In
un mese, lo scenario politico e sociale a livello globale è velocemente
cambiato, perché, con un sincronismo inaspettato, dopo la crisi del
2008, è emerso un nuovo ciclo di rivolte, contro le misure di austerità
di stampo neoliberale.
Barcellona, Algeri, la Francia dei Gilets Jaunes, Haiti, Puerto Rico, Quito, Sudan, Libano, Tunisia, Cile, sono alcuni di questi luoghi.
Queste
nuove insorgenze vedono come protagonista una forza moltitudinaria,
ovvero, giovani, donne, precari, proletari, persone senza casa, ceto
medio indebitato; come quelli che in Cile dicono “Non sono trenta pesos,
sono trent’anni ”, per rimarcare che le radici di quella protesta, che
ha solo poco più di tre settimane è destinata a non placarsi; perché
viene da lontano, dal passato; in particolare nel modello neoliberista
imposto, nel secolo scorso, dopo il colpo di stato del 1973 ordito da
Pinochet, generale fellone, nominato dal governo Allende.
Queste
forze moltitudinarie che sono l’anima delle recenti ribellioni, si
pongono in una prospettiva di trasformazione dell’impianto neoliberista;
e proprio per questo preoccupano fortemente il potere che dal suo lato
reprime e prova ad adottare delle soluzioni istituzionali di paravento
dal carattere vagamente schizofrenico; valga, come esempio la proposta,
del presidente cileno Piñera che, mentre abusava della repressione
proponeva in simultanea una riforma della costituzione in senso
democratico-liberale.
Sono
23 i morti registrati, 1300 i feriti, centinaia le donne e gli uomini
che sono stati colpiti dai proiettili nel corso delle manifestazioni in
Cile, decine le donne violentate dalle forze dell’ordine e circa tremila
i detenuti nelle carceri.
Nonostante questo inquietante scenario –
morte, tortura, abusi sessuali- le proteste nelle strade di Santiago,
Valparaíso e altri luoghi in Cile continuano a resistere in nome
dell’autoorganizzazione, la libertà, la possibilità di costruire un
altro mondo meno ingiusto.
Sempre
in America Latina, in Brasile, negli ultimi giorni l’annuncio della
scarcerazione, per altro provvisoria, dell’ex presidente Lula-
condannato per corruzione con prove dubbie – ha riaperto la speranza di
riavviare un camino riformista, a partire dall’apparato statale.
Proprio
mentre si festeggiava la libertà per Lula, un colpo di stato in Bolivia
lentamente prendeva forma, dopo le ultime elezioni, per poi esplodere
negli ultimi due giorni. L’immagine di Evo Morales che rassegna le
dimissioni, ha fatto il giro del mondo così come quelle delle violenze
contro indigeni, donne, giornalisti, sindaci che in diversi modi lo
hanno sostenuto.
Quella
boliviana è l’altra faccia, quella negativa, rispetto alla ribellione
cilena.
Per capire questa storia bisogna, anche in questo caso,
ricorrere alla memoria e ricostruire la storia degli interessi del
capitale finanziario globale, in particolare quello nordamericano, che
saldandosi con quelli dei grandi proprietari terrieri, hanno, da oltre
un secolo, usato l’America Latina come il cortile da cui estrarre le
risorse naturali, la forza-lavoro a basso costo, in un lungo processo di
accumulazione predatoria.
Il
Mas, il Movimento al Socialismo di Evo Morales, ha una lunga storia; il
suo governo è il prodotto di lotte sociali esplose per evitare la
privatizzazione di risorse fondamentali come l’acqua e il gas.
La base
sociale del governo di Morales era quella dei popoli indigeni, il
settore popolare della capitale La Paz e i cocaleros.
Al
di là della discussione sulla forma statale del governo e la relazione
con i movimenti sociali, che meritano per complessità ulteriori
approfondimenti, quello che ci interessa rimarcare è la strategia
capitalistica globale per eliminare Evo Morales dalla scacchiera
dell’America Latina, mai ‘’pacificata’’, e ora di nuovo in aperto
subbuglio.
Siamo,
con ogni evidenza, dinanzi ad un ciclo di lotte moltitudinarie che può
essere inteso correttamente solo se si evita di mescolare il tutto, ma
procedendo per analogie e differenze specifiche, così da evitare di
confondere la sovversione cilena con l’eversione boliviana.
E’ opportuno
specificare che anche se vengono usate parole uguali, come, ad esempio,
assemblea, “cavildo1“,
democrazia, queste nel caso boliviano mascherano gli interessi dei
gruppi di potere che, per l’ennesima volta, mirano ad appropriarsi delle
risorse – la Bolivia è tra le altre cose ricca di litio, una risorsa
indispensabile per costruire computer, cellulari, batterie per auto
elettriche.
Si
capisce perché l’eliminazione di Morales è un piano orchestrato con
cura.
Se la rivolta cilena è contro il neoliberalismo di matrice
pinochetista, quella boliviana è il tentativo di bloccare un progetto
redistributivo, che limita la concentrazione capitalista, ed in
particolare la presenza invasiva delle multinazionali, attraverso lo
stato.
Per
chiudere senza concludere, c’è da segnalare che con Trump, perfetta
‘’maschera caricaturale’’ del capitalismo, la politica estera
statunitense rispetto all’America Latina è in continuità con quella
praticata da Nixon negli anni settanta del secolo scorso: con
l’imposizione di dittature civico-militari per contrastare la
possibilità di governi di sinistra e di insorgenze di massa – come ad
esempio il governo di Allende in Cile e la rivolta del Cordobazo e
Rosariazo in Argentina.
Eppure,
nonostante le dittature vecchie e nuove, la cruenta repressione, le
torture, le migliaia di desaparecidos, la sovversione sociale in America
Latina continua ad aprire spazi di possibilità per immaginare un altro
mondo, altri sistemi di relazione fuori dall’egemonia del capitale
nord-americano, e più in genere, di quello globale.
1 Assemblee civiche –
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