martedì 17 marzo 2020

Le curve, la retta e la quarantena della politica. Stare a casa non basta/1

collettivo militant
E’ davvero complicato provare a prendere parola collettivamente rispetto “all’emergenza coronavirus” con il clima di opinione che si è generato in questo paese. Da giorni siamo tutti letteralmente investiti da un flusso unidirezionale di informazioni da parte del circuito mediatico e da quello politico che sembra non avere fine e che sta alimentando un senso di ansia e di insicurezza diffuse che difficilmente avremmo potuto immaginare soltanto un mese fa.
A questo flusso “istituzionale”, che si dirige dall’alto verso il basso, si aggiunge poi la cacofonia delle decine e decine di post, tweet, meme, appelli, video e messaggini WhatsApp che quotidianamente ognuno di noi riceve orizzontalmente dai contatti della propria “infosfera” social e che, coerenti con il mood dominante, come in un sistema di forze danno comunque come risultante quello della estrema drammatizzazione della situazione. Sia ben chiaro, non vogliamo certamente negare la serietà dell’epidemia in corso, ma non vogliamo nemmeno cedere allo storytelling della catastrofe “naturale” , e quindi “imprevedibile”, con cui si sta cercando di depoliticizzare la situazione, nascondendone le cause sistemiche e alimentando un clima da “unità nazionale” che serve soltanto a nascondere le responsabilità politiche più che a individuare come uscire da questa situazione.
E già, perché qui, di fronte a questo approccio millenaristico, fatto proprio purtroppo anche da tantissimi compagni ormai “individualizzati” tanto quanto il resto della società, la prime cose che sembrano essere state messe in quarantena sono state proprio la politica e il pensiero critico. Ci asterremo dalle considerazioni strettamente mediche, non abbiamo competenze specifiche e diffidiamo di chiunque in questi giorni abbia conseguito velocemente una laurea in medicina all’Università di Google, magari con una specializzazione in virologia su Facebook o Twitter. Abbiamo ovviamente delle opinioni in merito, ma, per l’appunto, si tratta di opinioni e quindi ce le teniamo per noi evitando di aumentare inutilmente il rumore di fondo. Pensiamo che andrebbero presi con le molle anche i tanti modelli predittivi che ci vengono proposti a ogni piè sospinto, tanto quelli “catastrofisti” che quelli “riduzionisti”, le variabili in campo sono numerose e la conoscenza dei dati è ancora estremamente limitata. Pensiamo solo al parametro della “letalità” del virus, di cui pure si fa largo uso per mettere a confronto le strategie messe in atto dai diversi paesi, ovvero del rapporto percentuale tra i deceduti e il numero dei contagiati. Sembrerebbe un calcolo relativamente semplice, di quelli che tutti abbiamo imparato a fare alle scuole medie, eppure già nel decidere quale sia il dato da inserire al numeratore subentra un elemento di discrezionalità non irrilevante che cambia, e di molto, la percezione sociale dell’epidemia: ossia se conteggiare solo i malati morti di Covid 19 o quelli morti con il Covid 19. La differenza della letalità registrata nella Corea del Sud (66 deceduti su 7979 contagiati L=0,8% nell’ultimo report disponibile del OMS) e quella dell’Italia (1266 deceduti su 17660 contagiati L=6,5%), due paesi che hanno una struttura demografica simile, si spiega anche in questo modo. Per il dato da inserire al denominatore il livello di indeterminatezza è poi ancora più alto, perché come ci è stato abbondantemente spiegato in questi giorni dagli stessi epidemiologi dell’ISS, una percentuale non ancora ben definita di “contagiati” non presenta né presenterà mai sintomi, per cui non avrà mai motivo di sottoporsi ad un tampone (sempre che ce ne siano a sufficienza), e la stessa cosa vale per molti di quelli per cui la sintomatologia non andrà oltre quella di una normale influenza. Insomma si tratta di una stima per difetto molto approssimativa che ci pone di fronte a scenari estremamente differenti. Tanto per fare un esempio: se fossero realistiche le ipotesi della virologa Ilaria Capua i contagiati non censiti sarebbero 100 volte di più di quelli dichiarati e quindi la letalità sarebbe cento volte più bassa. C’è un dato però incontrovertibile ed è quello del progressivo aumento del numero di malati costretti ad essere ricoverati nei reparti di terapia intensiva rispetto ai posti effettivamente disponibili considerando anche quelli occupati da malati no Covid, un limite che stiamo velocemente per raggiungere e superare.
Vorremmo provare quindi a partire da questo “dato di fatto” inaggirabile per sollevare qualche questione politica, a cominciare da una domanda che per quanto retorica ci pare ineludibile: com’è possibile che il sistema sanitario di un paese a capitalismo avanzato sia entrato in sofferenza per un epidemia che, nonostante la sua serietà, al momento coinvolge una frazione estremamente contenuta della popolazione italiana? L’ultimo “bollettino di guerra” diffuso dalla Protezione Civile prima della stesura di questo post parlava di 17.660 casi totali accertati al 13 marzo, pari allo 0,03% dell’intera popolazione italiana, e di un numero di contagiati ospedalizzati pari a 8.754 (0,01%) compresi i 1328 ricoverati nei reparti di terapia intensiva. Numeri molto importanti, certamente, ma non apocalittici, soprattutto se confrontati con quanto accade nell’ignavia e nella disattenzione globale in altre parti del mondo. Ogni anno solo la Tubercolosi uccide 1 milione e 600 persone, di cui circa 250mila in età infantile, ma evidentemente abitano la parte sbagliata del pianeta e non meritano troppe risorse o attenzione. Perché dunque questo allarme? La risposta che ci è stata fornita più volte in questi giorni è più o meno riassunta in questo grafico in cui si mostra l’andamento di un epidemia senza nessuna forma di contenimento e, per contro, quella della stessa epidemia a cui si applica invece il massimo livello di contenimento rispetto alla tenuta del SSN che nel grafico è rappresentato dalla retta tratteggiata.
Ora, soprassedendo sulla forzatura del sillogismo implicito contagiato=malato=ospedalizzato, è chiaro che se ci si concentra esclusivamente, e probabilmente nell’immediato forse anche giustamente, soltanto sulle due curve, si perde però di vista il fatto che l’altezza di quella retta non è data da “madre natura”, ma è “storica”, è legata certamente allo sviluppo sociale e medico ma, all’interno dello stesso, è espressione dei rapporti di forza tra le classi e delle lotte sociali che li determinano. In buona sostanza a decidere quanto deve essere alta quella retta in quel grafico è solo ed esclusivamente la politica. Perché è la politica a decidere quante punti di Pil destinare alla salute pubblica. È la politica a decidere il rapporto tra popolazione e posti letto e tra popolazione e personale medico e paramedico. Ed è sempre la politica a decidere del rapporto tra la sanità pubblica e quella privata, tra una strategia orientata alla massimizzazione della prevenzione e un’altra concentrata maggiormente sulla “cura” come fonte di profitto. Ancora nel 1980, dopo un ciclo di lotte di classe che aveva strappato il diritto a un sistema sanitario pubblico e universalizzato, l’Italia disponeva di 9,22 posti letto ogni 1000 abitanti; oggi nella sanità pubblica i posti letto sono scesi a 2,5 ogni 1000 abitanti, mentre in quella privata sono 0,7 sempre per lo stesso numero di abitanti (leggi).
Giusto per avere un termine di paragone nel resto d’Europa, dove pure gli ultimi 30 anni sono stati caratterizzati da continui tagli, il rapporto attualmente è di 5 posti letto ogni 1000 abitanti. Sempre stando ai dati riportati dall’annuario statistico del SSN l’Italia attualmente dispone di 5.090 posti letto di terapia intensiva (8,42 per 100.000 ab.), 1.129 posti letto di terapia intensiva neonatale (2,46 per 1.000 nati vivi), e 2.601 posti letto per unità coronarica (4,30 per 100.000 ab.), complessivamente poco più della metà dei 15.000 posti letto, sempre di terapia intensiva, di cui invece disponeva nel 1980. Per mantenere questa dotazione sarebbe stato sufficiente, ad esempio, destinare alla sanità pubblica almeno una parte di quanto l’Italia spende in armamenti, basterebbe infatti rinunciare ad un F35 (185 milioni di euro) per comprare 5000 impianti di ventilazione assistita, rinunciando invece a 90 F35 e a una portaerei oggi avremmo 54 policlinici da 1000 posti letto di ultima generazione in più (leggi). Si tratta ovviamente di stabilire delle priorità ed è sempre e solo la politica a farlo, mentre sono sempre e solo le nostre lotte a permetterci di incidere su agende politiche decise altrove. Per questa ragione “restare a casa” è necessario ma assolutamente insufficiente, perchè queste “vertenze”, queste lotte, vanno aperte, o meglio, visto lo stato in cui si trova la sinistra di classe, andrebbero aperte adesso. Perchè altrimenti il rischio è che una volta che l’epidemia avrà fatto il suo corso e saremo usciti da questa crisi, ci ritroveremo con una sanità ancora di più indirizzata verso il settore privato, almeno a giudicare dall’aumento delle convenzioni che proprio in nome dell’emergenza si sta producendo in questi giorni.
Tutto un ragionamento a parte meriterebbe poi la questione dei rischi a cui sono stati sottoposti per incuria e incapacità i lavoratori del settore sanitario. Piuttosto che ripostare le foto degli infermieri esausti o gli appelli retorici per “i nostri angeli” dovremmo avere la determinazione di chiedere come sia stato possibile ridursi in questo modo. Come sia stato possibile cioè, che nonostante un mese abbondante di preavviso, ci sia sia fatti trovare assolutamente impreparati, con dotazioni e personale insufficienti, impedendogli di lavorare in condizioni di sicurezza e generando così una situazione che ha fatto dei medici e degli infermieri la categoria più contagiata. Anche in questo caso andrebbe sbattuto in faccia a chi oggi si regala le photo opportunity negli ospedali come almeno il 50% del definanziamento degli ultimi anni abbia riguardato proprio le spese per il personale (leggi). Forse, più che sbraitare moralisticamente contro il “popolo dello spritz” o contro i “giovani irresponsabili che infettano i nonni”, sarebbe davvero il caso di chiedere il conto a chi ha governato il Paese in questi ultimi decenni in ossequio ai diktat dei trattati europei e delle ricette neoliberiste e che oggi, invece di costruire nuovi ospedali o riaprire quelli chiusi, ci invita a cantare tutti insieme l’inno nazionale dal balcone. Ma per riuscirci ci serve come l’aria la politica.

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