venerdì 8 febbraio 2019

INPS:COME OTTENERE IL REDDITO DI CITTADINANZA E LA QUOTA 100 di Nino Galloni

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Ho lavorato 5 anni all’Inps come Sindaco effettivo e Revisore dei conti in rappresentanza del Ministero del Lavoro e, in precedenza, per altri 8 anni con le stesse funzioni all’Inpdap (ora incorporato nell’Inps stesso). Il primo problema della Previdenza, di cui si parlò seriamente in occasione della prima grande riforma – quella del Governo Dini (allora ero Direttore generale al Ministero del Lavoro) – riguardava il gettito contributivo. Si contrapposero due tesi: quella dei “riformisti” più accesi che ritenevano insostenibile l’allora modello previdenziale – cosiddetto a ripartizione – perché l’occupazione non sarebbe cresciuta abbastanza (per garantire, coi suoi versamenti contributivi, tutte le pensioni in essere) e perché i pensionati campavano eccessivamente; e quella ben più moderata ed equilibrata che faceva capo alla Ragioneria Generale dello Stato e che si basava su dati veritieri.

Prevalse la prima e si passò al sistema contributivo. In realtà non cambiò nulla se non il calcolo dell’assegno e la maggiorazione dell’età alla pensione: i soldi arrivavano comunque dai contributi o versamenti.
Nessuno eccepì – né i sindacati, né il padronato, né i politici – che, prima della riforma, si era abusato coi prepensionamenti che avevano fatto comodo a tutti meno che ai conti: si andava in pensione a 45/50 anni, mescolando previdenza ed ammortizzatori sociali e sostituendo anziani con giovani sottopagati. L’impressionante aumento dei profitti che precedette la Riforma Dini corrispose esattamente al risparmio salariale e contributivo realizzato grazie alle sedicenti politiche industriali del tempo.
E’ vero che, tutt’ora, due delle gestioni previdenziali dell’Inps appaiono in grande avanzo: quella dei lavoratori dipendenti e quella dei precari (o parasubordinati). Nel primo caso, l’avanzo si ridimensiona considerando alcune situazioni speciali: ferrovie, elettrici, telecomunicazioni, postali, ecc. vale a dire i guadagni derivanti dalle privatizzazioni, realizzati anche sostituendo gli anziani (che ottenevano buone pensioni) con giovani meno pagati. Nel secondo caso, l’avanzo deriva dal fatto che i precari ancora non vanno in pensione; ma si sa che, quando ci andranno, sarà con assegni mensili inferiori alla metà del reddito di povertà e, oggi, poco più di un terzo dell’attuale reddito di cittadinanza.
Un caso a parte l’Inpdap che, ai tempi miei (primo decennio del secolo attuale), realizzava avanzi elevati, pari a quasi tutta una Legge Finanziaria: il blocco del turnover nella pubblica amministrazione e le scarse assunzioni di funzionari di carriera (che avrebbero pagato buoni contributi per decenni, prima di andare in pensione) assieme alle maggiori spese per appalti esterni e, quindi, precari con scarsa contribuzione, crearono il disavanzo all’Inpdap e la conseguente decisione di accorparlo all’Inps.
L’Inps, dunque, ha sempre assorbito le gestioni in disavanzo ed i maggiori oneri assistenzialistici (che vengono ripianati dallo Stato centrale attraverso il conto di tesoreria). Prima i lavoratori agricoli (in origine gestiti dal Ministero); poi i dirigenti industriali – l’Inpdai (Istituto ricchissimo finchè c’erano le partecipazioni statali, dopodichè cala la domanda di dirigenti e gli anziani sono usciti con pensioni elevatissime); anche gli artigiani mostravano disavanzi notevoli per le poco efficienti scelte in materia di emersione e non ostante le pensioni degli artigiani risultino comunque modestissime.
L’attuale modello a contribuzione – reso del tutto iniquo dalla cosiddetta Riforma Fornero (ora emendata dalla “quota 100” – richiederebbe tre interventi importanti: 1) la ripresa delle assunzioni dirette nella pubblica amministrazione per combattere il fenomeno della precarizzazione, dei bassi salari e della insufficiente contribuzione; 2) la introduzione di una moneta parallela statale non a debito – quindi non regolata dal Trattato di Lisbona – che permetterebbe investimenti ed assunzioni senza aumento del deficit; 3) la utilizzazione dei residui attivi dello Stato (ai miei tempi, all’Inps, vale a dire fino al 2015, superavano i 133 miliardi) con emissione di titoli che la Cassa Depositi e Prestiti potrebbe portare alla BCE in cambio di liquidi.
Senza riflettere su tali aspetti, né il reddito di cittadinanza (che dovrebbe venire allargato per superare la sua attuale condizione di quasi ammortizzatore sociale), né la quota 100, potranno avere vita lunga.
Antonino Galloni

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