venerdì 27 marzo 2020

Libro. Ripensare Dario Fo.

Sono sempre di più gli studi in Italia e all’estero che si occupano di Dario Fo e della sua opera teatrale. Una prova ne è un volume appena uscito, “Ripensare Dario Fo. Teatro, lingua, politica”, a cura di Luca D’Onghia ed Eva Marinai (Mimesis). Una lettura utile per capire meglio quale sia il posto del grande autore-attore lombardo nella recente storia della cultura italiana.




 
micromega Michele Martelli
La critica teatrale sembra oramai concorde nel riconoscere in Eduardo De Filippo e Dario Fo i due incontestabili «classici» della commedia italiana del secondo Novecento. Del teatro di De Filippo è stata già approntata e pubblicata un’edizione critica, filologicamente inappuntabile[1], dell’opera di Fo (di cui il 24 marzo è ricorso il 94o genetliaco) non ancora. Ma sarà mai possibile?

Almeno due le difficoltà. Quella di De Filippo è una graffiante commedia popolare di costume, o di caratteri, innegabilmente radicati nella storia di Napoli, perciò non ha suscitato particolari controversie; quello di Fo è invece un teatro antagonista, divisivo, di feroce satira politica contro «l’oscenità del potere», politico, economico, culturale e religioso, da cui sono nate polemiche non ancora placatesi (basta vedere i giudizi controversi sul suo Nobel).

Inoltre, l’opera di Fo è sterminata, molto più irregolare e frastagliata di quella di De Filippo, e costituita da una sovrabbondanza di appunti, disegni, articoli, interviste, canzoni, performances d’occasione, in teatri improvvisati e in rai-tv, e testi progettati, abbozzati, scritti e riscritti e recitati in forme sempre nuove, una miniera inesauribile di cui è testimonianza l’Archivio Rame-Fo, consultabile on line all’indirizzo http://archivio.francarame.it/.

Eppure, cresce costantemente in Italia e all’estero il numero di studiosi che si occupano di Fo e della sua opera teatrale sotto vari aspetti, culturale, linguistico, politico, storico, letterario, filologico. Una prova ne è il libro appena uscito, Ripensare Dario Fo. Teatro, lingua, politica, a cura di Luca D’Onghia ed Eva Marinai, Mimesis, Milano, 2000: un volume collettaneo in cui sono raccolti i contributi del convegno di studi, svoltosi presso la Scuola Normale Superiore di Pisa il 30 ottobre 2017, giornata conclusasi con la rappresentazione di un pezzo di Mistero buffo di Dario Fo, cioè Il primo miracolo di Gesù bambino, interpretato dal giovane attore Matthias Martelli, sotto la guida del regista Eugenio Allegri.

Sul complesso argomento della nuova messa in scena di Mistero buffo, sponsorizzato dal Teatro Stabile di Torino, e allestito poi in due versioni successive, – spettacolo che, a dire il vero, anch’io ho avuto occasione di vedere svariate volte, essendo il padre dell’attore, – si sofferma a conclusione del libro Eugenio Allegri, ricostruendone ed esponendone analiticamente «problematiche e presupposti» (pp. 145-158).

I contributi raccolti nel volume, gli autori dei quali sono alcuni dei massimi esperti di storia del teatro italiano e di Fo-Rame in particolare, possono essere raggruppati, un po’ schematicamente, su due fuochi principali: la ricostruzione filologica, linguistica e intertestuale (Anna Barsotti, Chiara Battistella, Luca D’Onghia, Michele Maiolani, Eva Marinai, Pietro Trifone, Piermario Vescovo) e il giudizio sul «Fo politico» (Joseph Farrell).

A) «Le difficili nozze di Fo e Filologia» (D’Onghia). In Fo c’è una curiosa «antinomia» tra, da un lato, la sua avversione per la cultura ufficiale, accademica, astratta, avulsa dalla realtà sociale e politica, rinchiusa nella sua torre d’avorio senza tempo e senza spazio, popolata da inutili schiere di «eruditi supercritici-spulciaioli» e «cacadubbi chiosatori»[2], e, dall’altro, il suo bisogno di cercare una sponda, suggerimenti, consigli e perfino riconoscimento negli esponenti e nelle istituzioni di quella contestata cultura ufficiale. (È ancora da studiare in dettaglio il debito di Fo verso la monumentale ricerca di due accademici come Gianfranco Contini e Vito Pandolfi)[3].

Si spiega dunque perché Fo accetta il Nobel (altri lo rifiutarono, come Sartre), cioè il massimo premio letterario internazionale (da non dimenticare che i soldi li dà in beneficienza!), ma non disdegna nemmeno, per esempio, la parentesi di un corso annuale di lezioni di Estetica all’Università di Urbino negli anni Settanta, o, l’ho scoperto da poco, il conferimento di una laurea honoris causa in Filologia, letteratura e storia il 13 giugno 2012 dall’Università di Foggia.

In tale antinomia s’inseriscono i collaboratori del volume, tutti a vario titolo, guarda caso!, docenti e professori universitari, e tutti, chi più chi meno, ammiratori di Fo (altrimenti, come giustificare un convegno specialistico su Fo alla Scuola Normale Superiore di Pisa?), di cui sottolineano in vario modo la insuperabile grandezza, originalità e genialità. Senza tuttavia rinunciare, il che è ovvio, ad affondare il doloroso bisturi della critica laddove necessario.

Tra i saggi compresi nel volume, tutti ugualmente degni di rilievo, – penso all’articolato intervento di Vescovo, che ricostruisce la storia teatrale di Fo, inserendo l’autore-attore lombardo nella complessa rete di artisti e intellettuali del secondo Novecento, da Testori a Strehler; o alle dotte pagine di Marinai, che indica nella figura del trickster o «briccone divino» uno dei centri dell’inventiva affabulatrice di Fo; o al breve acuto testo di Trifone, che suggerisce di ricercare l’etimo del termine grammelot nel francese grommelot (= esercizi vocalici, rumori inarticolati, borbottii), in uso in ambiti teatrali vicini a Jacques Lecoq e al suo «teatro fisico», a cui anche Fo è in parte debitore, – mi son sembrati tuttavia particolarmente stimolanti, almeno per il lettore medio, quelli di D’Onchia, Battistella e Maiolani.

D’Onchia, «inforcati gli occhiali» del filologo e critico testuale, si intrattiene sul rapporto di somiglianze/differenze linguistiche, narrative e scenografiche tra la prima stesura di Lu Santo Jullàre Françesco, del 1999, e la seconda, del 2014 (del testo lo studioso dice di aver già pronta un’edizione critica, ma l’Archivio Fo-Rame, per motivi inespressi, non ne ha autorizzato la pubblicazione: p. 57, nota 12).

Battistella, d’altra parte, sviluppa una serie di acute riflessioni sulla presenza del teatro greco-romano nell’opera di Fo e Rame, rilevandone influssi diretti e indiretti, consapevoli e inconsapevoli, di molti autori, tra cui Aristofane, Sofocle, Euripide, Plauto e Seneca: interessante il raffronto tra il mito ovidiano dell’autocannibalismo di Erisittone[4] (chissà se Fo ne fosse a conoscenza) e La fame dello Zanni in Mistero buffo (pp. 34-35, nota18).

Maiolani infine, mosso da autentica acribia filologica, studia la complessa genesi di Mistero buffo, ed esaminandone scrupolosamente le fonti, pone l’accento sulla «bibliografia creativa» di Fo (p. 80), racchiudibile in tre elenchi: a) testi citati in modo approssimativo, ma sostanzialmente corretto; b) quelli con titoli incompleti, o alterati, o in parte inventati; c) quelli infine «non individuabili», o «inventati di sana pianta», come per es. «il libro di un certo professor Civolla, sui Fabulatori dell’Alto Verbano», mai esistiti, sia l’autore sia i fabulatori (p. 98)[5].

Il che per lo stesso studioso è meno urticante di quanto sembri, consapevole dell’ammiccante spiritoso avvertimento di Fo: «Troverete testi con il titolo originale in tedesco o in inglese. L’ho fatto solo per impressionarvi» (p. 90); oppure: «Le nostre fonti non sono sempre attendibili, ma di certo sono quasi sempre affascinanti»[6]. L’uso disinvolto e creativo delle fonti nulla toglie all’inestimabile valore artistico del teatro di Fo.

B) «Fo politico: guerriero fuori regola» (Farrell). Tutta la storia di Fo uomo, cittadino, autore-artista è una storia di dura e dissacrante critica e contestazione dei potenti di turno, della loro insignificanza, piccolezza, corruzione, ipocrisia, bieca volontà di sopraffazione dei più deboli; nota la motivazione del Premio Nobel: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi». Quindi un lato negativo e uno positivo dell’attività politico-teatrale di Fo. È quanto sostiene Farrell nel suo intervento ricco di spunti e di aneddoti.

«Dappertutto e sempre» Fo ha messo alla berlina il potere con l’arma della satira, che egli radica nella tradizione giullaresca medioevale e nella Commedia dell’Arte, tanto da ritenere più consona alla sua opera la categoria gramsciana (forse, penso, anche bachtiniana) di «teatro» non politico, ma «popolare», anticipazione di un «teatro di classe» (p. 75).

Smascherare il potere, di ieri e di oggi, cogliendo il passato nel presente e il presente nel passato: ecco il suo imperativo. Da ciò l’esilarante memorabile satira di papa Bonifacio VIII, simbolo dei potenti di ogni epoca, quindi anche della nostra, come Wojtyla, ridicolizzato da Fo in Il papa e la strega, del 1989, o Fanfani-Fanfanicchio, preso di mira anche per la sua bassa statura nel Fanfani rapito, del 1975, o Berlusconi, sbeffeggiato nell’Anomalo bicefalo, del 2004.

Ma quale sia la cifra positiva dell’ideologia politica di Fo è un problema non ancora risolto. Farrell ritiene di individuarla sia nel personaggio romanzato di Ciulla, il grande malfattore, del 2014[7], un «alter ego di Fo» (tesi, evidentemente, alquanto azzardata, perché Ciulla è sì architetto, ribelle, pittore, geniale fabulatore, ma anche malfattore, fuorilegge, falsificatore di banconote); sia nel comico genovese Beppe Grillo, cofondatore del Movimento 5 Stelle, definito da Fo col «prestigioso titolo di giullare. Il Grillo di Fo è un suo alter ego», «un personaggio che abita un mondo a metà strada fra la realtà politica e quella della fiction» (pp. 70-71).

Ipotesi, quest’ultima, maggiormente verosimile, a me sembra, in quanto si concilia con l’immagine di un Fo «anarco-utopista piuttosto che marxista» (p. 72) (anche se Fo ha sempre amato definirsi marxista):

a) anarchico e libertario, perché insofferente di ogni disciplina, dottrina o burocrazia partitica: non si iscrisse mai né al Pci né ad altre organizzazioni politiche di sinistra o ultrasinistra, nemmeno negli anni ruggenti del Sessantotto, mentre successivamente aderì al M5S proprio per le sue originarie (ma quanto apparenti?) caratteristiche movimentiste di non-partito, privo di regole e statuti; b) utopista, perché era insita nella sua satira del potere l’immaginazione di un mondo nuovo, libero dai potenti della terra, «senza inferno» per i deboli, e all’insegna della pacificazione uomo-natura (da ciò l’interesse dell’ultimo Fo per le questioni ecologiche).

Insomma, un libro certamente complesso, non facile, ma che tuttavia chiunque può leggere con profitto, sia chi ama Fo e il suo teatro, sia chi desidera capire meglio quale sia il posto del grande autore-attore lombardo nella recente storia della cultura italiana.

NOTE

[1] E. De Filippo, Teatro, edizione critica e commento a cura di N. De Blasi e P. Quarenghi, Mondadori, Milano, 2000-2007.
[2] D. Fo, Manuale minimo dell’attore, a cura di F. Rame, Einaudi, Torino, 2009, p. 4. 
[3] G. Contini (a cura di), Teatro religioso del medioevo fuori d’Italia. Raccolta di testi dal secolo VII al secolo XV, Bompiani, Milano, 1949; V. Pandolfi, La commedia dell’arte. Storia e testi, Sansoni, Firenze, 1958.
[4] Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Einaudi, Torino, 1979, libro ottavo, vv. 739-878.
[5] Del professor Civolla Fo racconta nel suo libro autobiografico Il paese dei mezaràt. I miei primi sette anni (e qualcuno in più), a cura di F. Rame, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 101, 125-131. [6] D. Fo, Manuale cit., p. 359. [7] D. Fo, P. Sciotto, Ciulla, il grande malfattore, Guanda, Parma, 1914.

(26 marzo 2020)

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