioni di donne en marcha, come dicono loro, ha dato vita alla catena di solidarietà «El pueblo ayuda el pueblo»;
nella Barcellona di Ada Colau si fa la stessa cosa; a Marsiglia il
collettivo di lavoratori di un servizio McDonald’s invece di stare a
casa si è messo a distribuire il cibo ai poveri andando in autogestione.
Il modello delle catene globali di
produzione ha evidenziato che nei singoli Paesi non si è più autonomi, o
sufficientemente autonomi, rispetto ai bisogni fondamentali (oggi della
salute, domani magari per l’alimentazione). Questo problema è stato
posto da un liberale come Macron, sensibile alla cultura nazionale
francese, il quale ha annunciato che non verranno dati sostegni
finanziari a società che hanno la sede in paradisi fiscali: immaginatevi
l’Italia che agisce nello stesso modo contro FCA e Mediaset… (ma nel
Governo italiano penso che nessuno sia d’accordo e neppure abbia il
coraggio di pronunciarsi).
A contraddizioni economiche e sociali
crescenti si affianca una democrazia decrescente. In tempo di
coronavirus in Ungheria vengono attribuiti pieni poteri a Orban e in
questi giorni in Polonia si sta votando la perdita definitiva e totale
di ogni autonomia del potere giudiziario. Due paesi cattolici, e a metà
novembre scorso si è svolto a Budapest l’incontro mondiale dei difensori
della cristianità a cui hanno partecipato ministri del Governo golpista
di Bolsonaro e di quello appena imposto con le armi in Bolivia (paese,
quest’ultimo, dove i golpisti salutano con la mano tesa e il braccio
piegato, come i nazisti, con una variazione: il pollice l’indice della
mano incrociati).
Tutto ciò impone un primo maggio di
riflessione per un lavoro degno, una società più giusta e una democrazia
viva perché partecipata. A partire da alcuni punti fermi.
1. Un lavoro degno deve
rispettare innanzitutto l’articolo 36 della Costituzione. La
retribuzione deve essere «in ogni caso sufficiente ad assicurare al
[lavoratore] e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Questo
principio costituzionale, oggi inapplicato, può affermarsi a due
condizioni: la previsione di una retribuzione minima dignitosa e quella
di un tempo di lavoro adeguato per ricevere il salario «proporzionato
alla quantità e qualità» del lavoro svolto. È quindi necessaria la
definizione per legge di un salario minimo. A ciò le parti datoriali e
il sindacato si oppongono affermando che la retribuzione è una
prerogativa della contrattazione, per poi, però, essere smentiti e
condannati dalla magistratura per violazione dell’articolo 36. Il
salario minimo è un diritto di cui non dovrebbero disporre le parti
sociali. In Germania ha migliorato i redditi da lavoro per tutti e
aiutato la contrattazione sindacale: perché in Italia non dovrebbe
essere così? E il tempo di lavoro dovrebbe essere tale da garantire, in
combinazione con il reddito minimo, un’esistenza dignitosa. Quindi avere
un orario minimo per poter vivere. La proposta era affiorata
per il centenario della Organizzazione Internazionale del Lavoro ma poi è
stata lasciata cadere. Eppure si ripresenta. Le Trade Unions inglesi
si propongono l’obiettivo delle 32 ore settimanali per tutti. Perché
per tutti? Perché ci sono quelli che ne lavorano di più (e dovrebbero
vedersi ridotto l’orario) e quelli, come gli 800mila lavoratori con i
contratti a zero ore (da noi il lavoro a chiamata dipendente e
autonomo), che si vedrebbero aumentare l’orario.
2. La riduzione di orario deve coniugarsi con la solidarietà. Ad
oggi in Italia, almeno per i rapporti di lavoro a tempo pieno, le
riduzioni d’orario sono concessioni: per l’aiuto ai disabili, per la
paternità, per l’aiuto ai familiari, per lo studio … Il lavoratore
chiede e il padrone autorizza. Non sei libero neanche per le attività
sociali perché il tempo non è tuo, qualcuno te lo ha comprato e ne
dispone. In Germania con il contratto a 28 ore medie di lavoro è il
lavoratore che dispone più liberamente del suo tempo di vita. Ma non
giriamoci attorno, dopo il coronavirus il lavoro e l’occupazione
cambieranno: o si ridistribuisce in modo solidale il lavoro o esso sarà
ancor più cinico di quanto già non lo sia. Oggi la redistribuzione del
tempo di lavoro avviene con il sostegno previdenziale e con i contratti
di solidarietà ma senza sostegno dello Stato che invece persegue la
creazione di posti di lavoro (che nei fatti diventa riduzione dei costi e
precarizzazione dei lavori). La riduzione e ridistribuzione del lavoro
potrebbe diventare una buona politica pubblica: nella Costituzione
dell’Uruguay successiva alla dittatura si afferma, per esempio, che
compito dello Stato è ridistribuire il lavoro.
3. La sicurezza sociale va garantita con un welfare pubblico.
Il tema del reddito minimo garantito è scomparso dall’agenda politica e
sindacale, ma quando sarà introdotto e si farà un bilancio e
un’inchiesta su quello che è avvenuto e sta avvenendo nella società non
si potrà non dire: per fortuna che c’era! Ha sottratto dalla indigenza
una parte di persone. Un reddito a chi non lavora perché il lavoro l’ha
perduto o perché non c’è è doveroso. Ma deve essere una misura
temporanea, almeno per le persone coinvolte che devono alla fine
lavorare con dignità. Ciò richiede misure strutturali e l’orario minimo
garantito può essere una di queste dato che urgono i lavori per i
bisogni fondamentali dell’uomo, della sua vita sociale, del clima e
dell’ambiente. Una società più giusta è anche una società nella quale
ogni cittadino viva un po’ più serenamente perché sa che la scuola è
garantita (e non solo quella dell’obbligo) e che la cura dalla malattia e
la sicurezza nella vecchiaia vengono prima: un rinnovato welfare
pubblico universale è indispensabile. Il solo reddito per accedere a
servizi fondamentali è fonte di diseguaglianze.
È un Primo Maggio che ci sollecita molti
impegni. Tra questi c’è la lezione cilena dell’unità sociale. Dal loro
manifesto: «noi sindacati, associazioni di donne, associazioni di
studenti, di immigrati, di LGTP+, da soli non abbiamo combinato niente,
proviamoci uniti».
Che sia un buon Primo Maggio!
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