volerelaluna
La casa brucia e i bimbi giocano con la benzina. Potrebbe essere la metafora di quello che sta accedendo in Europa, di vertice in vertice, e in Italia, stante il dibattito pubblico sulle misure per la cosiddetta “ripartenza” che vede impegnati sindacati, politica, governo, organizzazioni datoriali.
1.
La crisi nella quale ci stiamo infilando
non ha niente a che vedere con le ultime cento crisi che hanno
interessato il capitalismo mondiale negli ultimi trent’anni. Non è una
crisi valutaria, non è una crisi finanziaria che si trasmette
all’economia reale. Escludendo le due guerre mondiali, per capirci
qualcosa dovremmo andare indietro di qualche secolo, quando altre
catastrofi sociali hanno avuto come causa scatenante una malattia alla
stadio epidemico diffuso o pandemico. È inutile spiegarla con categorie
ripescate nello scatolone delle teorie economiche sulle crisi. Il suo
innesco è stato provocato dallo stop imposto dai Governi alle attività
produttive e commerciali e alla mobilità delle persone, a livello
interno e internazionale. È come quando la notte, prima di
addormentarci, spegniamo la luce. Clic! Certo, le specifiche
caratteristiche del sistema economico dominante hanno influito sulla
diffusione del virus e, soprattutto, stanno influendo sul decorso della
crisi economica, ma questo discorso merita, a ben vedere, una
trattazione a parte.
Il problema, adesso, è il risveglio.
Solo un folle potrebbe pensare che il “giorno dopo” sarà uguale al
“giorno prima”. E infatti, tutte le cifre sull’entità della crisi che
dovremo affrontare sono da capogiro. Numeri da fare impallidire quelli
della “crisi” per antonomasia, la Grande Depressione degli anni Trenta
del secolo scorso. In Europa si prospetta una caduta del PIL che non ha
precedenti in tempo di pace. Trilioni di ricchezza finanziaria in fumo,
un’ecatombe di ore lavorate, milioni di lavoratori a rischio di finire
per strada. I sindacati europei hanno stimato che, dai primi di marzo ad
oggi, 17 milioni di persone hanno già perso il posto di lavoro o hanno
usufruito di forme di sostegno al reddito in ambito UE. E siamo solo
all’inizio. La crisi inopinata ed eccezionale, a mano a mano che
riapriranno fabbriche, i laboratori e gli esercizi commerciali,
diventerà sempre più convenzionale, fino a sfociare in una gigantesca
crisi di domanda. La caduta verticale dei redditi privati renderà sempre
più squilibrato il rapporto tra capacità produttiva delle imprese e
domanda effettiva di beni e servizi, complice anche la contrazione della
domanda estera. Hai voglia di dare garanzie alle imprese e soldi alle
banche per fare credito, se fuori dalle fabbriche e dai negozi non ci
sono persone con i soldi in tasca pronti ad acquistare i loro prodotti!
La chiave della ripresa non sarà nella “riduzione degli spread”, né
nell’ammontare degli incentivi e degli sgravi per le aziende, ma nel
reddito delle persone fisiche e nella risposta fiscale degli Stati.
Prendendo a prestito le parole di Paul Krugman, possiamo sintetizzare
così il concetto: «Il reddito di ognuno deriva da cose che vendiamo a
qualcun altro. La tua spesa è il mio reddito, la mia spesa è il tuo
reddito». Ovviamente intendendo per “cose” che si vendono anche il
prodotto del lavoro intellettuale. L’offerta, insomma, non ha mai creato
la domanda, nemmeno ai tempi di Jean-Baptiste Say, che su tale assunto
aveva costruito le sue fortune di economista nel pieno della Rivoluzione
industriale. Figuriamoci adesso.
Non solo bonus una tantum e
cassa integrazione, pertanto. Siamo già oltre queste incombenze.
L’eccezionalità della situazione richiede almeno tre scelte strategiche:
reddito di base incondizionato, riduzione dell’orario di lavoro a
parità di salario, creazione diretta di lavoro da parte dello Stato,
attraverso agenzie sul modello della Works Progress Administration (WPA)
americana che funzionò negli anni del New Deal. È il momento di
ripensare i rapporti di produzione e fare del denaro pubblico una leva
per rimettere in sesto l’economia. Torna Keynes? In parte sì. Adesso
serve sia il Keynes che sollecitava «l’impiego generoso del denaro
pubblico», sia quello che, riflettendo sull’accelerazione delle scoperte
scientifiche e tecniche a partire dal secolo XVII e sulla
«disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di
manodopera», preconizzava l’avvento di una società in cui gli uomini
avrebbero avuto più tempo a disposizione per «cogliere l’ora e il giorno
con virtù». Non è la rivoluzione, ovvero la riappropriazione integrale
della propria vita da parte degli uomini e delle donne, ma ciò che in
questo momento serve affinché questa crisi non abbia effetti devastanti
sui ceti più deboli, più vulnerabili, della nostra società. Finora,
però, nei consessi europei la notte del lockdown sembra non
aver portato consiglio, mentre in Italia è già partita l’offensiva
padronale contro le “vecchie ideologie” che impedirebbero di uscire
presto e bene dalle difficoltà in cui ci troviamo.
2.
In Europa, il denaro scorre a fiumi
lungo i canali che conducono alle banche, ma per i cittadini non
sgocciola niente. Eppure, ci sono dei giudici a Karlsruhe che,
paventando questo “rischio”, hanno solennemente interrogato i vertici
della BCE. Temono che alcuni Stati, risparmiando sugli interessi che
pagano ai mercati per finanziarsi, possano avere qualche spicciolo in
più da spendere nei loro bilanci. Eh no, non si fa così in Europa! Chi
vuole più soldi deve chiederli in prestito alle istituzioni preposte.
Accettare la sorveglianza esterna sui propri bilanci e impegnarsi a
risanare le proprie finanze quando l’emergenza sarà finita. I conti in
ordine vengono prima del diritto a mangiare, bere, vestirsi, vivere. Il
laboratorio greco da questo punto di vista è stato un “successo”, o no?
Sembra assurdo, ma c’è una precisa
filosofia dietro. È il principio secondo cui la consapevolezza dei
rischi connessi all’indebitamento deve fare da freno alle ambizioni di
spesa dei Governi, fonte di inflazione e di squilibri macroeconomici. Se
tutti sono occupati e hanno un reddito come la si mette con la curva
della produttività marginale? Debitocrazia. Se lo Stato è come una
famiglia, prima di fare debiti ci pensa due volte: o si accontenta della
tasse che pagano i cittadini o paga pegno ai mercati finanziari. E se i
mercati non si fidano, il pegno lo paga alle istituzioni che mettono a
disposizione le linee di credito alternative. Salvo che un po’ di debito
non serva per salvare banche e imprese private, tanto poi il conto
verrà comunque spalmato su tutta la società.
È storia. L’ultima crisi è stata chiusa
esattamente in questo modo. Buchi nei bilanci bancari diventati buchi
nei bilanci statali, imprese che hanno socializzato largamente le
perdite, tenendo al riparo i propri profitti. Rischio d’impresa? Ma
dove, ma quando? Forse per le piccole realtà, piccole imprese e
artigiani che si sbattono da mattina a sera per tenere alzata la
serranda, non certo per le grandi aziende che sguazzano nell’economia
globalizzata e finanziarizzata. Sì, quelle che attraverso le loro
associazioni di categoria già chiedono meno burocrazia, più
flessibilità, meno tasse, soldi a fondo perduto, regole snelle, e fanno
appello alla “responsabilità” dei sindacati. Giustamente, la crisi è
forte e i lavoratori qualche sacrificio lo devono fare… I lavoratori,
mica loro. Che poi, un aumento degli occupati influenzerebbe la dinamica
salariale. Quindi, meno tasse e più flessibilità, ma anche qualche
occupato in meno per reggere la sfida della competitività sui mercati
esteri, giocando sul costo del lavoro. Schema classico, che però non
tiene conto di un dato: anche fuori dai confini nazionali la domanda
sarà indebolita dagli effetti di questa crisi pandemica. A meno che non
si scommetta sull’indebitamento privato (ampliamento della platea dei
“consumatori indebitati”), preparando, a catena, una nuova crisi
finanziaria.
3.
Scenario troppo pessimistico?
Al momento non ci sono segnali di una
inversione di rotta. Anzi, c’è di peggio. Il rischio che, a differenza
delle crisi precedenti, le esigenze di contenimento del contagio possano
giustapporsi alle esigenze di contenimento di eventuali proteste
sociali. Nelle attuali condizioni, solo per fare un esempio, sarebbe
possibile un’Acampada come quella di Plaza de Puerta del Sol a Madrid
nel 2011?
C’è molto da riflettere.
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