Dopo due mesi di quiete, l’Invalsi esce allo scoperto
proponendo per settembre batterie di test per misurare le competenze
acquisite durante il periodo di didattica a distanza. La crisi sanitaria
diventa così l’occasione per commissariare definitivamente gli
insegnanti e distruggere il poco che resta della scuola dopo la truffa
della “buona scuola”.
di Anna Angelucci, da Roars.it
Nella fase 1, che dura da anni e che ci ammorba ben prima del
coronavirus, l’Invalsi ha lavorato alacremente per inoculare nella
scuola il veleno della misurazione, delle competenze, dell’oggettività
di fantomatici apprendimenti degli studenti da testare con il suo
fastidiosissimo termometro, ancorché spuntato. Nessuna ‘falsificazione’
di popperiana memoria, quantunque prevista e necessaria per la verifica
di qualsivoglia teoria scientifica, ha potuto neppure incrinare il suo
principio di veridizione, assurto metafisicamente a dogma dai tronfi
sacerdoti dell’Istituto, da generazioni di politici-lacchè di destra,
sinistra e centro e da inossidabili burocrati ministeriali, tutti
fedelmente preposti al rito vuoto della valutazione del sistema
d’istruzione. Che trovava in sé, a prescindere dall’infondatezza e
dall’autoreferenzialità degli strumenti messi in campo per misurare
tutto e non modificare nulla, la sua soddisfatta ragion d’essere. Tanto
capillare – e costosa – quanto inutile.
Nel frattempo, la scuola (che nasceva, sarebbe bene ricordarlo urbi et orbi, come istituzione della Repubblica costituzionalmente preposta a sanare le differenze socio-culturali di partenza), sempre più trasformata in ente locale erogatore di servizi on demand, gestita da un sistema misto pubblico-privato guidato da incapaci staff dirigenziali, subiva le pressioni del mondo produttivo 4.0[1] che la voleva piegata alla mera formazione di lavoratori operativamente competenti ma cerebralmente incapienti, abili nel fare rapidi copia-incolla ma privi di cultura e capacità di comprensione di sé e del mondo. L’uso pervasivo dei test standardizzati a crocette inaugurato dall’Invalsi si è travasato rapidamente nelle pratiche didattiche delle scuole, realizzando da valle quella torsione pedagogica a monte che ha trasformato l’educazione in addestramento, sotto lo sguardo attonito di chi, sempre più solo e sempre più marginalizzato, ha continuato a difendere i percorsi lunghi, lenti, faticosi, soggettivi, situati, personali e incorporati (e dunque soggettivamente valutabili) dell’acquisizione della conoscenza e dei saperi. Vox clamantis in deserto[2].
Poi è arrivato il coronavirus. Che, nella crisi sanitaria, ha imposto di necessità il trasloco armi e bagagli della scuola in presenza nella distanza di 8 milioni di case, tante quanti sono i nostri studenti. Mentre i docenti si arrabattavano con gli alunni non solo per svolgere ma soprattutto per dare senso a questa didattica dell’emergenza, la ministra esternava sui media improbabili soluzioni concrete puntualmente rimangiate, i suoi fidi collaboratori poetavano su circolari scritte in versi burocratici suggerimenti didattici grondanti di retorica bonomia, e infine si insediava anche al MIUR una bella task force guidata dall’ennesimo economista preposta a riorganizzare la scuola dell’era Covid a suon di investimenti ultramilionari non per la necessaria e indifferibile edilizia scolastica ecosostenibile ma per comprare computer dalle multinazionali e incrementare le connessioni della rete. La scuola 4.0 immaginata come una mega infrastruttura digitale.
Ci aspettavamo che i signori Invalsi, un ente preposto e finanziato anche per la ricerca educativa, ci dessero nel frattempo qualche utile suggerimento. Che la presidente dell’Invalsi, ordinaria di Psicologia dello sviluppo, aiutasse maestre, studenti e famiglie nella gestione delicata di una didattica a distanza rocambolescamente e angosciosamente adottata, giorno dopo giorno, nella paura, nella preoccupazione, nelle difficoltà economiche, nel divario sociale, nel contesto politico patogeno, ben più del virus, che con le sue scelte scellerate passate e presenti sta compromettendo drammaticamente la possibilità di futuro di 60 milioni di italiani.
Niente di tutto questo. Due mesi di assordante silenzio, rotto solo adesso dall’improvvida notizia che per settembre l’Istituto ha messo a punto la sua bella, stra-ordinaria, ennesima batteria di test per misurare le “competenze apprese durante il periodo della didattica a distanza”. Senza minimamente intervenire, neppure una sola volta, nel merito della didattica a distanza svolta in condizioni d’emergenza, delle sue implicazioni, dei suoi correlati cognitivi e metacognitivi, dei suoi risvolti scientifici, della complessità dei suoi aspetti teoretici e del suo svolgimento pratico, l’Istituto ha alacremente lavorato per noi. Nulla di obbligatorio e calendarizzato, per carità. Il direttore generale Paolo Mazzoli, che quando era un semplice dirigente scolastico e prima ancora maestro elementare, pensava che “fare scienze vuol dire aiutare i bambini a guardare con curiosità i fatti del mondo”[3], ci tranquillizza dicendo che queste prove “non sono obbligatorie e non hanno alcun significato valutativo, ma vogliono essere una misurazione per scopi di progettazione didattica”, specificando altresì che Invalsi, servizievolmente – bontà sua – offre a scuole e docenti la possibilità di una “valutazione attendibile”[4].
Perché, quella che i docenti stanno implementando in queste settimane di impegno e di fatica, non lo è? Il coronavirus è forse l’occasione ghiotta per commissariare definitivamente gli insegnanti? L’occasione ghiotta per distruggere il poco che resta della scuola dopo la truffa della “buona scuola”; dopo la torsione pedagogica delle ‘competenze trasversali’ e dello ‘spirito di imprenditorialità’; dopo l’istituzione di un Sistema Nazionale di Valutazione che ha frullato e impastato per anni numeri, dati e statistiche senza produrre un solo effetto migliorativo sulla scuola italiana, piuttosto peggiorandolo; dopo la trasformazione burocratica della disabilità in BES; dopo l’insufflamento nelle classi pollaio che oggi si pensa di risolvere con gli schermi pollaio; dopo che la sopravvivenza fisica è garantita alle sole figure apicali del Ministero e dell’Invalsi lautamente remunerate, mentre 8 milioni di studenti e 800.000 docenti stanno per scomparire nel web senza che nessuno si ponga il problema delle implicazioni psicologiche, antropologiche, pedagogiche, professionali, o più semplicemente umane, che questo potrà comportare?
A fronte di un quadro tanto devastato che anche un cieco ormai sarebbe in grado di vedere, quello che conta davvero è solo produrre in silenzio l’ennesima batteria di test attendibili.
Perché in questo momento non mi viene in mente nessun’altra parola se non VERGOGNA?
NOTE
[1] Anna Angelucci, Giuseppe Aragno, Le mani sulla scuola. La crisi della libertà di insegnare e di imparare, Castelvecchi, Roma, 2020
[2] Si leggano gli articoli sulla scuola di Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo et al. pubblicati sul sito di Roars
[3] N. Lanciano, M.Iacona, F. Fedele (a cura di), L’educazione scientifica nelle scuole dei piccoli, vol.1, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2008, p.28
[4] Alex Corlazzoli, “Coronavirus,
la proposta Invalsi: “Test per misurare le competenze apprese dagli
studenti durante i mesi di didattica a distanza”, Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2020
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