venerdì 27 marzo 2020

Stare a casa dovrebbe voler dire anche poter essere curati a casa.

Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care. Stiamo dolorosamente imparando che c’è bisogno di esperti di salute pubblica ed epidemie.
Stare a casa dovrebbe voler dire anche poter essere curati aPer esempio, stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19, poiché si riempiono rapidamente di malati infetti che contagiano i pazienti non infetti.
Lo stesso sistema sanitario regionale contribuisce alla diffusione del contagio.
Questo disastro poteva essere evitato soltanto con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio. Per affrontare la pandemia servono soluzioni per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali.
Cure a domicilio e cliniche mobili evitano spostamenti non necessari e allentano la pressione sugli ospedali. Ossigenoterapia precoce, ossimetri da polso, e approvvigionamenti adeguati possono essere forniti a domicilio ai pazienti con sintomi leggeri o in convalescenza. Bisogna creare un sistema di sorveglianza capillare che garantisca l’adeguato isolamento dei pazienti facendo affidamento sugli strumenti della telemedicina.
Un tale approccio limiterebbe l’ospedalizzazione a un gruppo mirato di malati gravi, diminuendo così il contagio, proteggendo i pazienti e il personale sanitario e minimizzando il consumo di equipaggiamenti protettivi.
Sono le parole di una drammatica lettera appello di un gruppo di medici dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, pubblicata sul New England journal of medicine.

Sotto l’urto drammatico dell’afflusso dei malati di Covid19, questi operatori non rinunciano a riflettere e a farci riflettere. Ci ricordano infatti, dal centro dell’emergenza, che l’epidemia si vince anche e soprattutto prima e fuori dell’ospedale e aggiungono un’occasione ulteriore per cui essere loro grati.
In questi giorni, questa faccia del problema sembrerebbe cominciare a emergere anche altrove. Nell’incontro quotidiano con la stampa del 24 marzo, Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, ha ricordato, anche se un po’ incidentalmente, per la verità, che “la battaglia si vince anche sul territorio, perché le persone non debbano arrivare agli ospedali, perché vengano intercettati prima”. Giorgio Gori ha riconosciuto che uno dei punti critici della sanità lombarda è proprio nella debolezza della sua medicina territoriale.
Ci sarà il tempo per ragionare, come i professionisti di Bergamo ci invitano a fare, sulla impostazione del lavoro e della allocazione delle risorse dei sistemi sanitari e anche del nostro, come ci sarà tempo per riflettere sulla torsione aziendalistica del modello “patient-centered” che è stato imposto al nostro sevizio sanitario e che ha sacrificato, negli anni dei tagli, tutti i servizi territoriali e di comunità, dai consultori ai servizi di prevenzione.
Ma adesso dobbiamo rispondere ai medici di Bergamo. Noi cittadini rimaniamo a casa, per tutto il tempo che sarà necessario. Ma ora si richiedono nelle case dove viviamo anche altre risposte.
Siamo ancora in tempo, oggi, per ascoltare queste voci, per mettere mano, come si sono concentrati sforzi finanziari e organizzativi, per cercare di mettere in grado i nostri ospedali, falcidiati da anni di tagli dei posti letto, delle attrezzature e del personale, di rispondere all’epidemia e al carico improvviso e straordinario di ricoveri ospedalieri e in terapia intensiva, sul potenziamento e il rafforzamento, con strumenti, materiali, risorse, personale alla medicina territoriale e in particolare alla rete dei medici di famiglia, che pure ha già pagato un prezzo di contagiati, ammalati e vittime?
Siamo ancora in tempo a rispondere alla richiesta dei medici ospedalieri che chi può, possa rimanere a casa, anche se malato, assistito e rassicurato? Siamo ancora in tempo per evitare che i medici di medicina generale debbano combattere nelle retrovie degli ospedali praticamente a mani nude?

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