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Conoscere la Costituzione significa comprenderne le radici storiche, le implicazioni filosofiche e le aspirazioni politiche. MicroMega propone un ciclo di brevi "lezioni" dedicate alla nostra Carta fondamentale - al di là di ogni vuota retorica sull'educazione civica - con lo scopo di risvegliare, soprattutto tra le giovani generazioni, un interesse concreto intorno ai valori che strutturano la nostra convivenza civile.
Terza lezione. Prudenza e rigidità del testo costituzionale
micromega Carlo Scognamiglio
Tenendo a mente l’esigenza del compromesso, e la volontà di lasciarsi definitivamente alle spalle l’esperienza della dittatura, possiamo dunque comprendere l’impegno, unanime, di disegnare un sistema in tutto opposto al modello fascista, ma altrettanto distante dalla cornice istituzionale che aveva favorito la nascita del fascismo.
La governabilità fu sacrificata, a vantaggio di una rassicurante intelaiatura di equilibri e contrappesi, in ragione anche di un’istanza anticomunista: una misura di tutela dei partiti moderati di fronte all’eventualità di una conquista della maggioranza da parte delle formazioni di sinistra.
Nonostante alcune perplessità tra i costituenti, fu stabilito di istituire due camere legislative, con funzioni sostanzialmente sovrapponibili, la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica (torneremo in un secondo momento sulle peculiarità del bicameralismo perfetto).
La figura del re fu sostituita da quella del Capo dello Stato, o Presidente della Repubblica, eletto a camere unificate ogni sette anni, attribuendogli il potere di sciogliere le camere.
Nel bilanciamento dei poteri, come è noto, venne garantita l’indipendenza della magistratura, istituendo un Consiglio superiore della magistratura, e poi una Corte costituzionale, con il compito di vigilare sulla conformità delle leggi, approvate dal Parlamento, al dettato costituzionale.
Anche l’espressione diretta del popolo fu tenuta in considerazione nel processo legislativo, attraverso l’istituto del referendum abrogativo, previa presentazione di 500.000 firme. Inoltre, una novità importante rispetto allo Statuto albertino, fu l’introduzione di un forte criterio federale, mediante la definizione delle Regioni, cui vennero attribuiti anche poteri legislativi.
Al Consiglio dei ministri, i cui membri sono nominati dal Presidente della Repubblica, e ottenuta la fiducia del Parlamento, veniva concessa– tra le funzioni di esercizio del potere esecutivo – la possibilità di emanare decreti, da convertire poi in legge con un passaggio parlamentare.
La distribuzione articolata dei poteri costituisce una chiara forma di prudenza politica, anche se molti anelli di questa catena rimasero a lungo soltanto sulla carta. Basti pensare che per parecchi anni non furono portati a esistenza istituti come il Consiglio superiore della magistratura, la Corte costituzionale o il referendum.
La dimensione precauzionale della complessa distinzione dei poteri nella nostra architettura istituzionale dev’essere interpretata alla luce di un elemento ancora più profondo, che ne costituisce il presupposto naturale: la forte rigidità della nostra Costituzione.
E qui emerge subito un punto filosoficamente interessante – e concettualmente preliminare a ulteriori indagini – concernente la dimensione di paradosso che sorregge molte impalcature costituzionali, inclusa la nostra. Si può dire che a partire dalla XVII secolo, la Carta fondamentale è stata intesa non solo come inquadramento normativo generale della vita di un popolo.
Essa è stata in primo luogo scritta, voluta e affermata come strumento di tutela dell’uomo dallo Stato. Tutela nei propri diritti e nella propria sicurezza. L’esperienza politica dell’assolutismo, infatti, insegnò agli europei la straordinaria importanza della macchina statale nell’ingegneria della vita dei popoli, ma anche l’idea che quella macchina avrebbe potuto – come spesso accadde – trasformarsi in uno strumento di controllo e oppressione.
Non dobbiamo mai dimenticare infatti, come insegna Foucault, quanto la modernità abbia contemporaneamente portato con sé emancipazione e sorveglianza punitiva.
Questi due aspetti sono perennemente intrecciati nella storia dello Stato moderno. Ecco perché, dunque, testi come il Bill of Rights, la Costituzione degli Stati Uniti d’America, o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, sembrano voler esprimere prima di tutto una necessità di tutela dell’individuo dal potere legittimo.
Quindi per un verso le costituzioni riconoscono, nelle loro varie forme, una sovranità popolare, per altro verso, hanno bisogno a rassicurare i cittadini limitando la loro stessa “rivedibilità”. Infatti un’avventata revisione della Costituzione potrebbe rappresentare un pericolo per la tutela delle libertà personali e politiche. Siamo dunque di fronte al paradosso di un testo che attribuisce la sovranità al popolo, ma poi sottrae al popolo stesso il potere di modificarlo.
Nella nostra Carta, ad esempio, l’articolo 139 vieta la rivedibilità della forma repubblicana. Se dovesse configurarsi una maggioranza nuovamente monarchica, non esisterebbe alcun mezzo legale per restituire al re il proprio trono. Solo un colpo di Stato.
Analogamente, i principi supremi e i diritti inviolabili, cui si fa riferimento nell’articolo 2, non possono essere modificati. Vi sono invece aspetti anche importanti della Costituzione che è possibile modificare, ma il meccanismo è assai rigido (una rigidità del tutto assente nello Statuto albertino, con le conseguenze che conosciamo). L’articolo 138 prevede infatti che eventuali leggi di integrazione o modifica del testo costituzionale necessitino di una doppia approvazione della Camera e del Senato (per un totale di quattro letture), con un intervallo, tra l’una e l’altra, di almeno tre mesi. Il fattore tempo qui è rivelatorio: viene previsto per favorire la discussione, i ripensamenti, il lento lavorio della trattativa politica. E al tempo stesso evita fughe in avanti, sempre rischiose in campo legislativo. Se tra la prima e la seconda lettura dovesse intervenire qualche variazione, la prassi prevede che si ricominci dall’inizio. Nella seconda deliberazione, per ciascuna delle due Camere, occorre una maggioranza pari ai due terzi dei componenti di ciascuna delle assemblee (quindi una misura più larga di quanto previsto per l’approvazione di leggi ordinarie). Altrimenti, si può considerare valida anche una maggioranza assoluta (che esige la metà più uno dei membri dell’assemblea, non dei votanti, come invece è previsto per la maggioranza semplice), la quale però deve essere accompagnata dall’assenso popolare, dimostrato da un referendum confermativo, che può essere richiesto entro tre mesi dal venti per cento dei membri di una delle due Camere, oppure da 500.000 elettori, o anche da cinque Consigli regionali. Come si vede, una procedura estremamente macchinosa.
Per comprendere il paradosso è importante tenere sempre a mente – e questo problema è di strettissima attualità – che le Costituzioni liberal-democratiche non pongono come valore assoluto la sovranità popolare, ma lo considerano un valore complementare a quello della perimetrabilità del potere stesso.
La maggioranza non può essere considerata fonte di potere illimitato, perché alcuni diritti e alcuni interessi, fossero anche legati a delle esigue minoranze, devono sempre essere tutelati.
Le regole fissate dalla Costituzione indicano non solo il modo in cui la maggioranza ha diritto di assumere decisioni, ma anche i confini entro i quali queste ultime possano considerarsi legittime.
Per tale motivo le Costituzioni prevedono meccanismi estremamente complessi per essere modificate. Scrive Valerio Onida: “Vincolare le modifiche costituzionali a procedure ‘aggravate’ e non facilmente realizzabili, e sottrarre certi contenuti costituzionali al potere stesso di revisione, non è antidemocratico: al contrario, fa parte dell’essenza della democrazia costituzionale”[1]. Diversamente, si trasformerebbe il popolo in un sovrano assoluto, e l’assolutismo non ha bisogno di costituzioni. Efficacemente, il liberale Roberto Lucifero d’Aprigliano, in una bella sintesi prodotta nel suo intervento al dibattito generale sul progetto di Costituzione, precisava che “la Costituzione è fatta per le minoranze e non per le maggioranze, per tutelare i pochi e non i molti. I molti non hanno bisogno di Costituzione, hanno la forza” (4 marzo 1947).
Resta forte l’impressione di una classe politica troppo timida, incapace di avviare un rilancio risoluto del sistema politico. Ma la verità è più sfumata, e quella prudenza nell’architettura di sistema rispondeva a un bisogno di concreto rispecchiamento, nel testo, della traumatica frammentazione in cui il popolo italiano si trovava in quegli anni. Proprio per questo, con il suo discorso di apertura, Umberto Terracini spiegava bene come una Costituzione non fosse da intendere come “un documento di pura perizia giuridica”, ma “un atto di vita del nostro popolo” (4 marzo 1947).
Che cos’è, in fondo, una Costituzione? E che rapporto ha con la vita dei popoli? Senza dubbio, la Costituzione è un sistema di norme che regolano i fondamenti di un’organizzazione sociale e politica, e – come già detto – tale necessità si associa in epoca moderna all’esigenza di fissare limiti al potere, stabilendo condizioni e modi per l’esercizio dell’autorità.
Non a caso, l’assemblea rivoluzionaria francese nel 1789 inserì nell’articolo 16 la frase: “Un popolo, che non riconosce i diritti dell’uomo e non attua la divisione dei poteri, non ha Costituzione”. Anche il filosofo Immanuel Kant considera la Costituzione repubblicana come l’unica capace di corrispondere al contratto originario, cioè all’ipotetico consenso universale sulla forma di governo, in quanto rispettosa della natura umana, e cioè delle libertà del singolo, ma anche della libertà collettiva, che si costituisce connettendo le libertà individuali a una legislazione unitaria, e si deve erigere necessariamente sulla limitazione del potere, cioè dev’essere imperniata sulla divisione tra potere esecutivo e legislativo. Il pensiero illuminista maturò evidentemente l’idea dei poteri divisi che si bilanciano reciprocamente, in chiave anti-assolutista, con un eccesso – forse – di astrazione nel ragionamento. Fino a che punto infatti tale divisione evita la contrapposizione (e dunque, come temeva Hobbes, l’immobilismo, o peggio, la guerra civile)?
Su questo aspetto è magistrale la precisazione di Hegel. La divisione dei poteri non va letta come astratta frammentazione, ma sempre dentro un elemento di organicità. Scrive Hegel: “Il principio della divisione dei poteri, infatti, implica il momento essenziale delle differenze, della razionalità nella sua realtà. Quando però questo principio viene colto dall’intelletto astratto, allora vi risiedono sia la determinazione falsa dell’autonomia assoluta dei poteri l’uno rispetto all’altro, sia l’unilateralità di intendere il loro rapporto reciproco come qualcosa di negativo, come limitazione reciproca – Da questa angolazione, il principio della divisione dei poteri diviene un’ostilità, un’angoscia davanti a ciascun potere, davanti a ciò che ciascun potere produce contro l’altro come contro un male: e ciò avviene con la determinazione di contrapporsi all’altro potere e di procurare, attraverso questi contrapporsi, un equilibrio generale. Così, però, non si produce affatto un’unità vivente”[2].
Per Hegel esiste una divisione non estrinseca dei poteri, cioè tale che ciascuno di essi conservi, per implicazione, al proprio interno gli altri (Hegel non pensava a una Costituzione repubblicana, ma monarchica, ciononostante evidenzia la necessità di pensare dialetticamente tanto l’unità quanto la separazione dei poteri).
L’idea hegeliana di un’articolazione interna – e non astratta contrapposizione – vive di fatto nella nostra Costituzione, nella misura in cui, come abbiamo anticipato e meglio approfondiremo in seguito, i poteri sono divisi ma reciprocamente implicantesi con un sistema articolato di nomine incrociate e passaggi istituzionali.
Posta questa esigenza di armonizzare la forma istituzionale dello Stato, conclude Hegel, la sua concretezza si costituisce anche e soprattutto nel suo rapporto con la vita storica del popolo: “la Costituzione di un determinato popolo dipende, in generale, dalla modalità e dalla formazione dell’autocoscienza del popolo stesso […] voler dare a priori a un popolo una Costituzione […] significherebbe trascurare proprio il momento che fa di una Costituzione qualcosa di più di un mero ens rationis. Di conseguenza ogni popolo ha la Costituzione che gli è adeguata e conveniente”[3].
Ecco perché il socialista Lelio Basso, nel suo intervento in Assemblea Costituente, difendeva l’equilibrismo intrinseco alla nostra Carta fondamentale, leggendolo come risultato storico: “La Costituzione è il frutto di precedenti trasformazioni, è il riflesso delle trasformazioni che sono in atto; ed è la porta aperta verso trasformazioni che verranno. In questo senso noi voteremo in questa Costituzione degli articoli che certamente non corrispondono alle vecchie tradizioni del Partito ed altri che contraddicono a quelle che sono le nostre aspirazioni lontane; ma voteremo degli articoli che siano l'espressione della complessa realtà oggi in atto e li voteremo con perfetta lealtà” (6 marzo 1947).
Cosa intendeva dire Basso? Egli precisava che la realtà del popolo italiano, in particolare dopo il secondo conflitto mondiale, si fondava proprio sulla molteplicità delle istanze in campo.
Contrappesi e rigidità non erano la conseguenza di un’insicurezza decisionale, ma il precipitato concreto di una realtà maturata alla fine di una vicenda drammatica, e all’alba di una nuova pagina politica e sociale.
Anche Saragat riprese e ribadì quel concetto espresso da Basso, con una bella conclusione: “La nostra Costituzione ha un carattere, che può apparire contraddittorio; ma la contraddittorietà è nella natura delle cose e della materia che noi dobbiamo elaborare dal punto di vista legislativo e costituzionale. […]
È molto facile fare Costituzioni omogenee, dove non c'è che un partito unico, che legifera.
È molto più complesso farle nel caso in cui ci troviamo noi, in cui ci sono molti partiti, che hanno cooperato al compito nuovo di ricostruzione della nuova casa italiana” (6 marzo 1947).
NOTE
[2] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 463.
[3] Id., p. 471.
(15 novembre 2019)
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