"Non faccio altro che domandarmi come siamo precipitati nella ferocia e nell'ostentazione della cattiveria di questi anni. Il Pd? Una storia finita".
All'origine,
c'è lo smarrimento: "L'Italia è irriconoscibile. Non faccio altro che
domandarmi come siamo precipitati nella ferocia e nell'ostentazione
della cattiveria di questi anni, trasformandoci nel buco nero
dell'umanità, dopo i grandi slanci degli anni sessanta".
Storico, sociologo, politologo, intellettuale di riferimento della sinistra italiana, Marco Revelli ha scelto come guida l'incertezza, per esplorare quel mondo frantumato, emotivo e a tratti anche psicotico, che, per comodità, e per star con le coscienze apposto, chiamiamo populismo: "La sinistra, credendo di combattere i populisti, si è schierata contro il popolo, ignorando i bisogni che manifestava. Si è presa gioco di Luigi Di Maio perché vendeva bibite allo stadio. Ha ironizzato su quelli che sbagliano il congiuntivo. Ha contestato, non il merito, ma il principio del reddito di cittadinanza, sostenendo che garantirebbe di fare la bella vita sdraiati sul divano. Come se non sapesse che i poveri esistono davvero, che ci sono ragazzi che fanno qualsiasi lavoretto pur di racimolare uno stipendio, seppur misero".
Sono dieci anni che Revelli naviga nel big bang politico, sociale ed economico che la crisi finanziaria ha innescato, osservando, partecipando, tentando di decifrare il senso dell'esplosione che ha distrutto il mondo con cui siamo entrati nel nuovo secolo, con la certezza che la storia era finita, la democrazia liberale aveva trionfato, e che si trattava soltanto di amministrare l'esistente: "È stata l'illusione alimentata dal neo-liberismo, e che continua in parte a essere alimentata anche oggi. L'idea che, prima o poi, tutto tornerà come prima. Come se noi fossimo seduti su un treno che ha deviato. Occorre semplicemente rimetterlo sui binari giusti". Mentre il populismo – è questa l'analisi che Revelli sviluppa nel suo libro appena pubblicato, "La politica senza politica", (Einaudi) – è in realtà la manifestazione di una patologia che viene da lontano, causata dall'erosione della democrazia, dalla distruzione dei partiti, dalla frantumazione della società, tutti prodotti altamente infiammabili, sui quali il crollo economico del 2008 ha funzionato come un fiammifero acceso in un lago di carburante.
Le fiamme hanno illuminato qualche verità, professore?
Hanno mostrato, a una società che non si sentiva più rappresentata, che ciò che provava era vero. 'Questi non sono i vostri rappresentanti – hanno detto i populisti –. Rappresentano altri: le oligarchie europee, i poteri finanziari, i partiti degli affari'.
Era così?
Il problema, si diceva, non era rappresentare: era governare. È il trampolino che il Pd, Monti, il centrodestra hanno offerto ai 5 stelle e alla Lega: negare che il principio di rappresentanza fosse compromesso, affermando che l'unico problema fosse la governabilità
Il populismo, dunque, serve alla democrazia?
No, la mina. Ma non si comprende la forza del richiamo populista se non si considera che esso è figlio dell'egemonia neo-liberista, basata sull'idea che certe politiche non si possono mettere in discussione, poiché è il mercato a chiederle. Questo ha aperto il vuoto. Perché, invece, la politica è fatta di scelte, alternative, decisioni che indicano una direzione. È così che, per reazione alla politica dell'inevitabilità, si è fatta avanti una politica dell'eternità. Il richiamo a ciò che rimane sempre uguale: il fatto che io sono bianco, parlo veneto, sono diverso dai neri che stanno venendo a invadermi.
Lei cita Luciano Gallino.
Perché è acutissima la sua definizione della nuova lotta di classe, quella che i ricchi fanno contro i poveri.
I populisti hanno riequilibrato il rapporto?
No, hanno finto di farlo. Donald Trump chiuse la campagna elettorale in West Virginia, nel parcheggio di un supermercato, davanti a una massa di lavoratori in tuta blu. Disse: "Finalmente, la classe operaia americana batterà un colpo". Sembrava Lenin. Invece, è un miliardario immobiliarista.
Però si sono affidati a lui.
Certo, ma non perché si aspettavano da Trump la riscossa: piuttosto, per fare più male possibile a chi avrebbe dovuto rappresentarli e ha smesso di farlo. In fondo, il voto populista è un voto di vendetta.
E se invece avessero votato i populisti proprio perché li sentono come loro?
Su questo non c'è dubbio. La sinistra è antropologicamente diversa dal popolo che vorrebbe rappresentare. Di Vittorio, prima di rappresentare i braccianti, è stato un bracciante. Oggi non c'è un solo leader della sinistra europea che emerga dal contesto sociale a cui vorrebbe far riferimento. Escluso Landini, che però è un sindacalista.
Che conseguenze ha, questo?
Che gli argomenti con i quali il centrosinistra si oppone a questo governo, che io considero tra i peggiori, sono falsamente anti-populisti: in realtà, sono anti popolari.
Per esempio?
Sposare, contro Salvini e Di Maio, le posizioni dei commissari europei, quelli che hanno massacrato la Grecia, è suicida. Una sinistra che fa questo, storicamente, non ha più ragione di esistere.
Zingaretti può invertire la rotta?
Con tutta la simpatia che provo, temo che la storia del Pd sia finita.
Da dove dovrebbe ripartire allora la sinistra?
Dall'ascolto. In fondo, da dove trent'anni fa è partita la Lega, dalle osterie, dai gazebo davanti ai supermercati, dai piccoli paesi. La sinistra che crede di avere solo cose da insegnare, ma niente di imparare, è spacciata in partenza.
Ma lei, che è un uomo della sinistra, non ha niente da rimproverarsi?
Se mi guardo indietro, mi accorgo che l'Italia che abbiamo prodotto nel Sessantotto è un'Italia che fa schifo. Abbiamo urlato: "Vogliamo tutto". Poco dopo, le catene dei supermercati promettevano: "Vi diamo tutto". Abbiamo aperto una breccia in una società autoritaria, ma dentro quella breccia si sono infilate un'infinità di veleni. Il disastro antropologico degli anni Ottanta e Novanta è anche un nostro figlio legittimo.
Suo padre era Nuto Revelli, scrittore e partigiano: cosa prova quando sente parlare di pericolo fascista?
Provo una sensazione contraddittoria. Da una parte, penso che abbia ragione Francesco Guccini quando avverte che c'è aria di Weimar, la macchia nera che sta avanzando la percepisco anch'io.
Dall'altra, però.
Mi danno fastidio i richiami formali e retorici all'antifascismo, perché il nemico che abbiamo di fronte non è un semplice residuo del passato. Quello che stiamo vivendo non è un rigurgito anti storico. Anzi, è molto più storico di noi, perché sta tragicamente dentro il nostro presente.
Storico, sociologo, politologo, intellettuale di riferimento della sinistra italiana, Marco Revelli ha scelto come guida l'incertezza, per esplorare quel mondo frantumato, emotivo e a tratti anche psicotico, che, per comodità, e per star con le coscienze apposto, chiamiamo populismo: "La sinistra, credendo di combattere i populisti, si è schierata contro il popolo, ignorando i bisogni che manifestava. Si è presa gioco di Luigi Di Maio perché vendeva bibite allo stadio. Ha ironizzato su quelli che sbagliano il congiuntivo. Ha contestato, non il merito, ma il principio del reddito di cittadinanza, sostenendo che garantirebbe di fare la bella vita sdraiati sul divano. Come se non sapesse che i poveri esistono davvero, che ci sono ragazzi che fanno qualsiasi lavoretto pur di racimolare uno stipendio, seppur misero".
Sono dieci anni che Revelli naviga nel big bang politico, sociale ed economico che la crisi finanziaria ha innescato, osservando, partecipando, tentando di decifrare il senso dell'esplosione che ha distrutto il mondo con cui siamo entrati nel nuovo secolo, con la certezza che la storia era finita, la democrazia liberale aveva trionfato, e che si trattava soltanto di amministrare l'esistente: "È stata l'illusione alimentata dal neo-liberismo, e che continua in parte a essere alimentata anche oggi. L'idea che, prima o poi, tutto tornerà come prima. Come se noi fossimo seduti su un treno che ha deviato. Occorre semplicemente rimetterlo sui binari giusti". Mentre il populismo – è questa l'analisi che Revelli sviluppa nel suo libro appena pubblicato, "La politica senza politica", (Einaudi) – è in realtà la manifestazione di una patologia che viene da lontano, causata dall'erosione della democrazia, dalla distruzione dei partiti, dalla frantumazione della società, tutti prodotti altamente infiammabili, sui quali il crollo economico del 2008 ha funzionato come un fiammifero acceso in un lago di carburante.
Le fiamme hanno illuminato qualche verità, professore?
Hanno mostrato, a una società che non si sentiva più rappresentata, che ciò che provava era vero. 'Questi non sono i vostri rappresentanti – hanno detto i populisti –. Rappresentano altri: le oligarchie europee, i poteri finanziari, i partiti degli affari'.
Era così?
Il problema, si diceva, non era rappresentare: era governare. È il trampolino che il Pd, Monti, il centrodestra hanno offerto ai 5 stelle e alla Lega: negare che il principio di rappresentanza fosse compromesso, affermando che l'unico problema fosse la governabilità
Il populismo, dunque, serve alla democrazia?
No, la mina. Ma non si comprende la forza del richiamo populista se non si considera che esso è figlio dell'egemonia neo-liberista, basata sull'idea che certe politiche non si possono mettere in discussione, poiché è il mercato a chiederle. Questo ha aperto il vuoto. Perché, invece, la politica è fatta di scelte, alternative, decisioni che indicano una direzione. È così che, per reazione alla politica dell'inevitabilità, si è fatta avanti una politica dell'eternità. Il richiamo a ciò che rimane sempre uguale: il fatto che io sono bianco, parlo veneto, sono diverso dai neri che stanno venendo a invadermi.
Lei cita Luciano Gallino.
Perché è acutissima la sua definizione della nuova lotta di classe, quella che i ricchi fanno contro i poveri.
I populisti hanno riequilibrato il rapporto?
No, hanno finto di farlo. Donald Trump chiuse la campagna elettorale in West Virginia, nel parcheggio di un supermercato, davanti a una massa di lavoratori in tuta blu. Disse: "Finalmente, la classe operaia americana batterà un colpo". Sembrava Lenin. Invece, è un miliardario immobiliarista.
Però si sono affidati a lui.
Certo, ma non perché si aspettavano da Trump la riscossa: piuttosto, per fare più male possibile a chi avrebbe dovuto rappresentarli e ha smesso di farlo. In fondo, il voto populista è un voto di vendetta.
E se invece avessero votato i populisti proprio perché li sentono come loro?
Su questo non c'è dubbio. La sinistra è antropologicamente diversa dal popolo che vorrebbe rappresentare. Di Vittorio, prima di rappresentare i braccianti, è stato un bracciante. Oggi non c'è un solo leader della sinistra europea che emerga dal contesto sociale a cui vorrebbe far riferimento. Escluso Landini, che però è un sindacalista.
Che conseguenze ha, questo?
Che gli argomenti con i quali il centrosinistra si oppone a questo governo, che io considero tra i peggiori, sono falsamente anti-populisti: in realtà, sono anti popolari.
Per esempio?
Sposare, contro Salvini e Di Maio, le posizioni dei commissari europei, quelli che hanno massacrato la Grecia, è suicida. Una sinistra che fa questo, storicamente, non ha più ragione di esistere.
Zingaretti può invertire la rotta?
Con tutta la simpatia che provo, temo che la storia del Pd sia finita.
Da dove dovrebbe ripartire allora la sinistra?
Dall'ascolto. In fondo, da dove trent'anni fa è partita la Lega, dalle osterie, dai gazebo davanti ai supermercati, dai piccoli paesi. La sinistra che crede di avere solo cose da insegnare, ma niente di imparare, è spacciata in partenza.
Ma lei, che è un uomo della sinistra, non ha niente da rimproverarsi?
Se mi guardo indietro, mi accorgo che l'Italia che abbiamo prodotto nel Sessantotto è un'Italia che fa schifo. Abbiamo urlato: "Vogliamo tutto". Poco dopo, le catene dei supermercati promettevano: "Vi diamo tutto". Abbiamo aperto una breccia in una società autoritaria, ma dentro quella breccia si sono infilate un'infinità di veleni. Il disastro antropologico degli anni Ottanta e Novanta è anche un nostro figlio legittimo.
Suo padre era Nuto Revelli, scrittore e partigiano: cosa prova quando sente parlare di pericolo fascista?
Provo una sensazione contraddittoria. Da una parte, penso che abbia ragione Francesco Guccini quando avverte che c'è aria di Weimar, la macchia nera che sta avanzando la percepisco anch'io.
Dall'altra, però.
Mi danno fastidio i richiami formali e retorici all'antifascismo, perché il nemico che abbiamo di fronte non è un semplice residuo del passato. Quello che stiamo vivendo non è un rigurgito anti storico. Anzi, è molto più storico di noi, perché sta tragicamente dentro il nostro presente.
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