dinamopress
Ventimila
donne e uomini, ieri pomeriggio, hanno attraversato il centro di Roma,
da piazza della Repubblica ai Fori Imperiali, per chiedere la fine dei
bombardamenti dell’esercito della Turchia nei confronti della
popolazione curda che vive nel nord-est della Siria
Dopo il partecipato corteo di sabato scorso a Milano e le mobilitazioni
spontanee in tante altre città italiane, le tante azioni compiute
all’indomani dell’attacco turco al modello democratico incarnato dal
governo del Rojava, anche Roma, dunque, ha risposto all’appello della comunità curda in Italia.
Sono le 14.30 in Piazza della Repubblica quando si attende ancora l’arrivo di decine di autobus che trasportano attivisti provenienti da diverse regioni italiane, dalla Sicilia alla Puglia, dalla Campania, alla Toscana. Molti di loro sono stati sottoposti a lunghe perquisizioni da parte della polizia all’ingresso nella Capitale. Sotto la lente degli agenti finiscono: lo striscione “Erdogan Terrorist”, “Finmeccanica, profumo di guerra”, le decine di bandiere del Pkk, quelle raffiguranti l’immagine del leader curdo Ocalan, ma anche quelle con l’effige di “Orso”, attivista italiano morto l’anno scorso combattendo al fianco del popolo della regione del Rojava. Mentre la piazza si accenna a riempire e il corteo si dispone ordinato per partire dando le spalle alla Basilica di Santa Maria Degli Angeli, Yilmaz Orkan, coordinatore di Uki Onlus, l’ufficio di informazione del Kurdistan in Italia, racconta a Dinamopress: «Siamo qui anche oggi per denunciare il fatto che Erdogan sta giocando sulla pelle della popolazione curda, e per chiedere alla comunità internazionale di intervenire per difendere il modello democratico di governo della regione del Rojava». Dice Orkan: «Ma ci rivolgiamo soprattutto ai popoli d’Europa, perché difendano il nostro modello. Perché soprattutto in questo momento che la guerra continua, ed aumentano i feriti, i morti, gli sfollati, aumenta anche la nostra resistenza». Poi attacca: «Noi difendiamo a tutti i costi la nostra autonomia e il sistema che abbiamo creato perché innanzitutto è un antidoto al vicino jihadismo. Mi chiedo se è proprio la democraticità alla base del nostro sistema che temono gli Stati, che cioè il modello del Rojava si possa estendere in Medio Oriente, dove in questo momento ci sono solo stati autocratici». Infine, Orkan rilancia: «Fermiamo l’invasione turca ora, è questo l’appello che rivolgiamo ai popoli europei. Chiediamo di mettere fine a una situazione che ha già portato, a venti giorni dall’attacco turco, a un bilancio di oltre mille feriti, trecentomila sfollati, diverse centinaia di adulti morti, oltre a una ventina di bambini». Già, perché nonostante le dichiarazioni di cessate il fuoco, gli attacchi turchi proseguono. E questi sono soltanto i dati dei civili morti. Senza contare i combattenti e le combattenti, caduti per la causa del confederalismo democratico. Come l’italiano “Orso”, morto combattendo qualche mese fa. Mentre il corteo si ingrossa alla fine di via Cavour, lì, quasi all’incrocio con via dei Serpenti, i manifestanti accendono torce e fumogeni, intonando canti popolari curdi, tra le bandiere sventolanti, il padre di “Orso”, Lorenzo Orsetti, prende il microfono e dice alla folla nel frattempo rimasta commossa e ammutolita: «Lorenzo aveva intuito che lì c’era un tesoro di società che si stava realizzando. Sono contento che tanta gente in questo momento ha voglia di continuare la sua lotta antifascista, partigiana. Io vi chiedo di non abbandonare questa speranza, di non tradire il popolo curdo. Di non lasciarlo, specialmente ora, che sembra che i cannoni tacciono, ma non è vero. È soltanto che la stampa non ne parla più. Ognuno di noi come può deve alimentare questa lotta, per far sì che ogni goccia diventi tempesta».
In piazza, insieme alla comunità curda in Italia, c’erano i centri sociali, pezzi di associazionismo come l’Arci e del sindacato come i Cobas. Tra di loro c’era anche lo striscione di Un Ponte Per, la Ong i cui operatori sono impegnati nel Nord est della Siria ad assicurare assistenza umanitaria alle migliaia di persone sfollate e alla popolazione civile colpita dall’attacco turco. «People non target», persone non bersagli, si legge in un volantino distribuito nel corso del corteo, e in cui la Ong chiede alle istituzioni e al governo italiano di varare un embargo sulle armi con effetto immediato, e non solo sulle commesse future, di ritirare il contingente militare italiano impegnato in Turchia nell’operazione “Active Fence” a presidio dei confini. Perché, dicono ancora da Un Ponte Per: «Neppure indirettamente l’Italia deve supportare la guerra di Ankara». Anzi: «Chiediamo ai comuni e tutti gli enti locali di adottare atti di gemellaggio e solidarietà con le città curde e di votare documenti di condanna della guerra».
Qualche settimana fa, a Roma, per iniziativa del VIII municipio, prima che partisse il feroce attacco turco contro il Rojava, si è tenuta la prima conferenza internazionale sul confederalismo democratico, che aveva visto la partecipazione degli esponenti delle Hdp, i quali hanno ribadito un principio semplice: che la resistenza del popolo curdo, negli anni, non si è limitata alla resistenza all’aggressione militare di Isis e dell’esercito turco, ma ha costruito i presupposti per un nuovo modello di democrazia. «Abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti delle combattenti di Ypg e del modello incarnato dal Rojava», ha detto il presidente del VIII municipio Amedeo Ciacchieri, anche lui in piazza oggi a sostegno della causa curda.
Nel frattempo, c’è un dato complessivo che la giornata odierna consegna alla riflessione: l’ampia partecipazione, che da tempo non si vedeva per cause internazionali, il ritorno delle bandiere della pace come espressione di una fetta ampia della popolazione che non accetta l’ennesima guerra compiuta con la complicità della comunità internazionale. Stanno lì a ribadire che la sinistra internazionalista esiste ancora ed è quella che sa unirsi ai popoli in lotta; la solidarietà internazionale, dunque, diviene e ritorna insieme collante dominante dei movimenti sociali italiani. Perchè quello che accade oggi in Kurdistan ci riguarda da vicino, perché ci racconta di una società che vive in pace nonostante le differenze etniche, agli antitesi di ogni sovranismo. La società curda basata sul femminismo, sull’ecologia, e sul rifiuto di ogni forma di sovranismo, dunque, come esempio di emancipazione. Un archetipo a cui devono guardare tutte le forze e le forme di resistenza esistenti oggi in Europa.
Sono le 14.30 in Piazza della Repubblica quando si attende ancora l’arrivo di decine di autobus che trasportano attivisti provenienti da diverse regioni italiane, dalla Sicilia alla Puglia, dalla Campania, alla Toscana. Molti di loro sono stati sottoposti a lunghe perquisizioni da parte della polizia all’ingresso nella Capitale. Sotto la lente degli agenti finiscono: lo striscione “Erdogan Terrorist”, “Finmeccanica, profumo di guerra”, le decine di bandiere del Pkk, quelle raffiguranti l’immagine del leader curdo Ocalan, ma anche quelle con l’effige di “Orso”, attivista italiano morto l’anno scorso combattendo al fianco del popolo della regione del Rojava. Mentre la piazza si accenna a riempire e il corteo si dispone ordinato per partire dando le spalle alla Basilica di Santa Maria Degli Angeli, Yilmaz Orkan, coordinatore di Uki Onlus, l’ufficio di informazione del Kurdistan in Italia, racconta a Dinamopress: «Siamo qui anche oggi per denunciare il fatto che Erdogan sta giocando sulla pelle della popolazione curda, e per chiedere alla comunità internazionale di intervenire per difendere il modello democratico di governo della regione del Rojava». Dice Orkan: «Ma ci rivolgiamo soprattutto ai popoli d’Europa, perché difendano il nostro modello. Perché soprattutto in questo momento che la guerra continua, ed aumentano i feriti, i morti, gli sfollati, aumenta anche la nostra resistenza». Poi attacca: «Noi difendiamo a tutti i costi la nostra autonomia e il sistema che abbiamo creato perché innanzitutto è un antidoto al vicino jihadismo. Mi chiedo se è proprio la democraticità alla base del nostro sistema che temono gli Stati, che cioè il modello del Rojava si possa estendere in Medio Oriente, dove in questo momento ci sono solo stati autocratici». Infine, Orkan rilancia: «Fermiamo l’invasione turca ora, è questo l’appello che rivolgiamo ai popoli europei. Chiediamo di mettere fine a una situazione che ha già portato, a venti giorni dall’attacco turco, a un bilancio di oltre mille feriti, trecentomila sfollati, diverse centinaia di adulti morti, oltre a una ventina di bambini». Già, perché nonostante le dichiarazioni di cessate il fuoco, gli attacchi turchi proseguono. E questi sono soltanto i dati dei civili morti. Senza contare i combattenti e le combattenti, caduti per la causa del confederalismo democratico. Come l’italiano “Orso”, morto combattendo qualche mese fa. Mentre il corteo si ingrossa alla fine di via Cavour, lì, quasi all’incrocio con via dei Serpenti, i manifestanti accendono torce e fumogeni, intonando canti popolari curdi, tra le bandiere sventolanti, il padre di “Orso”, Lorenzo Orsetti, prende il microfono e dice alla folla nel frattempo rimasta commossa e ammutolita: «Lorenzo aveva intuito che lì c’era un tesoro di società che si stava realizzando. Sono contento che tanta gente in questo momento ha voglia di continuare la sua lotta antifascista, partigiana. Io vi chiedo di non abbandonare questa speranza, di non tradire il popolo curdo. Di non lasciarlo, specialmente ora, che sembra che i cannoni tacciono, ma non è vero. È soltanto che la stampa non ne parla più. Ognuno di noi come può deve alimentare questa lotta, per far sì che ogni goccia diventi tempesta».
In piazza, insieme alla comunità curda in Italia, c’erano i centri sociali, pezzi di associazionismo come l’Arci e del sindacato come i Cobas. Tra di loro c’era anche lo striscione di Un Ponte Per, la Ong i cui operatori sono impegnati nel Nord est della Siria ad assicurare assistenza umanitaria alle migliaia di persone sfollate e alla popolazione civile colpita dall’attacco turco. «People non target», persone non bersagli, si legge in un volantino distribuito nel corso del corteo, e in cui la Ong chiede alle istituzioni e al governo italiano di varare un embargo sulle armi con effetto immediato, e non solo sulle commesse future, di ritirare il contingente militare italiano impegnato in Turchia nell’operazione “Active Fence” a presidio dei confini. Perché, dicono ancora da Un Ponte Per: «Neppure indirettamente l’Italia deve supportare la guerra di Ankara». Anzi: «Chiediamo ai comuni e tutti gli enti locali di adottare atti di gemellaggio e solidarietà con le città curde e di votare documenti di condanna della guerra».
Qualche settimana fa, a Roma, per iniziativa del VIII municipio, prima che partisse il feroce attacco turco contro il Rojava, si è tenuta la prima conferenza internazionale sul confederalismo democratico, che aveva visto la partecipazione degli esponenti delle Hdp, i quali hanno ribadito un principio semplice: che la resistenza del popolo curdo, negli anni, non si è limitata alla resistenza all’aggressione militare di Isis e dell’esercito turco, ma ha costruito i presupposti per un nuovo modello di democrazia. «Abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti delle combattenti di Ypg e del modello incarnato dal Rojava», ha detto il presidente del VIII municipio Amedeo Ciacchieri, anche lui in piazza oggi a sostegno della causa curda.
Nel frattempo, c’è un dato complessivo che la giornata odierna consegna alla riflessione: l’ampia partecipazione, che da tempo non si vedeva per cause internazionali, il ritorno delle bandiere della pace come espressione di una fetta ampia della popolazione che non accetta l’ennesima guerra compiuta con la complicità della comunità internazionale. Stanno lì a ribadire che la sinistra internazionalista esiste ancora ed è quella che sa unirsi ai popoli in lotta; la solidarietà internazionale, dunque, diviene e ritorna insieme collante dominante dei movimenti sociali italiani. Perchè quello che accade oggi in Kurdistan ci riguarda da vicino, perché ci racconta di una società che vive in pace nonostante le differenze etniche, agli antitesi di ogni sovranismo. La società curda basata sul femminismo, sull’ecologia, e sul rifiuto di ogni forma di sovranismo, dunque, come esempio di emancipazione. Un archetipo a cui devono guardare tutte le forze e le forme di resistenza esistenti oggi in Europa.
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