di Fabrizio Tonello
“Ci vediamo martedì” ha ironizzato un consigliere di Michael
Bloomberg dopo aver saputo della “vittoria decisiva” di Joe Biden in
South Carolina. In effetti, l’anziano ex vicepresidente ha vinto
largamente nello stato in cui si è votato sabato 29 febbraio ma
l’appuntamento che permetterà di capire se ha delle chances di
conquistare la nomination democratica è quello del 3 marzo, il
cosiddetto super martedì in cui si voterà in 14 stati, tra i quali due
pesi massimi come Texas e California. Bloomberg, che sarà presente sulle
schede per la prima volta, spera in un risultato che gli permetta di
presentarsi come l’alternativa a Bernie Sanders. Sia lui che Joe Biden
vogliono diventare il candidato centrista che fermi la corsa del
senatore del Vermont, che l’establishment democratico teme più del
Coronavirus.
In realtà, quasi tutti i sondaggi attuali mostrano che nell’ipotesi
di un duello contro Donald Trump, il Bernie Sanders lo sconfiggerebbe,
con margini che variano dal 2% al 6%. Dobbiamo ricordarci che nel 2016
Hillary Clinton aveva superato Trump nel voto popolare (quasi tre
milioni di voti in più) e fu sconfitta solo dall’arcaico meccanismo del
Collegio elettorale che sovrarappresenta gli stati rurali dove i
repubblicani sono più forti. Anche in questo caso, tuttavia, Sanders se
la caverebbe bene, superando Trump nei sondaggi degli stati chiave come
Michigan, Wisconsin e Pennsylvania.
Oltre ai sondaggi su come gli elettori potrebbero comportarsi il 3
novembre (non dimentichiamo che sette mesi nella politica americana sono
un’eternità) possiamo analizzare il comportamento effettivo degli
elettori nelle prime quattro votazioni in Iowa, New Hampshire, Nevada e
South Carolina. Sanders ha ottenuto il miglior risultato nel voto
popolare in tutti e tre i primi stati e si è comportato dignitosamente
nell’ultimo: il modo in cui ha vinto fa presagire una forza elettorale
generalmente sottovalutata.
Questi punti di forza di Sanders contano perché la composizione dell'elettorato nel 2020 sarà sensibilmente diversa da quella del 2016 e più favorevole ai democratici. Pew Research prevede che questo sarà un elettorato più vario dal punto di vista razziale, con persone di colore che costituiranno un terzo di tutti gli aventi diritto. La quota di potenziali elettori della generazione tra i 18 e i 23 anni sarà più del doppio rispetto al 2016, il 10% contro il 4%. I giovani americani sono molto più progressisti e democratici dei loro padri e nonni: già nel 2016 la Clinton aveva superato Trump di quasi 20 punti tra gli elettori sotto i 30 anni, e nel 2018, alle elezioni per il Congresso, il 67% di loro ha votato democratico. Per quanto riguarda i latino-americani, quasi due terzi di loro vota costantemente Democratici. Un fattore che conterà sia nelle primarie di martedì, dove si vota in Texas e in California, sia nelle elezioni generali del 3 novembre: nel 2016 Trump vinse in Arizona, per esempio, con 91.000 voti di scarto: da allora, ben 160.000 latinoamericani hanno compiuto 18 anni e potranno votare.
Per sfruttare appieno questa energia giovanile, Sanders dovrà rafforzare il suo sostegno tra gli elettori afro-americani e riconquistare gli elettori che hanno disertato il partito democratico nel 2016 perché la Clinton era troppo moderata per i loro gusti. Per esempio, il candidato verde Jill Stein nel 2016 sottrasse alla Clinton un numero di voti superiore al margine di vittoria di Trump in due stati decisivi come Michigan e Wisconsin. Sanders ha ottime possibilità di prevalere nel voto popolare il 3 novembre e anche di recuperare i circa 78.000 voti nei tre stati che nel 2016 hanno dato la vittoria a Trump nel Collegio elettorale, Michigan e Wisconsin, appunto, insieme alla Pennsylvania. Un risultato che candidati come Biden o Bloomberg non possono sperare di ottenere.
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