F.Q. Alessandra Colarizi
Mentre non esiste (e, probabilmente, mai esisterà) un punteggio nazionale standardizzato – bensì una rete complessa di sistemi gestiti da ministeri, apparati governativi e regioni connessi tra loro dalla condivisione dei dati -, ad oggi sono circa una trentina i progetti adottati da varie città cinesi in via sperimentale. Ognuno con caratteristiche proprie. A Rongcheng, nella provincia dello Shandong, ogni residente maggiorenne, partendo da un punteggio massimo di 1000 può migliorare o peggiorare il proprio rating in 200 modi differenti. Donare il sangue, fare volontariato o denunciare la vendita di beni contraffatti sono tutti comportamenti ricompensabili con punti in più. Infrangere le regole stradali, evadere le tasse o violare le politiche di pianificazione famigliare, invece, incide negativamente sull’indice di credibilità.
Quella di Rongcheng viene considerata un’esperienza particolarmente virtuosa grazie alla partecipazione attiva dei cittadini e al rigore adottato nella retribuzione di meriti e demeriti. “Tutto ciò che influenza i tuoi punti deve essere supportato da fatti ufficiali con documenti ufficiali”, spiegava tempo fa a Foreign Policy il vicedirettore del Rongcheng Social Credit Management Office. Nel villaggio di Jiankuang Majia, invece, la distopia tecnologica vagheggiata da Soros lascia il posto a matita, penna e calcolatrice, mentre gli algoritmi sono sostituiti da dipendenti in carne ed ossa. Pechino dovrebbe introdurre il proprio shehui xinyong tixi a tutti i residenti permanenti entro il 2020.
Sebbene i dettagli siano ancora pochi, le sperimentazioni procedono da tempo, e non solo a livello statale. Basta pensare ai famigerati “crediti sesamo”, sistema di rating parallelo ideato da Alibaba nel 2015 che integra i dati provenienti dalle proprie piattaforme di e-commerce e finanza digitale – sull’affidabilità creditizia degli user e la professionalità dei venditori – con le informazioni raccolte da “enti pubblici, istituzioni finanziarie e altri operatori commerciali”.
Secondo la commissione nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, alla fine dello scorso anno, il sistema dei crediti sociali aveva già bloccato la vendita 17 milioni di biglietti aerei e 5,4 milioni di biglietti ferroviari per infrazioni di vario genere, dal mancato pagamento di un debito alla diffusione di rumor online. Ma, tornando in provincia, tra i comportamenti punibili non mancano situazioni più politicamente controverse, come la riduzione del punteggio per proselitismo religioso e nel caso di violazione delle “procedure” per presentare una petizione. D’altronde, la Cina ha una tradizione di forme di controllo sociale che precedono l’attuale mania per la videosorveglianza e il riconoscimento facciale, risalendo addirittura al periodo imperiale. E se è vero che le blacklist governative includono perlopiù violazioni gravi, la discrezionalità con cui Pechino decide cosa è o cosa non è reato (pensiamo alle accuse di “minaccia alla sicurezza nazionale” comminate agli attivisti politici) rischia di compromettere la credibilità del progetto fin dalle basi.
Va detto che, ad oggi, le preoccupazioni sollevate dalla stampa internazionale non trovano riscontro oltre la Muraglia. Secondo il sito What’s on Weibo, il termine “China’s Social Credit System” in tutto ha totalizzato oltre 160 milioni di ricerche su Google, contro gli appena 7,7 milioni registrati da Baidu, il principale motore di ricerca locale. Con la differenza sostanziale che se all’estero il piano viene associato all’aggettivo “distopico”, il dibattito sui social cinesi evidenzia una certa approvazione per le sue finalità educative. Non è un caso che alla nascente attenzione per l’utilizzo dei dati personali per scopi commerciali non corrisponda un’apprensione analoga quando l’ingerenza nel privato viene condotta dal governo con funzione paternalistica di garante dell’armonia sociale.
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