domenica 17 novembre 2019

Libro. L’eterna contrapposizione tra didattica innovativa e tradizionale.

Nel volume “Competenze di cittadinanza e didattica inclusiva”, il professor Tommaso Montefusco esorta ad abbandonare vecchi stili di insegnamento frontali e ingessati. Ma una didattica solo laboratoriale ha un sapore fortemente reazionario e anti-democratico. La vera innovazione è una buona sintesi tra didattica innovativa e didattica tradizionale, ponderata sulle specificità di ciascun gruppo-classe.

micromega Carlo Scognamiglio

Il professor Tommaso Montefusco, ex dirigente scolastico e formatore per CIDI, Mondadori-Rizzoli e Pearson, ha pubblicato un libricino intitolato Competenze di cittadinanza e didattica inclusiva (Edizioni dal Sud, 2019), in cui fa il punto in modo elegante (sebbene in parte sbrigativo) sulla relazione tra l’Agenda 2030, le competenze di cittadinanza e la didattica inclusiva. 
È chiaro che il nesso tra i tre ambiti si gioca tutto nel concetto democratico e “sostenibile” di inclusione, che allude a un orizzonte culturale aperto, dialogante, ragionevole e rispettoso degli altri, non esclusi i nostri posteri. 
Posto questo dato come punto di partenza, il lavoro di Montefusco si articola sostanzialmente in un’esortazione (l’ennesima) ad abbandonare vecchi stili di insegnamento frontali e ingessati, per ricondursi nella rinascita dell’attivismo pedagogico e assumere a pieno regime una didattica laboratoriale.

Certamente la didattica inclusiva non ha nulla a che fare con la meccanica compilazione di PDP, e la relativa adozione di misure dispensative, ma va considerata come l’edificazione di un “luogo” fisico e intellettuale accogliente per tutti, privo di barriere architettoniche, anche e soprattutto cognitive, ove ciascuno possa decidere quale percorso seguire per accedere ai piani superiori. Una didattica inclusiva non si riferisce solo a studenti con condizioni di permanente disabilità o svantaggio, ma è rivolta a tutti, anche ai “temporaneamente abili”, e ha a che fare con il diritto di ciascuno a raggiungere il successo formativo, cioè a essere guidato in un percorso d’apprendimento sufficientemente capace di adottare linguaggi e modalità idonee a favorirne la maturazione culturale. 
La standardizzazione della didattica è sicuramente un limite della scuola del passato, traducendosi di fatto in una restrizione del diritto costituzionalmente sancito a ricevere un’istruzione completa. 
Lavorare con metodologie e tempistiche funzionali soltanto a un modello conformisticamente predefinito di intelligenza, produce da un lato l’esclusione di soggettività difformi dalla tendenza assunta quale norma, e impedisce ad altri di trovare percorsi nuovi per reinterpretare i processi di inculturazione, o di esercitare la propria creatività.

Montefusco cita le disposizioni scozzesi denominate “Additional Support for Learning Act”, che superano definitivamente la nozione di Bisogni Educativi Speciali, per orientare i docenti a costruire una didattica che autonomamente si doti di una molteplicità di supporti e occasioni di lavoro, anche molto differenziate, per stimolare stili cognitivi eterogenei.

A sostegno di questa tesi vengono enumerate le pratiche del debate, del cooperative learning, della flipped classroom, et similia. Si tratta per la gran parte di modalità laboratoriali note da tempo, ma che faticano a diventare prassi ordinaria. Forse però, in questa fatica, si nasconde un fondo di verità, e cioè che tali metodologie non possono, e non dovrebbero, sostituire completamente quella che – ormai senza più neanche sapere bene cosa sia – si continua a chiamare “didattica tradizionale”. Certamente alternare le due modalità di lavoro rappresenterebbe bene un approccio autenticamente inclusivo. Non lo è, invece, accettare che la didattica laboratoriale liquidi come un rifiuto il metodo di insegnamento che negli ultimi cinque-sei secoli si è costituito come avviamento dei giovani al lavoro dello studio (articolabile in passaggi semplici ma faticosi: leggere in silenzio e comprendere un testo, verificare di essere in grado di ripeterlo a voce alta e con parole proprie, di sintetizzarlo e analizzarlo; essere in grado di ascoltare un discorso strutturato e scandirne e gerarchizzarne i concetti; tradurre da altre lingue e in altre lingue; essere capaci di compiere astrazioni logiche e numeriche per risolvere problemi di complessità crescente, attraverso un costante esercizio, e simili prassi, sistematizzate ripercorrendo ogni volta le tappe della civiltà, attraverso la storia, le arti, le scienze).

Molto interessante quanto Montefusco elenca a pagina 68 del suo libro, come ingredienti di una didattica orientata a una vera inclusione. Tutto sembra corrispondere a una visione corretta e condivisibile del problema, quando si esortano gli insegnanti a scandire i propri obiettivi didattici in sotto-obiettivi, a fornire anticipatamente schemi, mappe, appunti relativi all’argomento che sarà presentato, a promuovere la metacognizione e la cooperazione. Il punto critico del suo ragionamento è però proprio a metà strada, quando introduce il seguente elemento: “Privilegiare l’apprendimento dall’esperienza e privilegiare la didattica laboratoriale”. Il verbo utilizzato è evidentemente una forzatura. Una didattica che “privilegi” l’aspetto laboratoriale non determina un più alto grado d’apprendimento rispetto a una metodologia che lo alterni paritariamente con una didattica di impianto maggiormente teorico. Non ci sono evidenze scientifiche su questo perché non ci possono essere: ne discendono infatti modelli di apprendimento diversi e non comparabili. È certamente vero, come viene ricordato, che cooperando e confrontandosi con un gruppo di lavoro lo studente accresce la propria capacità di ascolto, di critica, o di messa a fuoco, eventualmente anche toccando con mano la propria confusione. Ma pure lo studio lento e silenzioso è un’abilità sofisticata e potente, gradatamente strutturatasi nelle nostre società soprattutto a seguito dell’invenzione della stampa.

La didattica laboratoriale certamente facilita le relazioni, migliora la capacità di lavorare in gruppo, sollecitando resilienza e spirito d’iniziativa di fronte a problemi concreti. Ma le competenze su cui lavorano gran parte di queste metodologie dimostrano tutta la loro brillantezza quando si ha a che fare con studenti provenienti da ceti sociali già disciplinati e controllati, in virtù di un’educazione ordinata e linguisticamente elaborata. Per gli studenti appartenenti a classi sociali marginali, la didattica laboratoriale finisce per essere un ottimo strumento educativo limitatamente alla sfera sociale e interattiva, ma si rivela poco solida nella costruzione di strumenti culturali forti, indispensabili per accedere a ruoli apicali nella società: ruoli per quali non è sufficiente saper lavorare in team o saper distinguere notizie attendibili da fake news, perché occorre aver disciplinato il proprio corpo e il proprio cervello a lunghe ore di concentrazione e astrazione. Le soft skills sono importanti, ma per non restare ai margini ce ne vogliono anche di hard. Una didattica solo laboratoriale, dunque, ha un sapore fortemente reazionario e anti-democratico. Ed è speculare a una metodologia puramente frontale. Entrambe sono “escludenti”.

Solo una buona sintesi di didattica laboratoriale e didattica “riflessiva”, invece, comunque ponderata sulle specificità di ciascun gruppo-classe, costituisce in senso forte il significato profondo dell’innovare.

(15 novembre 2019)

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