contropiano
Il mondo della pastorizia è in rivolta da decenni e il motivo è sempre lo stesso: il prezzo del latte. Forse alla fine passerà
anche questa protesta perché le classi dominanti e gli industriali del
latte in fondo temono la forza dei pastori sardi e tireranno fuori
qualche soluzione tampone. Ma la crisi del comparto anche stavolta non
verrà affrontata.
Secondo i dati forniti dall’Agenzia
Agris Sardegna, incaricata di raccogliere e rielaborare i dati delle
fatture di pagamento del latte, in Sardegna, 12.267 imprese del comparto
registrate nell’Isola, con un numero complessivo di capi ovini di
2milioni 548mila 808, hanno prodotto per l’annata 2015-2016 una
produzione di quasi 300 milioni di litri di latte (di cui 17milioni
circa da caprini) e per la stagione 2016-2017 poco più di 284 milioni di
litri. Ogni pecora produce mediamente poco più di centro litri di latte
all’anno, per una consistenza media di gregge di 292 capi (http://www.regione.sardegna.it/j/v/2568?s=371854&v=2&c=394&t=1).
La
rivolta che sta imbiancando di latte tutta l’isola è scoppiata a causa
del crollo del prezzo del latte. Il fatto è che i trasformatori (gli
industriali del latte) pagano pochissimo il latte conferito dai pastori
(attualmente sotto i 60 centesimi), prezzo ben al di sotto dei costi di
produzione (calcolato tra gli 80 centesimi e un euro; la scorsa stagione
il prezzo era fissato a 0,85, sempre poco ma meglio che nel passato).
Perché
lo pagano così poco? Gli industriali dicono che il prezzo lo decide il
mercato. I pastori gridano alla truffa perché il prezzo del latte viene
fissato sul prezzo finale del pecorino romano (chiamato così anche se
prodotto per la stragrande maggioranza da latte sardo) che è un
formaggio di scarsissima qualità assorbito prevalentemente dal mercato
americano. Praticamente si tratta di una monocultura favorevole agli
industriali e sfavorevole ai produttori.
Però
il latte non viene usato tutto per produrre pecorino romano, ma anche
altri formaggi di qualità venduti a prezzi ben più remunerativi, eppure
viene acquistato sempre al di sotto dei 60 centesimi sulla base del
prezzo finale del “romano”. Insomma il latte è uno dei rarissimi casi in
cui è il prodotto finale (in questo caso, un prodotto finale, cioè il
“romano”, eletto a parametro di valore) a fare il prezzo della materia
prima e non il contrario.
Periodicamente
la Regione organizza dei tavoli di contrattazione che puntualmente
falliscono perché gli industriali restano chiusi ad ogni rialzo del
prezzo del latte. Il sospetto è che gli industriali che controllano i
tre consorzi di tutela dei tre pecorini Dop (il Romano, il pecorino
sardo e il fiore sardo) facciano cartello sui prezzi e non abbiano alcun
interesse a diversificare la produzione. Il sospetto è anche che la
classe politica colonizzata e a sua volta colonizzatrice sia subalterna
agli interessi e ai dettami degli industriali e non abbia mai avuto la
volontà di opporsi. Ecco perché tutti i volti noti dei politici sardi
vengono cacciati via dai presidi di questi giorni.
Fra
l’altro lo scorso dicembre era stato annunciato in pompa magna la
nascita dell’ Oilos, (Organismo interprofessionale latte ovino sardo
composto) e il ministro delle Politiche agricole alimentari, forestali e
del turismo Gian Marco Centinaio (che oggi cade dalle nuvole e mostra il petto a difesa dei pastori) lo aveva definito «un traguardo importante e una risposta al problema del prezzo del latte» (Sardinia Post, https://www.sardiniapost.it/politica/arriva-il-sigillo-del-ministero-per-oilos-nasce-lorganizzazione-del-latte-ovino/). La rivolta del latte era insomma largamente prevedibile. Perché non si è fatto nulla per evitarla?
A
fronte di circa 300milioni di litri di latte prodotti all’anno e in
gran parte destinati alla monocoltura del “romano”, salta all’occhio il
dato impressionante di importazione di oltre l’80% dei prodotti
alimentari: cereali, carne, formaggi, frutta e verdura, inclusi i
mangimi per alimentare pecore e agnelli. Un paradosso inspiegabile. In
Sardegna la superficie agricola utile è di circa 116.000 ettari, di
questi 7.000 sono dedicati a seminativi e oltre 45.000 a pascolo.
Tradotto in altre parole, utilizziamo quasi tutta la nostra terra per
produrre merce di scarso valore economico e con poco valore aggiunto
poiché la trasformazione è quasi esclusivamente nelle mani degli
industriali del latte, mentre importiamo merce che non siamo più in
grado di produrre a casa nostra. L’assenza di una classe politica
adeguata si misura in questi numeri, nell’incapacità di pianificare un
destino diverso dalla monocultura coloniale per la propria terra. La
subalternità dei diversi governi multicolore (ma sulle grandi questioni
monopensiero) susseguitisi nel corso degli anni alla guida dell’isola è
evidenziata dalle periodiche crisi dei diversi comparti, crisi mai
sanate e via via più profonde, così profonde da aver determinato la fine
di realtà produttive importanti e vitali. Ciò che è peggio, la
svalutazione del nostro lavoro e dei nostri prodotti ha avuto come
conseguenza la svalutazione delle nostre terre, l’indebolimento dei
nostri legami con questa terra, con la nostra cultura e le nostre
tradizioni, ci ha fiaccato lo spirito e levato le certezze, ha sfibrato i
legami sociali, disgregato le nostre comunità, cancellato o reso
marginale la nostra cultura e la nostra lingua. La situazione di crisi
perenne, iniziata secoli addietro e acuitasi negli ultimi decenni ha
aperto le porte agli speculatori di ogni genere e sorta. E così una
terra resa “arida” da decenni di disboscamenti su cui hanno fatto
fortuna padroni continentali e destinata a pascolo diventa oggi
l’eldorado per i signori delle rinnovabili, dell’eolico e delle finte
serre fotovoltaiche, capaci di ricavare in Sardegna centinaia di milioni
di euro all’anno, senza dover neppure fare lo sforzo di venirci in
Sardegna, esattamente come facevano un tempo i signori feudali spagnoli e
piemontesi. Quale allevatore o agricoltore non accetterebbe infatti in
queste condizioni una pala eolica che occupa pochi metri quadri e
“regala” ogni anno quanto non sono più in grado di produrre neppure 10
ettari di terreno coltivato?
Questa
crisi ha aperto oggi le porte alle fabbriche delle bombe, alle
coltivazioni per produrre biogas, come in passato le aveva aperte alle
fabbriche degli industriali del nord, durate pochi anni ma quanto basta
per lasciare un ricordo perenne di inquinamento insanabile e
devastazione economica e sociale. In Sardegna oltre 300 paesi su 377
sono considerati deprivati. Appare ovvio quindi che non si può risolvere
l’ennesima crisi del latte ovino con un piccolo incentivo alla
produzione; appare ovvio in ragione di un’isola ricca di risorse ma
priva di classi dirigenti adeguate. Forse la protesta passerà anche
stavolta, ma noi abbiamo il compito di non fermarci all’ennesima
elemosina e portare avanti un dibattito serio, battendoci per avviare un
processo di riforma utile a garantirci un futuro diverso, soprattutto,
utile a garantirci un futuro.
Ecco
perché la lotta dei pastori è la lotta di tutti i sardi per la
sovranità alimentare, contro la monocultura, per una economia circolare e
giusta.
Iniziamo
con una atto insieme di solidarietà e complicità con i pastori in
lotta. Ecco perché sabato pomeriggio abbiamo organizzato “s’ismurzu de
su pastore” davanti al caseificio Pinna di Thiesi. Vi invitiamo a
comprare formaggio a chilometro zero, meglio se direttamente dai pastori
o dagli spacci da loro gestiti, anche per sostenerli in questo
difficile momento in cui sono costretti dalle esigenze della lotta a
gettare il loro prodotto anziché a conferirlo.
Gusteremo
insieme il formaggio davanti a quello che a tutti gli effetti è
diventato il simbolo dell’arroganza di chi affama le campagne senza
voler sentire ragioni.
Pastore sardu non t’arendas como!
Nessun commento:
Posta un commento