L’economia italiana è in rallentamento da oltre 50 anni. Questa caratteristica è comune a quasi tutte le economie avanzate. Ciò che distingue l’economia italiana dalle altre è che, dopo il 1992, cresciamo sistematicamente meno e da quando è scoppiata la crisi siamo i soli – insieme alla Grecia – a non aver recuperato il livello del PIL del 2007.
Questo sembra dovuto a una serie di motivi. Intanto ci sono da pagare oneri finanziari su un debito pubblico che finiscono con lo “spiazzare” gli investimenti, togliere risorse al welfare e alla spesa che sarà produttiva domani (ricerca, istruzione e università). In secondo luogo, per ridurre la spesa pubblica si è attuata una forte politica di austerity che ha provocato la contrazione della domanda aggregata.
Questo ha fatto sì che, per rimanere competitive, le aziende hanno adottato un politica di deflazione salariale, che ha fatto crescere – a livello aggregato – le esportazioni nette, ma depresso ancor più la domanda interna accentuando il risultato paradossale della rivoluzione 4.0 di ridurre la disoccupazione, ma con salari bassi e lavori precari.
Una politica economica dovrebbe affrontare tali problemi e adottare una duplice strategia: ridurre gli oneri sul debito pubblico e rilanciare la spesa per investimenti. Le misure del governo si muovono invece in direzione opposta, nella speranza – contraddetta dall’evidenza e non supportata da alcuna teoria formale – che il marcato aggiusti tutto.
È tra il 1983 e il 1990 che il debito pubblico “esplode”. Tutti i governi degli anni Ottanta “brillano” per una politica di bilancio assai poco rigorosa (la differenza tra entrate e uscite sfiora più volte il 15%), per cui il rapporto debito-PIL raddoppia in poco più di 10 anni. Il grande problema è rappresentato dai tassi di interesse reali che dobbiamo pagare sul debito. In quegli anni i tassi reali sono al 5%, con un’incidenza della spesa per interessi sul debito pubblico che nel 1992 raggiunge il 12% del Pil.
Questo impone un trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi (che sottoscrivono i titoli pubblici); altresì, far crescere il debito con spese improduttive provoca un trasferimento inter-generazionale a scapito dei giovani e di reddito a favore di chi è già ricco (per tacere del deflusso degli oneri del debito verso l’estero o della spesa per investimenti che si riversa così sulle rendite).
L’Italia ha pagato agli investitori, tra il 1980 e il 2017, interessi pari a circa due volte il PIL. Dobbiamo quindi uscire da questa perversità. Come fare? Con un’imposta patrimoniale.
Ad esempio, in un Paese come il nostro con un PIL pari a 2.000 miliardi di euro, un debito pubblico di 2.600 miliardi di euro, una ricchezza patrimoniale di 16.000 miliardi di euro e una distribuzione paretiana della ricchezza dove l’1% degli abitanti ne possiede il 50%, cioè 8.000 miliardi, una imposta patrimoniale annuale del 2% – tipo quelle in vigore nei paesi scandinavi – applicata solo ai super-ricchi (appunto l’1%) fornirebbe nuove entrate tali da ridurre il rapporto debito/PIL al 60% in meno di 10 anni.
L’assenza totale di riforme strutturali nella manovra rivela che al governo manca una seria visione di lungo periodo (sostenibilità, crescita senza occupazione, poveri che lavorano, nuovi lavori e strategie per l’innovazione con reti locali), e se il problema – come per noi – è la struttura, la risposta non può essere la “quota 100” e il farlocco “reddito di cittadinanza”.
Sono provvedimenti di breve periodo che cercano di stimolare la produzione attraverso maggiori consumi dimenticando che il vero problema dell’economia italiana di oggi è relativo alla diminuzione degli investimenti, e quindi della domanda che non c’è.
Dovremmo liberare fondi per investimenti, dirottare su questi parte della spesa per oneri finanziari sul debito, come se del benessere dei nostri nipoti ci interessasse qualcosa. In fondo, come diceva Groucho Marx, “perché preoccuparci delle generazioni future? Cos’hanno fatto per noi?”.
Nessun commento:
Posta un commento