mercoledì 13 febbraio 2019

Sardegna. “S’ismurzu de su pastore”, una merenda di rivolta

 
 contropiano
Il mondo della pastorizia è in rivolta da decenni e il motivo è sempre lo stesso: il prezzo del latte. Forse alla fine passerà anche questa protesta perché le classi dominanti e gli industriali del latte in fondo temono la forza dei pastori sardi e tireranno fuori qualche soluzione tampone. Ma la crisi del comparto anche stavolta non verrà affrontata.

Secondo i dati forniti dall’Agenzia Agris Sardegna, incaricata di raccogliere e rielaborare i dati delle fatture di pagamento del latte, in Sardegna, 12.267 imprese del comparto registrate nell’Isola, con un numero complessivo di capi ovini di 2milioni 548mila 808, hanno prodotto per l’annata 2015-2016 una produzione di quasi 300 milioni di litri di latte (di cui 17milioni circa da caprini) e per la stagione 2016-2017 poco più di 284 milioni di litri. Ogni pecora produce mediamente poco più di centro litri di latte all’anno, per una consistenza media di gregge di 292 capi (http://www.regione.sardegna.it/j/v/2568?s=371854&v=2&c=394&t=1).
La rivolta che sta imbiancando di latte tutta l’isola è scoppiata a causa del crollo del prezzo del latte. Il fatto è che i trasformatori (gli industriali del latte) pagano pochissimo il latte conferito dai pastori (attualmente sotto i 60 centesimi), prezzo ben al di sotto dei costi di produzione (calcolato tra gli 80 centesimi e un euro; la scorsa stagione il prezzo era fissato a 0,85, sempre poco ma meglio che nel passato).
Perché lo pagano così poco? Gli industriali dicono che il prezzo lo decide il mercato. I pastori gridano alla truffa perché il prezzo del latte viene fissato sul prezzo finale del pecorino romano (chiamato così anche se prodotto per la stragrande maggioranza da latte sardo) che è un formaggio di scarsissima qualità assorbito prevalentemente dal mercato americano. Praticamente si tratta di una monocultura favorevole agli industriali e sfavorevole ai produttori.
Però il latte non viene usato tutto per produrre pecorino romano, ma anche altri formaggi di qualità venduti a prezzi ben più remunerativi, eppure viene acquistato sempre al di sotto dei 60 centesimi sulla base del prezzo finale del “romano”. Insomma il latte è uno dei rarissimi casi in cui è il prodotto finale (in questo caso, un prodotto finale, cioè il “romano”, eletto a parametro di valore) a fare il prezzo della materia prima e non il contrario.
Periodicamente la Regione organizza dei tavoli di contrattazione che puntualmente falliscono perché gli industriali restano chiusi ad ogni rialzo del prezzo del latte. Il sospetto è che gli industriali che controllano i tre consorzi di tutela dei tre pecorini Dop (il Romano, il pecorino sardo e il fiore sardo) facciano cartello sui prezzi e non abbiano alcun interesse a diversificare la produzione. Il sospetto è anche che la classe politica colonizzata e a sua volta colonizzatrice sia subalterna agli interessi e ai dettami degli industriali e non abbia mai avuto la volontà di opporsi. Ecco perché tutti i volti noti dei politici sardi vengono cacciati via dai presidi di questi giorni.
Fra l’altro lo scorso dicembre era stato annunciato in pompa magna la nascita dell’ Oilos, (Organismo interprofessionale latte ovino sardo composto) e il ministro delle Politiche agricole alimentari, forestali e del turismo Gian Marco Centinaio (che oggi cade dalle nuvole e mostra il petto a difesa dei pastori) lo aveva definito «un traguardo importante e una risposta al problema del prezzo del latte» (Sardinia Post, https://www.sardiniapost.it/politica/arriva-il-sigillo-del-ministero-per-oilos-nasce-lorganizzazione-del-latte-ovino/). La rivolta del latte era insomma largamente prevedibile. Perché non si è fatto nulla per evitarla?
A fronte di circa 300milioni di litri di latte prodotti all’anno e in gran parte destinati alla monocoltura del “romano”, salta all’occhio il dato impressionante di importazione di oltre l’80% dei prodotti alimentari: cereali, carne, formaggi, frutta e verdura, inclusi i mangimi per alimentare pecore e agnelli. Un paradosso inspiegabile. In Sardegna la superficie agricola utile è di circa 116.000 ettari, di questi 7.000 sono dedicati a seminativi e oltre 45.000 a pascolo. Tradotto in altre parole, utilizziamo quasi tutta la nostra terra per produrre merce di scarso valore economico e con poco valore aggiunto poiché la trasformazione è quasi esclusivamente nelle mani degli industriali del latte, mentre importiamo merce che non siamo più in grado di produrre a casa nostra. L’assenza di una classe politica adeguata si misura in questi numeri, nell’incapacità di pianificare un destino diverso dalla monocultura coloniale per la propria terra. La subalternità dei diversi governi multicolore (ma sulle grandi questioni monopensiero) susseguitisi nel corso degli anni alla guida dell’isola è evidenziata dalle periodiche crisi dei diversi comparti, crisi mai sanate e via via più profonde, così profonde da aver determinato la fine di realtà produttive importanti e vitali. Ciò che è peggio, la svalutazione del nostro lavoro e dei nostri prodotti ha avuto come conseguenza la svalutazione delle nostre terre, l’indebolimento dei nostri legami con questa terra, con la nostra cultura e le nostre tradizioni, ci ha fiaccato lo spirito e levato le certezze, ha sfibrato i legami sociali, disgregato le nostre comunità, cancellato o reso marginale la nostra cultura e la nostra lingua. La situazione di crisi perenne, iniziata secoli addietro e acuitasi negli ultimi decenni ha aperto le porte agli speculatori di ogni genere e sorta. E così una terra resa “arida” da decenni di disboscamenti su cui hanno fatto fortuna padroni continentali e destinata a pascolo diventa oggi l’eldorado per i signori delle rinnovabili, dell’eolico e delle finte serre fotovoltaiche, capaci di ricavare in Sardegna centinaia di milioni di euro all’anno, senza dover neppure fare lo sforzo di venirci in Sardegna, esattamente come facevano un tempo i signori feudali spagnoli e piemontesi. Quale allevatore o agricoltore non accetterebbe infatti in queste condizioni una pala eolica che occupa pochi metri quadri e “regala” ogni anno quanto non sono più in grado di produrre neppure 10 ettari di terreno coltivato?
Questa crisi ha aperto oggi le porte alle fabbriche delle bombe, alle coltivazioni per produrre biogas, come in passato le aveva aperte alle fabbriche degli industriali del nord, durate pochi anni ma quanto basta per lasciare un ricordo perenne di inquinamento insanabile e devastazione economica e sociale. In Sardegna oltre 300 paesi su 377 sono considerati deprivati. Appare ovvio quindi che non si può risolvere l’ennesima crisi del latte ovino con un piccolo incentivo alla produzione; appare ovvio in ragione di un’isola ricca di risorse ma priva di classi dirigenti adeguate. Forse la protesta passerà anche stavolta, ma noi abbiamo il compito di non fermarci all’ennesima elemosina e portare avanti un dibattito serio, battendoci per avviare un processo di riforma utile a garantirci un futuro diverso, soprattutto, utile a garantirci un futuro.
Ecco perché la lotta dei pastori è la lotta di tutti i sardi per la sovranità alimentare, contro la monocultura, per una economia circolare e giusta.
Iniziamo con una atto insieme di solidarietà e complicità con i pastori in lotta. Ecco perché sabato pomeriggio abbiamo organizzato “s’ismurzu de su pastore” davanti al caseificio Pinna di Thiesi. Vi invitiamo a comprare formaggio a chilometro zero, meglio se direttamente dai pastori o dagli spacci da loro gestiti, anche per sostenerli in questo difficile momento in cui sono costretti dalle esigenze della lotta a gettare il loro prodotto anziché a conferirlo.
Gusteremo insieme il formaggio davanti a quello che a tutti gli effetti è diventato il simbolo dell’arroganza di chi affama le campagne senza voler sentire ragioni.
Pastore sardu non t’arendas como!

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