Nel saggio “Nemici miei” (Einaudi) la psicoterapeuta Nicoletta Gosio indaga la rabbia quotidiana che pervade sempre più il nostro presente. Un atteggiamento aggressivo e risentito in cerca del capro espiatorio che da condizione individuale è diventato fenomeno collettivo. Una catastrofe culturale che ha origini sociali ben precise.
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micromega Pierfranco Pellizzetti
«Gli uomini (dice un’antica sentenza greca) sono
tormentati dalle opinioni che hanno delle cose non
dalle cose stesse. […] se ciò che chiamiamo male e
tormento non è né male né tormento in sé, ma solo
in quanto la nostra immaginazione gli dà questa
qualità, sta a noi cambiarla»[1].
Montaigne
dalle cose stesse. […] se ciò che chiamiamo male e
tormento non è né male né tormento in sé, ma solo
in quanto la nostra immaginazione gli dà questa
qualità, sta a noi cambiarla»[1].
Montaigne
«La malafede è al tempo stesso un crimine e
una nevrosi, perché lede la lealtà dei rapporti
e compromette il funzionamento dell’Io»[2].
Simona Argentieri
una nevrosi, perché lede la lealtà dei rapporti
e compromette il funzionamento dell’Io»[2].
Simona Argentieri
Nicoletta Gosio, Nemici miei, Einaudi, Torino 2020
Futili motivi, grandi lacerazioni
Il viaggio a cui ci invita questo recentissimo saggio della valorosa e amabilissima psicoterapeuta bolognese, inizia sulle note pop della canzone di John Paul Young Love is in the air, colonna sonora di un’epoca ben diversa dall’attuale. O - almeno – così veniva percepita ancora a quel tempo (sia chiaro: a Londra o dalle mie parti, non a Bandung 1955 o nel Quarto Mondo).
Stanti le primavere che affardellano le mie vecchie spalle (e una scarsissima anglofilia), rispondo sempre in chiave musicale alla nostra autrice con una canzone del 1952; scritta e cantata dal poetico/disperato Jacques Brel, che si direbbe aver letto in anticipo il testo di cui parliamo: La Haine, la rabbia. Con quel suo refrain terribile e inconsciamente profetico: “l’amour est mort, vive la haine”.
In questo tempo che ha sdoganato troppi personaggi ignobili, in primis la Cattiveria.
Quell’atteggiamento aggressivo e risentito da odiatore seriale alla ricerca di uno sfogo, che verifichiamo quotidianamente in autobus o sui social; di cui la nostra compagna di viaggio ci fornisce un numero esaustivo di esempi: dalle violenze fisiche per futili motivi alla modifica della personalità una volta saliti alla guida di un’automobile (con relativa metamorfosi nell’autista assassino ma invisibile del film Duel di Steven Spielberg). Nient’altro che sfoghi alla ricerca di un bersaglio. Possibilmente contiguo. E se Nicoletta Gosio segnala la «continua crescita di minacce e aggressioni al personale sanitario» (pag. 85), reazione inconsulta di «una cultura fobica della relazione con il mondo»[3], posso confermare che per ragioni professionali sto registrando anch’io il dilagare inarrestabile delle violenze contro medici e paramedici nel sistema ospedaliero pubblico ligure. Vittima in larga misura innocente delle dinamiche psichiche di proiezione, per cui «che la colpa sia sistematicamente di altri, con i quali perciò posso prendermela, è già facilmente verificabile» (pag. 4). Certo. Ma non voglio – altresì – dimenticare che negli ultimi anni l’intera struttura nazionale ha subito la falcidia di ben 70mila posti letto e tagli per non meno di 37 miliardi di euro. Non per giustificare, ma per capire.
Sicché – a questo punto – mi chiedo cosa può aggiungere al “fatto psichico” un vecchio cultore del “fatto sociale”, impegnato da una vita nell’interpretazione del volo di volatili umani usando come lente l’araba fenice della categoria Potere.
Per cui, quando la nostra nuova amica Nicoletta spiega che «vediamo le cose per come siamo, ma non vediamo quello che è dentro di noi. Sovente, in ciò che pensiamo degli altri e gli altri pensano di noi, c’è qualcosa di quello ce non si può o non si vuole pensare di sé. La logica millenaria del capro espiatorio, il nemico sul quale riversare contenuti indesiderati e mali per poi perseguirlo, prolifera nell’odierna capillare infiltrazione negli ordinari rapporti interpersonali di sentimenti di ostilità» (pag. 111), mi chiedo: come mai questa condizione individuale è diventata ormai da almeno quattro decadi un fenomeno collettivo a tendenza globale?
Fine delle buone maniere o apocalisse culturale?
Di certo non si può ridurre la faccenda alle semplici maniere; e ha ragione la nostra autrice ad affermare che «il bon ton di per sé non è ovviamente mai stato garante di una reale attenzione al valore e alla diversità altrui» (pag. 20). Del resto – in anticipo su Norbert Elias – ci aveva già messo in guardia Johan Huizinga riguardo all’artificiosa ritualizzazione dei formalismi comportamentali come affettazione tendente all’ipocrita[4]. Senza dimenticare, prima ancora di questi insigni storici novecenteschi, lo smaliziato insegnamento di François de La Rochefoucauld sull’ipocrisia come “omaggio che il vizio rende alla virtù”.
Eppure gli aspetti formali, nella logica lumeggiata dalle indagini di Pierre Bourdieu sulla “distinzione come critica sociale del gusto” (“espressione distintiva di una posizione nello spazio sociale […] Come ogni altra specie di gusto, essa unisce e separa”[5]), sono un sintomo importante di avvenuti sommovimenti nella composizione sociale. Cambiando punto di osservazione – dalle aristocrazie borghesi parigine alle antiche maestranze del porto di Genova – modificazioni del costume che rivelano perfino trasformazioni profonde del patrimonio valoriale. Dal tempo in cui l’appello alla solidarietà, “madre della benevolenza” – riproposto nel linguaggio psicanalitico come riduzione dei nemici esterni grazie allo smascheramento dei nostri nemici interni – era il punto centrale nella cultura degli antichi camalli; rinominato “mutualismo” nel lessico ottocentesco (non solo attraverso le cooperative di consumo e le leghe di resistenze, ma anche grazie alla creazione di biblioteche proletarie e l’apertura delle proprie mense e i propri ambulatori a tutti i poveri della città).
Un mondo perduto, come risalta al confronto con l’attuale desolazione delle banchine desertificate del porto, a seguito delle rivoluzioni organizzative labour saving; in cui - parafrasando il Tommaso Moro e le sue “pecore che si mangiavano gli uomini”, all’epoca del primo capitalismo agrario - “i cassoni metallici (leggi container) hanno fatto piazza pulita delle maestranze”.
La catastrofe culturale prefigurata da Ernesto De Martino che è diventata antropologica. Di cui la diffusione del risentimento è il primo sintomo. Sicché – dicendola con Richard Sennet – se «le persone temono di essere licenziate, di essere messe da parte […] le disfunzioni del sistema economico generano risentimento. Questa parola designa un intreccio di emozioni, cui appartiene in primo luogo la sensazione che la gente semplice, che ha rispettato le regole, non sia stata trattata giustamente. Il risentimento è un forte sentimento sociale che tende a staccarsi dalle sue origini economiche e a trasferirsi in altre dimensioni»[6].
Alla fine degli anni Settanta John Kenneth Galbraith annunciava l’entrata nella “Età dell’incertezza”[7], oggi ci siamo ritrovati al tempo dello smarrimento indotto dall’insicurezza; e le psicologie ferite reagiscono cercando l’eterno capro espiatorio in chi hanno sottomano.
Una catastrofe culturale trasformatasi – appunto – in antropologica e discendente dalle turbative intervenute sull’elemento fondante dell’ordine che era venuto costituendosi al tempo che Eric Hosbawm definiva “L’età dell’oro” e i francesi “i Trenta gloriosi”; l’epopea del New Deal e del Welfare State: la sicurezza, come primario mastice sociale e indispensabile motore dell’integrazione.
Le origini sociali del malessere
Per meglio spiegarmi farò ricorso anch’io al sempre prezioso Zigmunt Bauman e alle sue formule icastiche (seppure spesso più brillanti che profonde), per utilizzarne un valido contributo. Ossia la sostituzione di significato nella semantica securitaria, evidenziabile solo in lingua inglese (mentre non è riconducibile al generico sicherheit di Sigmund Freud, così così nell’indeterminatezza delle terminologie neolatine), rappresentata dalla transizione di centralità nei criteri collettivi di preminenza della security (certezza di ruolo in quanto a posizione nello spazio sociale) in safety (incolumità personale)[8]. Dunque, “non è la sicurezza della dignità personale, dell’orgoglio dell’abilità tecnica, del rispetto di sé, della comprensione umana e del trattamento umano, ma la sicurezza del corpo e degli effetti personali, […] la sicurezza nei confronti di coloro che violano la nostra proprietà e degli estranei sulla porta di casa, da vagabondi e mendicanti, maniaci sessuali dentro e fuori casa, avvelenatori di pozzi e dirottatori di aerei”[9].
A questo punto l’insicurezza diventa vera, purissima, paura. Quella paura che blocca lo scorrere del tempo, spostandolo dall’orientamento al futuro delle passate stagioni speranzose all’eterno presente immobile della finanza.
Consapevolezza che ritrovo nitidamente tra le pagine di Nicoletta Gosio, quando descrive Donald Trump intento a manomettere la psiche di un’intera nazione, virando “l’ansia diffusa del declino di un Paese nel pregiudizio contro gli immigrati” (pag. 74). Semmai il problema è ricostruire come siamo arrivati a questo punto. Perché nulla vi è stato di casuale nello sbaraccamento della società benevola che promuoveva security, sostituita da un regime terroristico tenuto assieme da una promessa mendace/strumentale di safety. Quanto – in un’ottica italocentrica – denunciava già dieci anni fa Barbara Spinelli: “lo spirito dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue TV ha dilatato al contempo i risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei salvati, sostituendo lo Stato sociale con la compassione e l’ignoranza”[10].
Ma il già cavaliere di Arcore è solo un tardivo epigono di processi avviati ben prima nel cuore del sistema-mondo a centralità anglosassone, nella transizione del capitalismo da industrialista a finanziario. La cosiddetta “rivoluzione Neo-conservatrice”, la cui incubazione data già dal secondo dopoguerra (i “liberali da Guerra Fredda” alla corte di Friedrich Hayek), ha fatto le sue prove generali con l’ancora acerba candidatura alla presidenza degli Stati Uniti di Barry Goldwater nel 1964, si è imposta come svolta epocale grazie all’ascesa di Margaret Thatcher (1979) e Ronald Reagan (1981). Svolta (contro)-rivoluzionaria basata sulla costruzione di un “blocco storico” anti-rooseveltiano costituito dall’aggregazione “degli abbienti e degli impauriti”, grazie a politiche di smantellamento dello Stato attraverso elargizioni di vantaggi fiscali agli abbienti e campagne comunicative terroristiche per indurre guerre tra poveri e focalizzare l’attenzione dei già impauriti su minacce esterne incombenti.
Il tutto incartato nel packaging NeoLib.
La tesi ideologica secondo cui la società non esiste, il mercato è il decisore di ultima istanza, la predominante è quanto i philosophes della Rive Gauche definiscono “assiomatica dell’interesse avido”. L’egoismo come forza costituente, nell’ultimo aggiornamento della perniciosa metafora della Mano Invisibile. Sono quel che ho.
Per quanto riguarda – nello specifico - le trasformazioni della società italiana che hanno indotto l’infelicità ringhiosa da cui siamo circondati, ritengo che un ruolo non secondario lo abbia svolto la mutazione genetica di una parte di ceto medio in quella che io chiamo “neo-borghesia cafona”; che il filosofo Maurizio Ferraris identifica in “quelli che posteggiano il SUV in terza fila”. Un ceto prodotto dagli arricchimenti di dubbia origine, a seguito dei saccheggi del patrimonio dello Stato iniziati sotto l’egida del CAF (il trio Craxi, Andreotti, Forlani), come svendita del debito pubblico ai cosiddetti boat-people, gli imperi dei robber barons nostrani nelle praterie di un Paese ridotto a far west. Primo fra tutti il tycoon Mediaset, clonatore e sdoganatore della succitata borghesia cafona. La razza di arrampicatori sociali – dai Briatore ai Fabrizio Corona, passando per le Santanché - convinta di incarnare il criterio di apprezzabilità sociale coltivato nel cafonal dei Billionaire; modello per tutti i furbetti del quartierino e i ragazzotti/ragazzotte che affollano le Isole dei Famosi. Eppure personalità assediate da un senso di precarietà, indotto dalle loro opache origini sociali, tradotta nell’insicurezza ostentativa che ne caratterizza i comportamenti. E che diventa la cifra stilistica del nostro tempo.
Chi ci salverà?
È pensabile imboccare un’uscita di sicurezza individuale, “come soluzione biografica a contraddizioni sistemiche”? C’è da dubitarne. Anche se rispetto sinceramente lo sforzo immane dei terapeuti per rammendare le ferite psicologiche di tante (recalcitranti) personalità ferite.
È praticabile una sensibilizzazione alla correttezza attraverso la rettifica delle pratiche comunicative imbastardite? Dalla messa al bando degli “webeti” dei social - come li chiama Enrico Mentana - alla testimonianza buonista? Ne dubita la sempre saggia Simona Argentieri: “il politically correct, nato come strumento di progresso e di rispetto per l’alterità, è divenuto uno dei ricettacoli favoriti della malafede”[11]. Taglia corto Robert Huges, il fu critico d’arte del Times, definendolo “una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscano con un tuffo nelle acque dell’eufemismo”[12]. Ci fornisce una chiave interpretativa molto interessante al riguardo l’antropologo Jonathan Friedman, professore emerito dell’Università di California, segnalando che “nei regimi di precarietà sociale il discorso politicamente corretto trova terreno fertile in cui sviluppare regimi paralleli di rigido controllo della comunicazione”[13]. In altre parole, pratiche linguistiche rivelatrici di poste in gioco nel vasto campo dei rapporti di potere; in cui “il politicamente corretto appare in situazioni di crisi egemonica in cui le vecchie e nuove élite competono per crearne di nuove o per ristabilire le vecchie”[14].
Analisi che rafforza la percezione secondo cui la condizione che stiamo vivendo è l’aspetto di una più generale transizione di fase storica. Ne discende che la risposta alla domanda “quale salvezza” non sembra poter essere ricercata se non in vasti processi di mobilitazione sociale, di cui stento a scorgere le tracce.
Sembrava che tra il 2008 e il 2011 si appalesasse una svolta promossa dall’indignazione planetaria; ma presto i processi di normalizzazione al ribasso sembrano aver ripreso il governo della situazione.
Strategie – osserva Nicoletta Gosio – in cui “la paura può essere un portentoso strumento di controllo sociale” (pag. 75).
Eppure – giunti al termine del viaggio - la nostra compagna continua a coltivare una visione ottimistica: “non trovo un’altra epoca in cui mi pare fosse preferibile vivere e che offrisse tante opportunità quanto l’attuale. Proprio per questo penso che il nostro sia tempo di grande potenzialità” (pag. 115).
Profezia formulata nella speranza che si auto-avveri?
Anche perché il suo appello al coraggio del pensiero critico non può che tradursi in disincanto. Quel disincanto che dovrebbe segnalarci l’esaurimento di una lunga deriva storica, in cui l’involuzione del Capitalismo potrebbe prefigurarne l’implosione. Con il susseguente passaggio a quel “caos sistemico” prospettato dall’economista Giovanni Arrighi[15]; in cui lo sradicamento e lo smarrimento aumenterebbero il tasso di risentimento rabbioso.
Oppure un nuovo inizio?
Sarà per gli anni (o i chilometri, come precisava Indiana Jones) che ho percorso, ma il mio stato d’animo è assai più vicino a quello del Franco Fortini annata 1949: a metà della strada – tra due distanze/ quando memoria e previsione hanno taciuto/ tra la fine del fiume e il principio del mare/ tra due orizzonti eguali e assoluti…
NOTE
[1] Michl de Montaigne, Essais (Vol. I), Adelphi, Milano 2005 pag. 61
[2] Simona Argentieri, L’ambiguità, Einaudi, Torino 2008 pag. 105
[3] René Kaës, Il malessere, Borla, Roma 2013 pag. 38
[4] Johan Huizinga, L’autunno del medioevo, Sansoni, Firenze 1978 pag. 57
[5] Pierre Bourdieu, La distinzione, il Mulino, Bologna 1983 pag. 56
[6] Richard Sennet, La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna 2006 pag. 99
[7] John K. Galbraith, L’età dell’incertezza, Mondadori, Milano 1977
[8] Zigmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000 pag. 25
[9] Zigmunt Bauman, L’Europa è un’avventura, Laterza, Roma/Bari 2006 pag. 83
[10] Barbara Spinelli, “Gioventù bruciata”, la Repubblica 8 dicembre 2010
[11] Simona Argentieri, L’ambiguità. Cit. pag 39
[12] Robert Huges, La cultura del piagnisteo,Adelphi, Milano 1994 pag. 35
[13] Jonathan Friedman, Politicamente corretto, Meltemi, Sesto San Giovanni 2018 pag. 297
[14] Ivi pag. 258
[15] Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008 pag. 428
[2] Simona Argentieri, L’ambiguità, Einaudi, Torino 2008 pag. 105
[3] René Kaës, Il malessere, Borla, Roma 2013 pag. 38
[4] Johan Huizinga, L’autunno del medioevo, Sansoni, Firenze 1978 pag. 57
[5] Pierre Bourdieu, La distinzione, il Mulino, Bologna 1983 pag. 56
[6] Richard Sennet, La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna 2006 pag. 99
[7] John K. Galbraith, L’età dell’incertezza, Mondadori, Milano 1977
[8] Zigmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000 pag. 25
[9] Zigmunt Bauman, L’Europa è un’avventura, Laterza, Roma/Bari 2006 pag. 83
[10] Barbara Spinelli, “Gioventù bruciata”, la Repubblica 8 dicembre 2010
[11] Simona Argentieri, L’ambiguità. Cit. pag 39
[12] Robert Huges, La cultura del piagnisteo,Adelphi, Milano 1994 pag. 35
[13] Jonathan Friedman, Politicamente corretto, Meltemi, Sesto San Giovanni 2018 pag. 297
[14] Ivi pag. 258
[15] Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008 pag. 428
(2 marzo 2020)
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