venerdì 1 maggio 2020

Al via Pulvirus, la ricerca italiana per capire i legami fra inquinamento e Covid-19 Istituto superiore di sanità: «La mortalità per Covid-19 è elevata in soggetti che già presentavano una o più patologie sulle quali la qualità ambientale indoor e outdoor può aver avuto un ruolo. Ma la complessità del fenomeno rende al momento molto incerta una valutazione»

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 greenreport Luca Aterini
I legami tra inquinamento atmosferico e Covid-19 hanno catalizzato l’attenzione di ricercatori da ogni dove nel mondo, e tutte le evidenze finora raccolte suggeriscono che una cattiva qualità dell’aria possa rappresentare un co-fattore per la mortalità da coronavirus. Siamo però ancora molto lontani dall’avere certezze nel merito: larga parte di questi studi è stata pubblicata in via preliminare (con qualche eccezione, ad esempio questa e questa) e individua rapporti di correlazione tra inquinamento e Covid-19, ma i legami causali rimangono da essere definiti con precisione. Tutti i ricercatori intervenuti nel merito sottolineano la necessità di ulteriori approfondimenti.

Così a scendere in campo è direttamente lo Stato, in stretto rapporto con il progetto europeo Life-Prepair sul bacino padano: l’Istituto superiore di sanità (Iss), il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) e l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) hanno lanciato ieri il progetto di ricerca Pulvirus sui legami tra inquinamento e Covid-19. Attraverso questo progetto – che durerà un anno ma dal quale si attendono i primi «risultati significativi» prima dell’autunno – si approfondiranno molti aspetti del problema: il discusso legame fra inquinamento atmosferico e diffusione della pandemia; le interazioni fisico-chimiche-biologiche fra polveri sottili e virus; gli effetti del lockdown sull’inquinamento atmosferico e sui gas serra.
Pulvirus parte dall’evidenza che «l’introduzione delle misure di contrasto al Covid-19 ha causato riduzioni delle concentrazioni di alcuni inquinanti atmosferici», osservando il lockdown come un ciclopico quanto doloroso e involontario esperimento sociale: «Può dimostrare l’ampiezza e l’intensità delle misure da porre in essere per rispettare i limiti alle concentrazioni e fornire indicazioni per affrontare le cosiddette ‘emergenze smog’ che si ripresentano annualmente».
E riguardo all’ipotesi che l’inquinamento atmosferico abbia contribuito a veicolare il virus e/o ad aggravare gli impatti sanitari di Covid-19? Questi due aspetti, molto diversi tra loro, meritano risposte dedicate.
La prima ipotesi nasce da due studi (questo e questo) condotti da ricercatori italiani della Società di medicina ambientale (Sima) oltre che delle Università di Bologna, Bari, Trieste, Napoli e Milano, che hanno avuto il meritorio ruolo di avviare il dibattito scientifico sul tema in Italia; larga parte della comunità scientifica ritiene però improbabile che il particolato atmosferico possa trasportare virus Sars-Cov-2 in grado di diffondere il contagio. Il tema è molto complesso: in Italia il virus ha presentato la maggiore diffusione nella Pianura Padana, che è tra le aree più inquinate d’Europa, ma è anche una zona ad alta densità abitativa, con aziende che hanno frequenti scambi commerciali con l’estero, e dove la diffusione del contagio in strutture sanitarie (ospedaliere e Rsa) ha agito da forte moltiplicatore dell’infezione. Al momento non sappiamo se anche l’inquinamento è stato un co-fattore nella diffusione di Covid-19.
Diverso è chiedersi se l’inquinamento atmosferico sia un possibile co-fattore alla base della maggiore letalità delle polmoniti da Sars-Cov-2, ipotesi avanzata dalla maggior parte degli studi finora condotti in materia (compresi i già citati della Sima): l’ipotesi in questo caso è che la popolazione esposta cronicamente ad elevate concentrazioni di inquinamento presenti delle fragilità sanitarie (legate all’apparato respiratorio e cardiovascolare ad esempio) in cui il virus trova terreno “fertile” in cui agire, come riassumono da Legambiente. Un fenomeno analogo riguarda il fumo di tabacco: larga parte dei fumatori, spiega l’Istituto superiore di sanità, presenta all’atto del ricovero una situazione clinica più grave, con un rischio di aver bisogno di terapia intensiva e ventilazione meccanica più che doppio rispetto ai non fumatori.
In una nota pubblicata ieri, anche l’Iss afferma che «l’analisi dei decessi su un ampio campione di casi ha mostrato come la mortalità per Covid-19 sia stata elevata in soggetti che già presentavano una o più patologie (malattie respiratorie, cardiocircolatorie, obesità, diabete, malattie renali, ecc.), sulle quali la qualità ambientale indoor e outdoor e gli stili di vita, in ambiente urbano, possono aver avuto un ruolo». Al contempo, l’Istituto superiore di sanità precisa che «la complessità del fenomeno, insieme alla parziale conoscenza di alcuni fattori che possono giocare o aver giocato un ruolo nella trasmissione e diffusione dell’infezione Sars-Cov-2, rendono al momento molto incerta una valutazione di associazione diretta tra elevati livelli di inquinamento atmosferico e la diffusione dell’epidemia Covid-19, o del suo ruolo di amplificazione dell’infezione. Uno studio potrà essere svolto con il corretto approccio scientifico, solo quando l’epidemia e l’emergenza saranno terminate».
Nel frattempo sarà Pulvirus a provare a dare risposte più circostanziate: l’obiettivo del progetto è quello di effettuare un’analisi seria e approfondita su queste tematiche, fondata su protocolli scientifici verificabili, così da fornire a istituzioni e cittadini informazioni attendibili utili per la migliore comprensione dei fenomeni e l’assunzione delle opportune decisioni.
Nell’attesa, è utile ricordare che – indipendentemente da Covid-19 – l’inquinamento atmosferico rappresenta per il nostro Paese un’emergenza sanitaria cronicizzata e mai davvero affrontata: secondo gli ultimi dati dell’Agenzia europea dell’ambiente l’Italia è il primo Paese in Europa per morti premature da biossido di azoto (NO2) con circa 14.600 vittime all’anno, ha il numero più alto di decessi per ozono (3.000) e il secondo per il particolato fine PM2,5 (58.600). Da soli questi tre inquinanti mietono 76.200 vite all’anno, contro i 27.682 finora attribuiti a Covid-19.

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