Anna Lombroso
Ieri dopo anni di silenzio particolarmente vigoroso in occasione dell’adozione del Jobs Act, del referendum costituzionale, oggi visto come una occasione perduta perché se non avrebbe prevenuto il contagio avrebbe comunque vinto il cancro come prometteva la Boschi, della accettazione supina dell’austerità e dei vincoli europei, è stato folgorato dalla repentina agnizione che ha vinto il capitalismo, mentre lui festeggiava il Primo Maggio in Piazza con Confindustria.
E altrettanto d’improvviso confederazioni e organismi di categoria, che relegavano nelle brevi in cronaca il quotidiano stillicidio di morti sul lavoro, ha deciso di rappresentare le preoccupazioni dei lavoratori che hanno iniziato uno sciopero, chiedendo misure e dispositivi per contrastare il contagio.
Per i sindacati della meccanica «è necessaria una momentanea fermata di tutte le imprese metalmeccaniche, a prescindere dal contratto utilizzato, fino a domenica 22 marzo, al fine di sanificare, mettere in sicurezza e riorganizzare tutti i luoghi di lavoro».
Ma erano già in stato di agitazione i dipendenti di Amazon di Torrazza, dopo la conferma del caso di positività coronavirus di una lavoratrice e la verifica dei casi da porre in quarantena, i dipendenti dello stabilimento Leonardo di Grottaglie della Ast di Terni, della Bonfiglioli di Bologna e alla Gardner Denver di Parma, della Dieci di Montecchio, nel Reggiano, dello stabilimento Fincantieri del Muggiano (La Spezia) e di Ancona, della Toyota Material Handling Manifacturing di Bologna, la Fiat Fca di Termoli, delle aziende delle Riparazioni navali di Genova, della Electrolux di Susegana, dell’Irca (gruppo Zoppas Industries) di Vittorio Veneto e di alcune fabbriche di Brescia.
Pareva fosse pronto insieme alla distribuzione “gratuita” di guanti e mascherine, un decalogo dell’Esecutivo per le imprese chiamate ad adottare le necessarie precauzioni con il coinvolgimento e la consultazione delle rappresentanze sindacali di ogni azienda, per tutelare la salute delle persone presenti all’interno dell’impresa e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro, ma nella tarda serata di ieri la possibilità di un accordo è saltata: sindacati e imprenditori, in videoconferenza, non sono riusciti a trovare un punto d’incontro sulle misure da adottare: accesso alle informazioni; modalità di ingresso in azienda dei dipendenti e dei fornitori esterni; pulizia degli ambienti; precauzioni igieniche personali e dispositivi di protezione individuale; gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande e snack); organizzazione aziendale (turnazione, trasferte e smart working); gestione degli orari di lavoro e degli spostamenti interni, riunioni, eventi interni e formazione.
Chissà come mai proprio adesso che c’è stata la rivelazione della utilità sociale dei lavoratori delle imprese manifatturiere e produttive, le poche salvate da acquisizioni sconsiderate, da svendite incaute, da delocalizzazioni feroci e improvvise, chissà come mai non si ottiene quello che una volta si definiva in minimo sindacale.
Presto detto: le rappresentanze si riaffacciano estemporaneamente avendo perso ogni autorevolezza e credibilità con la controparte dopo anni di assoggettamento e di riduzione del loro mandato, convertito in una pratica di consulenza tramite i patronati o di offerta di forme di Welfare sostitutivo con fondi, assicurazioni che portano profitti aggiuntivi al sistema degli azionariati.
Presto detto: cedere sulla sicurezza ora significa accettare un’ipoteca per il futuro, che padroni e manager non possono tollerare perché hanno dimostrato di non essere disposti a investire in innovazione, tutele e ricerca nemmeno un quattrino di quelli che sognano di moltiplicare impegnandoli nel gioco d’azzardo della finanza creativa.
Presto detto: i padroni sono ciechi quando si tratta di spendere nella decantata responsabilità sociale che come previsto era solo uno slogan buono per la Leopolda o lo Studio Ambrosetti, ci vedono bene quando si tratta di socializzare le perdite e privatizzare i profitti.
Così pensano al dopo, alla messa tra gli utili dei costi dell’emergenza, per sollecitare aiuti pubblici, deroghe e leggi speciali, per dare ulteriore riconoscimento legale all’illecito dei contratti anomali, del precariato e della mobilità promossi a necessità inderogabile e doverosa.
E c’è da aspettarsi che le notizie sui campi deserti e abbandonati solleciterà misure estreme raccomandate dall’ex bracciante al governo, presto convinta che ai trattati capestro sarà ragionevole aggiungere una obbligatoria reintroduzione a tutti gli effetti del caporalato.
E infatti proprio oggi Boeri, pensando a quelli che definisce “lavoratori al fronte”, riflette sul dopo Caporetto, quando all’economia di guerra deve poi succedere quella della ricostruzione.
Vi aspettavate che proponesse la revisione dei vincoli di spesa imposti sul letto di morte dall’Ue?
Vi aspettavate che sollecitasse di indirizzare le spese belliche o quelle impegnate per le grandi opere in interventi per risanare la sanità pubblica?
Vi aspettavate la raccomandazione a una efficace lotta all’evasione?
Vi aspettavate una riflessione sui danni che la previdenza e l’assistenza private hanno prodotto in termini reali e morali, sfiduciando il sistema pubblico statale?
Macchè, l’effetto collaterale del virus è di produrre negli economisti di regime una miopia che non permette di vedere oltre, di guardare a un cambiamento di rotta, a un rovesciamento del tavolo, ma di immaginare piccoli aggiustamenti, mancette per i più bisognosi, cerotti su ferite in cancrena: incrementare la portata della Cassa integrazione ordinaria, rinvii del pagamento di mutui e dell’Iva, necessari, per carità, verrebbe da dire, perché appunto si tratta di sostituire governo dell’economia e della società con compassionevole comprensione per chi sta peggio, abitudine molto in voga tra chi ha il culo al caldo, che può permettersi di rivolgere schizzinoso disprezzo per quota 100, reddito di cittadinanza, rassicurato che il virus colpisca di preferenza il target degli anziani, a torto però, se è vero che va a mancare il decantato ricorso a quello che ancora sorregge il sistema Paese, l’assistenzialismo domestico e familista.
Vale la pena di ricordare che c’è un’azienda i cui lavoratori hanno proclamato 10 giorni di sciopero, sta in una città martire che ha provato come da anni vengano imposte scelte feroci, salario o salute, posto o ambiente, che non si stupisce che sia stata rivelata la sedicente obbligatorietà di decidere le priorità della vita di un giovane rispetto a quella di un anziano, già saggiata in fabbrica e fuori.
L’azienda si chiama ancora Ilva, la città Taranto e nessuno ha mai fatto un flashmob per dichiarare solidarietà e vicinanza.
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