Nel volume “Competenze di cittadinanza e didattica inclusiva”, il professor Tommaso Montefusco esorta ad abbandonare vecchi stili di insegnamento frontali e ingessati. Ma una didattica solo laboratoriale ha un sapore fortemente reazionario e anti-democratico. La vera innovazione è una buona sintesi tra didattica innovativa e didattica tradizionale, ponderata sulle specificità di ciascun gruppo-classe.
micromega Carlo Scognamiglio
Il professor Tommaso Montefusco, ex dirigente scolastico e
formatore per CIDI, Mondadori-Rizzoli e Pearson, ha pubblicato un
libricino intitolato Competenze di cittadinanza e didattica inclusiva
(Edizioni dal Sud, 2019), in cui fa il punto in modo elegante (sebbene
in parte sbrigativo) sulla relazione tra l’Agenda 2030, le competenze di
cittadinanza e la didattica inclusiva.
È chiaro che il nesso tra i tre
ambiti si gioca tutto nel concetto democratico e “sostenibile” di
inclusione, che allude a un orizzonte culturale aperto, dialogante,
ragionevole e rispettoso degli altri, non esclusi i nostri posteri.
Posto questo dato come punto di partenza, il lavoro di Montefusco si
articola sostanzialmente in un’esortazione (l’ennesima) ad abbandonare
vecchi stili di insegnamento frontali e ingessati, per ricondursi nella
rinascita dell’attivismo pedagogico e assumere a pieno regime una
didattica laboratoriale.
Certamente la didattica inclusiva non ha nulla a che fare con la
meccanica compilazione di PDP, e la relativa adozione di misure
dispensative, ma va considerata come l’edificazione di un “luogo” fisico
e intellettuale accogliente per tutti, privo di barriere
architettoniche, anche e soprattutto cognitive, ove ciascuno possa
decidere quale percorso seguire per accedere ai piani superiori. Una
didattica inclusiva non si riferisce solo a studenti con condizioni di
permanente disabilità o svantaggio, ma è rivolta a tutti, anche ai
“temporaneamente abili”, e ha a che fare con il diritto di ciascuno a
raggiungere il successo formativo, cioè a essere guidato in un percorso
d’apprendimento sufficientemente capace di adottare linguaggi e modalità
idonee a favorirne la maturazione culturale.
La standardizzazione della
didattica è sicuramente un limite della scuola del passato,
traducendosi di fatto in una restrizione del diritto costituzionalmente
sancito a ricevere un’istruzione completa.
Lavorare con metodologie e
tempistiche funzionali soltanto a un modello conformisticamente
predefinito di intelligenza, produce da un lato l’esclusione di
soggettività difformi dalla tendenza assunta quale norma, e impedisce ad
altri di trovare percorsi nuovi per reinterpretare i processi di
inculturazione, o di esercitare la propria creatività.
Montefusco cita le disposizioni scozzesi denominate “Additional
Support for Learning Act”, che superano definitivamente la nozione di
Bisogni Educativi Speciali, per orientare i docenti a costruire una
didattica che autonomamente si doti di una molteplicità di supporti e
occasioni di lavoro, anche molto differenziate, per stimolare stili
cognitivi eterogenei.
A sostegno di questa tesi vengono enumerate le pratiche del debate,
del cooperative learning, della flipped classroom, et similia. Si
tratta per la gran parte di modalità laboratoriali note da tempo, ma che
faticano a diventare prassi ordinaria. Forse però, in questa fatica, si
nasconde un fondo di verità, e cioè che tali metodologie non possono, e
non dovrebbero, sostituire completamente quella che – ormai senza più
neanche sapere bene cosa sia – si continua a chiamare “didattica
tradizionale”. Certamente alternare le due modalità di lavoro
rappresenterebbe bene un approccio autenticamente inclusivo. Non lo è,
invece, accettare che la didattica laboratoriale liquidi come un rifiuto
il metodo di insegnamento che negli ultimi cinque-sei secoli si è
costituito come avviamento dei giovani al lavoro dello studio
(articolabile in passaggi semplici ma faticosi: leggere in silenzio e
comprendere un testo, verificare di essere in grado di ripeterlo a voce
alta e con parole proprie, di sintetizzarlo e analizzarlo; essere in
grado di ascoltare un discorso strutturato e scandirne e gerarchizzarne i
concetti; tradurre da altre lingue e in altre lingue; essere capaci di
compiere astrazioni logiche e numeriche per risolvere problemi di
complessità crescente, attraverso un costante esercizio, e simili
prassi, sistematizzate ripercorrendo ogni volta le tappe della civiltà,
attraverso la storia, le arti, le scienze).
Molto interessante quanto Montefusco elenca a pagina 68 del suo
libro, come ingredienti di una didattica orientata a una vera
inclusione. Tutto sembra corrispondere a una visione corretta e
condivisibile del problema, quando si esortano gli insegnanti a scandire
i propri obiettivi didattici in sotto-obiettivi, a fornire
anticipatamente schemi, mappe, appunti relativi all’argomento che sarà
presentato, a promuovere la metacognizione e la cooperazione. Il punto
critico del suo ragionamento è però proprio a metà strada, quando
introduce il seguente elemento: “Privilegiare l’apprendimento
dall’esperienza e privilegiare la didattica laboratoriale”. Il verbo
utilizzato è evidentemente una forzatura. Una didattica che “privilegi”
l’aspetto laboratoriale non determina un più alto grado d’apprendimento
rispetto a una metodologia che lo alterni paritariamente con una
didattica di impianto maggiormente teorico. Non ci sono evidenze
scientifiche su questo perché non ci possono essere: ne discendono
infatti modelli di apprendimento diversi e non comparabili. È certamente
vero, come viene ricordato, che cooperando e confrontandosi con un
gruppo di lavoro lo studente accresce la propria capacità di ascolto, di
critica, o di messa a fuoco, eventualmente anche toccando con mano la
propria confusione. Ma pure lo studio lento e silenzioso è un’abilità
sofisticata e potente, gradatamente strutturatasi nelle nostre società
soprattutto a seguito dell’invenzione della stampa.
La didattica laboratoriale certamente facilita le relazioni,
migliora la capacità di lavorare in gruppo, sollecitando resilienza e
spirito d’iniziativa di fronte a problemi concreti. Ma le competenze su
cui lavorano gran parte di queste metodologie dimostrano tutta la loro
brillantezza quando si ha a che fare con studenti provenienti da ceti
sociali già disciplinati e controllati, in virtù di un’educazione
ordinata e linguisticamente elaborata. Per gli studenti appartenenti a
classi sociali marginali, la didattica laboratoriale finisce per essere
un ottimo strumento educativo limitatamente alla sfera sociale e
interattiva, ma si rivela poco solida nella costruzione di strumenti
culturali forti, indispensabili per accedere a ruoli apicali nella
società: ruoli per quali non è sufficiente saper lavorare in team o
saper distinguere notizie attendibili da fake news, perché occorre aver
disciplinato il proprio corpo e il proprio cervello a lunghe ore di
concentrazione e astrazione. Le soft skills sono importanti, ma per non
restare ai margini ce ne vogliono anche di hard. Una didattica solo
laboratoriale, dunque, ha un sapore fortemente reazionario e
anti-democratico. Ed è speculare a una metodologia puramente frontale.
Entrambe sono “escludenti”.
Solo una buona sintesi di didattica laboratoriale e didattica
“riflessiva”, invece, comunque ponderata sulle specificità di ciascun
gruppo-classe, costituisce in senso forte il significato profondo
dell’innovare.
(15 novembre 2019)
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