giovedì 26 marzo 2020

Il coronavirus e la bufala dell’Europa che cambia.

L'Ue ha ribadito che la sospensione del Patto di stabilità è “temporanea” e “non deve mettere a repentaglio la sostenibilità di bilancio”. Quindi, finita l’emergenza, gli Stati dell’Eurozona devono rimettersi sul duro cammino della disciplina di bilancio. Per l’Italia ciò significherà manovre lacrime e sangue oppure l’intervento della famigerata Troika. Come evitarlo? Ripristinando il ruolo della Bce come prestatore di ultima istanza.





micromega Alessandro Somma
Il Patto di stabilità viene sospeso: così è stata sintetizzata la decisione della Commissione europea di allentare il percorso cui sono tenuti gli Stati membri per fornire un bilancio in surplus o quantomeno in pareggio. Si è così data l’impressione che l’Europa abbia finalmente deciso di cambiare rotta, di rinunciare al rigido controllo sulla spesa pubblica, a buon titolo ritenuto la causa prima delle attuali difficoltà dei sistemi sanitari a reagire all’emergenza del coronavirus.

Le cose però non stanno in questi termini, come si ricava facilmente dalla disposizione concernente la cosiddetta “general escape clause”, la clausola generale di fuga dal Patto di stabilità sulla quale si fonda la sua sospensione. Il Patto riguarda il controllo preventivo sulla disciplina di bilancio dei Paesi dell’Eurozona, ovvero le procedure volte a impedire che i livelli di spesa pubblica comportino una deviazione significativa dagli obiettivi di rientro dal deficit. Nel merito si stabilisce: “la deviazione può non essere considerata significativa”, e dunque non comporta un intervento repressivo, “qualora sia determinata da un evento inconsueto che non sia soggetto al controllo dello Stato membro interessato e che abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria generale dello Stato membro, o in caso di grave recessione economica della zona Euro o dell’intera Unione” (art. 9 Regolamento 7 luglio 1997 n. 1466 così come modificato dal Regolamento 8 novembre 2011 n. 1177).

Tutto ciò non comporta però la sospensione del Patto, dal momento che la sua filosofia di fondo deve comunque essere rispettata. Lo si dice a chiare lettere nella disposizione appena citata, che ammette deviazioni rispetto alla disciplina di bilancio solo “a condizione che la sostenibilità di bilancio a medio termine non ne risulti compromessa”. E proprio questo è stato ribadito con veemenza dalla Commissione europea, che ha voluto precisare: l’applicazione della clausola di fuga dal Patto di stabilità “non deve mettere a repentaglio la sostenibilità di bilancio”.

Non solo, come sottolineato sempre dalla Commissione, “la deviazione dagli obiettivi di bilancio deve essere temporanea”, e questo significa che, finita l’emergenza, gli Stati dell’Eurozona devono rimettersi sul duro cammino della disciplina di bilancio. Solo che Paesi come l’Italia si troveranno in una situazione talmente svantaggiata che si vedranno di fronte a questa secca alternativa: o accetteranno di varare manovre di bilancio lacrime e sangue, o saranno costretti a chiedere l’assistenza finanziaria condizionata del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), e dunque a subire l’intervento della famigerata Troika. Difficile dire cosa sia peggio, facile presagire che in entrambi i casi l’Europa non si mostrerà certo con il volto di chi esprime vicinanza a chi soffre.

In tutto questo è quantomeno fantasiosa la richiesta del governo italiano di impiegare proprio il Mes per soccorrere i bilanci europei con forme di assistenza finanziaria incondizionata. Questa possibilità non è infatti contemplata dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che prevede l’istituzione di un “meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona Euro nel suo insieme”, precisando che “la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità” (art. 136).

Il tutto viene ribadito nel Trattato istitutivo del Mes (del 2 febbraio 2010), dove si parla di “sostegno alla stabilità” unicamente “sulla base di condizioni rigorose”, definite all’esito di una valutazione sulla “sostenibilità del debito pubblico” del Paese richiedente assistenza (art. 13). Si prevede nel merito la possibilità di ottenere prestiti con una “linea di credito condizionale precauzionale”, ma questa viene riservata ai Paesi con “una situazione economica e finanziaria fondamentalmente sana”, ovvero non all’Italia. Per quest’ultima è disponibile solo una “linea di credito soggetta a condizioni rafforzate”, quindi prigioniera del meccanismo perverso delle condizionalità, oltretutto solo se si accerta che la “situazione economica generale” del Paese “rimane sana” (art. 14). Altrimenti restano i “prestiti” per il supporto alla stabilità concepiti per i Paesi con difficoltà a reperire risorse sul mercato, condizionati a un ampio “programma di aggiustamento macroeconomico” (art. 16): come quelli che sono stati gestiti dalla Troika e che hanno interessato Cipro tra il 2013 e il 2016 e la Grecia tra il 2015 e il 2018.

Ci sarebbero poi altre due possibilità, anch’esse incastrate in un regime di condizionalità: il “meccanismo di sostegno al mercato primario” (art. 17) e il “meccanismo di sostegno al mercato secondario” (art. 18), ovvero l’acquisto di titoli del debito pubblico direttamente dallo Stato emittente, nel primo caso, o da chi li ha acquistati dallo Stato emittente, in massima parte banche e istituti di credito, nel secondo caso.

La prima possibilità è un’esclusiva del Mes, l’unica istituzione europea a cui non si applica il “principio del non salvataggio finanziario”, per cui “l’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro” (art. 125 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Se però il Mes può derogare a questo principio, è solo perché l’assistenza finanziaria prestata è sottoposta a rigida condizionalità: il Meccanismo può operare come acquirente di ultima istanza dei titoli del debito pubblico, ma lo può fare solo imponendo la disciplina di bilancio prevista dal Patto di stabilità. Con ciò predisponendo cure peggiori del male.

La soluzione migliore sarebbe allora il ricorso, come acquirente di ultima istanza, alla Banca centrale europea (Bce), anche perché solo questa dispone della potenza di fuoco necessaria a fronteggiare un’emergenza come quella attuale: il capitale versato di cui dispone il Mes non arriva alla metà delle cifre appena messe a disposizione dalla Bce per il programma di acquisto di titoli del debito pubblico sul mercato secondario (il quantative easing). Programma che però beneficia le banche e gli istituti di credito da cui verranno acquistati i titoli del debito, sicuramente con ricadute positive sulla finanza, ma altrettanto sicuramente non anche sull’economia reale.

Certo, come si è detto, la Bce non può acquistare titoli del debito direttamente dagli Stati, ma neppure il Mes può farlo fuori dal meccanismo delle condizionalità. In entrambi i casi occorre modificare i Trattati, nel primo il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e nel secondo anche il Trattato istitutivo del Mes. E in entrambi i casi si tratta di una procedura lunga e soprattutto dall’esito altamente improbabile, dal momento che occorre l’unanimità degli Stati contraenti.

Non meno complessa appare la strada verso i gli Eurobonds, per l’occasione battezzati coronabonds, ovvero l’emissione di titoli del debito da parte dell’Europa, che però non potrebbe essere finanziata dal magro bilancio dell’Unione. Per alcuni dovrebbe allora intervenire il Mes, ma non si capisce come la cosa possa funzionare, stante il silenzio sul punto del Trattato istitutivo del Meccanismo: per sfuggire dalla gabbia delle condizionalità questo andrebbe integrato con tutte le complicazioni del caso, e a monte si dovrebbe anche modificare il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Altri propongono di istituire un fondo ad hoc, che dunque dovrebbe essere finanziato dagli Stati, ottenendo così un esito paradossale: in questo momento di emergenza gli Stati stanno chiedendo soldi e non di prendere parte a una inutile e complessa partita di giro.

Se dunque l’Europa vuole davvero cambiare, allora deve incamminarsi lungo la strada della riforma radicale della sua filosofia di fondo. E questa strada non può che comprendere l’affermazione del principio su cui si basano le comunità politiche, che sono tali anche e soprattutto perché conoscono efficaci meccanismi di redistribuzione delle risorse: dalle persone e dai territori ricchi alle persone e ai territori poveri. Meccanismi solidali, non sottoposti a un regime di condizionalità buono solo ad attribuire ai mercati il compito di disciplinare quelle comunità.

Occorre insomma ripristinare il ruolo della Bce come prestatore di ultima istanza, ovvero come istituzione chiamata ad assolvere al fondamentale compito di rendere sostenibile il debito pubblico: impedendo che esplodano gli interessi sul debito accumulato per reperire risorse presso i mercati, ovvero assicurando disponibilità illimitata a riacquistare ciò che il mercato decide di vendere, succeda quel che succeda (whatever it takes). E a monte occorre ripristinare il controllo della politica sull’attività delle banche centrali, ovvero superare la loro indipendenza come presidio di una concezione tecnocratica del governo dell’economia, buona solo ad alimentare l’ortodossia neoliberale.

Solo a queste condizioni appare sostenibile quanto ha detto la Presidente della Commissione europea, ovvero che con la sospensione del Patto di stabilità “i governi potranno immettere nel sistema tutto il denaro di cui hanno bisogno”. Il resto sono solo trappole per intrappolare oggi gli Stati che saranno costretti un domani a subire sanguinose politiche di austerità. Sono solo bufale buone solo a nascondere che l’Europa non è cambiata, che resta un dispositivo volto a piegare gli Stati e i loro cittadini al volere dei mercati.

(24 marzo 2020)

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