Vincenzo Imperatore Consulente di direzione, giornalista e saggista
E’ lo stesso atteggiamento che hanno i banchieri e le penne di sistema che difendono un mondo che presenta ormai più buchi di una fetta di formaggio svizzero.
Mi piace provocarli, ad ogni dibattito pubblico e televisivo, con l’arte diametralmente opposta e cioè con la generalizzazione. Anche perché non è molto lontana dalla realtà.
Ci piace generalizzare, è rassicurante, un pretesto per risparmiarci altre fatiche per combattere il “tanto non è sempre così”.
A tal proposito, nel corso di un mio intervento a PiazzaPulita sul La7 la settimana scorsa, ho dichiarato che tutte le banche (tranne poche eccezioni) hanno falsificato e/o falsificano i loro bilanci.
Reazione tra gli ospiti? Minimizzare! Ma a poco sono bastate le dichiarazioni rassicuranti del politico di turno («il nostro sistema bancario è solido…») oppure del giornalista schierato a ‘negare’ le preoccupazioni del default degli istituti di credito con dati che nulla hanno a che vedere con la reale fotografia del nostro sistema finanziario. Tutto questo minimalismo non basta più.
Tutto questo non offre più le giuste garanzie al mercato che continua a bocciare in borsa il sistema bancario (– 36% nell’ultimo anno). Perché? Perché gli analisti sanno leggere i bilanci e si preoccupano della voce ‘crediti in sofferenza’, cioè di quei prestiti che non verranno restituiti integralmente e soprattutto saranno rimborsati in tempi lunghi. E la Bce non può più far finta di non vedere.
Ad esempio in Mps, secondo quanto riportato da Il Fatto, da lunedì 28 gennaio scorso sono scattati controlli della Vigilanza di Francoforte mirati a verificare, tra l’altro, la veridicità della posta di bilancio degli accantonamenti per le perdite su sofferenze (Npl) derivanti da crediti incagliati (Utp) con anzianità superiore ai sette anni.
Ma perché questa (tardiva) preoccupazione? Cosa hanno combinato di preciso le banche in merito alla valutazione nei loro bilanci degli Npl? Semplice, non li hanno valutati come tali.
La regolamentazione derivante dall’accordo interbancario di Basilea che fissa i requisiti patrimoniali minimi degli istituti, il cosiddetto “patrimonio di vigilanza”, per poter “fare banca” e cioè erogare credito sulla base dei risparmi depositati che vanno appunto salvaguardati, obbliga le banche alla registrazione nel proprio bilancio, per ogni credito concesso, di accantonamenti “prudenziali” per le “perdite attese”, con relativa diminuzione quindi degli utili per gli azionisti.
Accantonamento che diventa nettamente superiore se quel credito concesso diventa un “credito di dubbio recupero”.
A questo punto siamo sicuri che i crediti sani (cosiddetti in bonis) siano davvero tali? Ma se invece la Bce, come pare stia facendo, le ispezioni le concentrasse sui crediti ancora in bonis o presunti tali (sui quali gli accantonamenti da fare sono nettamente inferiori a quelli previsti per i “deteriorati”)? E se si accorgesse che l’impresa beneficiaria del finanziamento avesse già manifestato evidenti segnali di crisi (ha ricevuto un pignoramento da Equitalia per mancato pagamento della Tarsu, non paga le rate di mutuo da oltre otto mesi, ha i fidi interamente utilizzati o sconfinati ed effettivamente incagliati), da controllore considererebbe quel prestito tra i “crediti in bonis” o tra i “crediti deteriorati”?
E se facendo una indagine più approfondita verificasse che quel finanziamento è ancora tra i “crediti in bonis”, come dovrebbe considerare il bilancio di quella banca? Falso. Ma i difensori del sistema, anche questa volta, diranno, citando Mondonico, che “non era quella la partita da vincere”.
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