sabato 21 marzo 2020

Occupiamoci dell'acqua. Per non lasciare in eredità ai nostri figli e nipoti anche tragedie idriche.


Perché mai come oggi, anche nella tragedia delle nostre vite sospese da contagio del coronavirus, niente riesce a rappresentare meglio del ciclo dell’acqua le emergenze degli effetti del cambiamento climatico in corso che già impattano su alcune aree della penisola, e tenderanno a diventare più acuti in assenza di interventi e opere per poter gestire sempre più lunghi periodi di siccità e deficit pluviometrici con l’altra faccia della medaglia che sono alluvioni sempre più a carattere “esplosivo”,  la salinizzazione con l’effetto cuneo salino che sta colpendo gli acquiferi costieri con penetrazione di acqua marina che inquina le falde dolci, la desertificazione con circa il 20% del territorio nazionale a rischio inaridimento e in particolare nelle regioni meridionali dove registriamo aree in riduzione di produttività agricola e perdita di biodiversità e aumento dei fattori di disturbo biotici con attacchi batterici, parassitari.

Ma i dati Onu sono terribili, e sono nell’“idro-pandemia” in corso da troppo tempo: circa 1 miliardo di persone al mondo non hanno accesso all’acqua potabile, più del doppio 2.4 miliardi soffrono l’assenza di strutture igienico-sanitarie adeguate, 1 bambino su 5 muore per sete o malattie legate all’acqua e sono 4.500 vittime al giorno, più che per guerre o incidenti stradali, e quasi il 40% della popolazione mondiale convive con problemi di scarsa disponibilità d’acqua che sono anche causa di oltre 50 conflitti nel mondo (37 dei quali armati) per il controllo delle riserve idriche nei punti più caldi della terra.
All’Italia serve una reazione decisa con una visione nuova, razionale, sostenibile della sua gestione. Ma quanta acqua abbiamo nel nostro Paese? Quanta ne utilizziamo? E quanta ne sprechiamo?
La risposta alla prima domanda è una bella sorpresa, emersa dall’accurato lavoro scientifico di Istat, Cnr e Ispra e dalle analisi del nostro “Osservatorio Permanente sulla risorsa idrica”, al quale partecipano amministrazioni pubbliche, enti scientifici con esperti e climatologi, consorzi di bonifica dell’Anbi, Protezione Civile, soggetti titolari di competenze, utilizzatori, concessionari, associazioni ambientaliste e dei consumatori. La mappa degli aspetti relativi all’idrologia (piogge, evaporazione, deflussi superficiali e sotterranei) ci carica di grandi responsabilità. Ci dice che non siamo solo il Belpaese d’o Sole ma anche dell’acqua, come nessun altro in area Ue e nella gran parte del mondo. Abbiamo noi il record di piogge: ogni anno siamo beneficiati, in media, con 300 miliardi di metri cubi di acqua che garantiscono la dotazione stellare di 5mila metri cubi per abitante all’anno, una enormità se paragonata ai consumi medi annui di una famiglia media di tre persone pari a circa 120 metri cubi.
Per questo, siamo custodi del più ricco e complesso sistema idrologico del continente, e nessun altro europeo può vantare 7.494 corsi d’acqua, 347 laghi con 12.500 piccoli invasi regionali e 4000 specchi d’acqua alpini, e 1.053 falde sotterranee serbatoi di acqua purissima e buonissima. Basta dunque con l’immaginare, come accade spesso per demagogia o ignoranza, l’Italia come un Paese africano con scarsità di risorsa. 
Oggi, di questo bene naturale preleviamo appena l’11,3% all’anno in media sul totale delle piogge, all’incirca 34,2 miliardi di metri cubi, persino meno rispetto al 13,2% del 1971. Ed è così distribuito: 46,8% nell’agricoltura, 27,8% per usi civili, 17,8% per usi industriali, 4,7% per produrre energia, 2,9% per la zootecnia. Di questo prelievo utilizziamo 26,6 miliardi di metri cubi, al loro interno distribuiti così: 51% agricoltura, 21% industria, 20% civile, 5% energia, 3% zootecnia.
Ciò vuol dire che perdiamo per strada 7,6 miliardi di metri cubi di acqua, più o meno il 20%. E chi ne perde di più? Teoricamente, gli usi al rubinetto, sul quale politica, media e noi cittadini accendiamo gli unici riflettori, evitando lo sguardo d’insieme e di illuminare i due terzi degli usi che restano nel cono d’ombra. Ma questo dipende anche dalla circostanza che vede il segmneto della gestione idrica integrata con gli unici dati certificati (pur con falle evidenti al Sud) da una Autorità nazionale, l’Arera.
I valori degli altri usi, ben più superiori per prelievi, sprechi e perdite, non sono né verificati né calcolati da nessun ente o autorità locale, regionale o nazionale, e sono largamente sottostimati per l’inefficienza o la mancanza di sistemi di misurazione, convenienze trasversali, falle del sistema concessorio.
In ogni caso sono troppi ed evidenti gli sprechi nel settore civile come quelli in agricoltura, anche se molti passi in avanti sono stati fatti per ottimizzare ed estendere le tecniche di risparmio con la distrettualizzazione, il telecontrollo e nell’irrigazione. Ma resta un buco nero l’utilizzo industriale con l’imbarazzante e insuperabile muro alla trasparenza e alla capacità di riuso dell’acqua piovana e di depurazione a fronte di elevatissimi consumi di acqua di falda, la migliore, spesso buttata via per raffreddare i macchinari. Non c’è alcuna sorveglianza su questi volumi prelevati, e molte fonti e sorgenti pubbliche sono concesse a costi risibili, e senza polemiche, a business privati come lo sfruttamento di acque minerali che sono un patrimonio pubblico ma vengono vendute come un qualsiasi altro prodotto sul mercato, con l’acqua tranquillamente trattata come una “merce” secondo logiche di domanda e offerta, e di cui siamo terzi consumatori al mondo dopo Messico e Emirati Arabi pur avendo a disposizione l’acqua pubblica tra le migliori del mondo.
La prima nuova regola è dunque di occuparsi di tutta l’acqua con un lavoro costante per le infrastrutture che le sono funzionali e avviando una “regolazione” complessiva di tutti i prelievi e gli usi, affidata all’Autorità Arera e alle 5 Autorità di Distretto idrografici che hanno accorpato da due le 83 Autorità di bacino e con “Osservatori permanenti” lavorano con istituzioni, enti scientifici, consorzi di bonifica e associazioni al “bilancio idrico nazionale”. Non occupiamoci solo dei usi civici, dunque, ma anche del restante 72,2%.
Occuparsene significa anche capire che l’acqua è simbolo, è natura, è emozione, ma dai tempi degli Assiri è anche ingegno e lavoro costanti. Non è solo una grande questione ambientale, ma richiama fortemente il tema delle opere e degli investimenti, essendo la risorsa strettamente dipendente dalle infrastrutture che devono portarla al rubinetto o nell’irrigazione o ad altri usi. E’ tema da serie A della politica  locale e nazionale, perché andando avanti così continuiamo solo a scaricare i problemi di oggi sulle future generazioni, e anche perché con tutta evidenza troppe crisi idriche sono solo troppe crisi di infrastrutture idriche. L’acqua non ci manca ma non riusciamo a trasportarla dove e quando serve perché i grandi investimenti idrici si sono fermati a 40 anni fa, e perché fatta la Legge Galli nel 1994 lo Stato e il Parlamento si sono completamente disinteressati del tema, affidandolo ai 92 ambiti comunali, un terzo dei quali dopo 26 anni nemmeno costituti. E gli effetti di vedono dove la legge Galli non è ancora applicata (in 5 regioni quasi tutte al Sud).
Dall’analisi del fabbisogno di opere realizzata dall’Anbi, si prevede la necessità di almeno altri 2000 piccoli e medi invasi con più funzioni (dall’idropotabile all’irriguo alla laminazione delle piene e all’antincendio). La norma sugli invasi e gli acquedotti approvata con la legge di bilancio 2017, fortunatamente è una realtà di pianificazione a lunga scadenza che inizia a funzionare, con un fondo risorse gestito dal Ministero delle Infrastrutture e da Arera su piani validati dalle Autorità di Distretto.
Ma ciò che rende l’idea dell’abbandono dello Stato è nell’Italia penisola blu che in alcune aree tende al nero. Proprio noi, il Paese che ha inventato tremila anni fa gli acquedotti e le cloache maxime, tremila anni dopo è in coda all’Europa per problemi di acquedotti (per un 15% di italiani). La nostra rete idrica, soprattutto al Sud, ha il record di perdite, e sono le più alte della media in area Ue: la media nazionale è del 37,3% dei 335 litri per abitante immessi giornalmente nelle reti comunali (Istat 2020) per un consumo pro capite giornaliero più elevato d’Europa da 237 litri a testa. Detratte le perdite commerciali (contatori invecchiati, prelievi abusivi e bollette non riscosse tra il 10 e il 15%), gli sprechi sono sempre troppi, e variano man mano che aumenta l’assenza di aziende con capacità industriali e di autofinanziamento e delle manutenzioni fino al 100% in alcune aree del Sud dove si immettono 2 litri per averne 1.
Le perdite sono in aumento costante, ma sempre direttamente proporzionali agli investimenti. Su oltre 500mila km di tubazioni idriche italiane, almeno 200 mila km sarebbero da rottamare, sostituire, riparare o rigenerare in fretta. In più, servirebbero posare 50.000 km di nuove reti (30.000 per l’acqua e 20.000 per le fognature). Il 60% della nostra rete civile risale infatti a oltre 30 anni fa, il 25% ha superato il limite dei 70 anni, e sotto i centri storici resistono condotte risalenti anche ai tempi dell’Unità d’Italia.
Non c’è una bacchetta magica. Ma ci deve essere un lavoro costante per aumentare il tasso nazionale di rinnovo bassissimo: 3,8 metri di condotte per ogni km, calcola Utilitalia, quasi tutte al centro-nord grazie alla presenza di aziende effidcienti e di multiutility comunali quotate in borsa (Acea, A2a, Hera, Iren) con performance tra le migliori d’Europa. Su scala nazionale, calcola sempre Ulilitalia, con questo ritmo, occorrerebbero 250 anni per raggiungere perdite accettabili come in gran parte d’Europa, diciamo sotto il 10%.
La scandalosa mancanza di reti fognarie e depuratori (anche industriali) è causa dell’inquinamento di due terzi dei nostri corpi idrici superficiali. Oggi sembriamo un Paese in via di sviluppo di fronte al dato di 3 italiani su 10 (la maggioranza di chi vive in Sicilia, Calabria e Campania, ma anche 4 abitanti su 10 in Lombardia e Friuli) privi di sistemi di fognatura, collettamento e depurazione. A 15 anni dal termine ultimo del 2005 per la loro messa a norma prevista dalla Direttiva Ue del ’91/271, resta clamorosa la vastità delle omissioni degli obblighi assunti come Stato membro. Sono 4 i procedimenti della Corre di Giustizia europea per infrazione per mancato o non adeguato rispetto della Direttiva per il trattamento delle acque reflue urbane: le procedure 2004/2034 e 2009/2034 sono già condanne con sanzioni, e sono in corso altri due procedimenti 2014/2059 e 2017/2181 che ne annunciano altre due. Questo vuol dire qualcosa come 500 milioni all’anno di sanzioni accumulate che dovremo pagare tra un anno (ma 60 milioni li stiamo pagando oggi) fino al completamento di reti fognarie e depuratori, per 1.122 agglomerati comunali inadempienti con circa 2500 Comuni fuorilegge, il 70% al Sud, e metà di questi in Sicilia. Solo due aree metropolitane italiane su 14 hanno scarichi urbani depurati al 100%: Firenze e Torino. E’ un rimosso nazionale. Eppure la Commissione Ue presieduta da Romano Prodi negli anni Ottanta appioppò le stesse sanzioni a Milano senza depuratori e pagammo milioni fino alla loro costruzione in emergenza. Non ci ha insegnato nulla! Facciamo non solo figuracce, ma regaliamo e regaleremo tanti soldi all’Europa per multe salate fino a quando non la smetteremo di operare con licenza di inquinare fiumi, laghi, mare, campagne.
Ma la mancata depurazione nelle regioni meridionali non è nemmeno un problema di risorse che mancano. Varie Delibere del Cipe hanno finanziato a fondo perduto reti fognarie e depuratori per diversi miliardi (2.416 miliardi di euro solo nelle Delibere Cipe 62/2011 per 695 milioni, 87/2012 per 121 milioni e 60/2012 per 1,6 miliardi). Un bel pacco regalo, visto che al centro-nord queste opere si costruiscono con le tariffe. Ma sono rimasti in gran parte sulla carta per carenze di governance pubbliche, assenza di aziende con capacità tecnica e organizzativa adeguata, e oggi nonostante il lavoro, tra mille difficoltà, del Commissario nominato dal governo due anni fa, si procede come si può.
Ma ormai le falle della benemerita Legge Galli sono evidenti. Ha fatto il suo tempo. Ha fatto crescere dal 1994 i volumi degli investimenti nel centro-nord, chiudendo emergenze croniche e storiche, ma se lascia 10 milioni di italiani con problemi di acquedotti e circa 20 milioni di fogne e depuratori, se dopo 26 anni sconta una troppo lunga fase di non applicazione ancora in Sicilia, Calabria, Campania, parte del Lazio e Molise, se la leva tariffaria è tabù, se abbiamo servizi al centro-nord con standard europei e in tanta parte del meridione i più vergognosi, vuol dire che è ora di cambiare.
Quel che io penso è che non regge più la tariffa-spezzatino con 63 bollette diverse per ambiti là dove sono costituiti. La loro media è intorno a 180 euro l’anno, tre o quattro volte più bassa di quella europea, persino della Grecia.
La tendenza generale consolidata è però a non aumentare la tariffa, inutile farsi illusioni. E l’impresa di tappare falle di questa portata è impossibile di fronte al disimpegno dello Stato. Il fabbisogno di investimenti - i più utili, i più green, anticiclici e costanti - è stimato da Utilitalia al gettito di almeno 5 miliardi all’anno. Tradotto, significa portare gli attuali 35 euro investiti ad abitante-anno (meno di 10 euro nelle circa duemila gestioni comunali, cioè zero) almeno a 80 euro (nei Paesi Bassi ne investono 129, nel Regno Unito 102, in Francia e Germania 88...).
Per questo, il Parlamento dovrebbe aprire una discussione seria sulla riforma della legge Galli e sulla tariffa unica nazionale sul modello dell’energia elettrica, regolata e definita dall’Arera e da Autorità comunali-regionali. Arera può stabilire, nell’ambito del metodo tariffario, le componenti di costo riconoscibili, i vincoli e i ricavi e i meccanismi perequativi dei vari gestori, e predisporre l’articolazione tariffaria nazionale che tutti i gestori sono tenuti ad applicare, con agevolazioni per fasce di italiani in difficoltà. Ma resta un obbligo a capi dello Stato: la quota di investimenti per la depurazione che andrebbe scorporata se non del tutto ma quasi dalla tariffa, facendola ritornare nella fiscalità generale. Abbattuto il micidiale Patto di Stabilità, può tornare a farsene carico lo Stato per una quota di 1,5-2 miliardi all’anno come obbligo per ridurre l’effetto sanzioni europee e tutelare ambiente e acque da inquinamenti come da Costituzione.
In conclusione, serve una discussione serena e seria, abbandonando le due tipologie di approccio che ci hanno portato fin qui. Da un lato lo schema demagogico delle curve sud, ognuna delle quali sventola la sua bandierina ideologica: privatizzazione o ri-pubblicizzazione, chiudendo gli occhi su ritardi e carenze strutturali. Dall’altro lato, cavalcare il tema dell’acqua confondendola con tubi, scambiando il sistema pubblico (che forma le tariffe, controlla e gestisce) con privati approfittatori del bene comune, e gli investimenti come bieco profitto. Insomma, basta immaginare nemici là dove non ci sono. Guardiamo piuttosto di non lasciare in eredità ai nostri figli e nipoti anche tragedie idriche.

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