giovedì 25 ottobre 2018

Tanto tuonò che non piovve. Perchè i mercati sorridono al governo nonostante la bocciatura.

La bocciatura della manovra, o per meglio dire il rinvio della Commissione europea, potrebbe far pensare a un Governo in rotta con Bruxelles e, più in generale, con il Fondo Monetario Internazionale e con i mercati, a un’Italia con un piede fuori dall’Europa, con le agenzie di rating pronte a trasformare il debito pubblico italiano in spazzatura.
 
Si potrebbe avere l’impressione che nubi nere si stiano addensando sull’Italia, preannunciando tempesta. La realtà è ben diversa. Per capirlo, bisogna andare oltre le dichiarazioni roboanti dei buffi soggetti coinvolti e l’altalena dello spread, e cogliere gli aspetti politici di fondo che muovono il Governo, da un lato, e le istituzioni europee dall’altro.
Questo Governo ha regolarmente dimostrato di non avere alcuna reale volontà di rottura dell’equilibrio europeo: dopo aver raccolto il voto di protesta contro l’Europa, ha sapientemente evitato di tradurlo in una radicale discontinuità con la disciplina europea. Sapientemente perché Salvini e Di Maio vogliono solamente gestire l’austerità al posto della precedente classe dirigente. Prova ne è la manovra finanziaria disegnata dai giallo-verdi: al di là degli strepiti della Commissione Europea, si tratta di una manovra in avanzo primario che sottrae risorse all’economia, indebolendo la domanda interna, la produzione e l’occupazione.

Il Governo, fin dalla sua gestazione, non perde occasione per dimostrare la sua subalternità al paradigma dell’austerità. Avevano pensato ad un Ministro dell’Economia a parole molto critico verso la leadership tedesca che guida l’Europa, il temutissimo Savona, ma sono bastati pochi colpi di spread per convincerli a ripiegare su un grigio tecnico posto a garanzia dei conti. Avevano proposto una deviazione di tre anni dal percorso di rientro dal debito che veniva richiesto da Bruxelles, con la previsione di disavanzi continui del 2,4% dal 2019 al 2021; di nuovo, sono bastate poche bacchettate della burocrazia europea per convincerli a contenere la deviazione al solo 2019, ed imporre dal 2020 il vecchio percorso di contrazione del debito, che significa dosi crescenti di austerità, lacrime e sangue. La montagna di un Governo del cambiamento, pronto a dare battaglia contro i mercati e contro l’Europa per varare la “manovra del popolo”, ha partorito il topolino di una deviazione per un solo anno di pochi decimi di percentuale dal tracciato imposto all’Italia dalle istituzioni europee. Ma non finisce qui.
L’ultima tappa di questa pantomima è infatti la lettera con cui i giallo-verdi rispondono al Commissario Moscovici, che li rimproverava per la pur minima deviazione oggi prevista. Nella lettera, il Governo conferma gli obiettivi di deficit previsti nel Documenti di Economia e Finanza (DEF), dando così l’impressione di essere, almeno per questa volta, intenzionato a non piegare immediatamente la testa davanti al diktat di Bruxelles. O almeno, in questa maniera Salvini e Di Maio hanno provato a raccontarla all’opinione pubblica italiana. Nei meandri della lettera, tuttavia, si annida la polpetta avvelenata che aiuta a mettere tutto questo teatrino nella giusta prospettiva: anche in questo caso, infatti, non vi è alcuna reale opposizione all’austerità. Proviamo a fare un passo di lato.
La deviazione rispetto agli obiettivi imposti dall’Europa in termini di deficit che caratterizza la manovra attuale è associata ad alcune previsioni, elaborate dallo stesso Governo, circa la crescita economica e la dinamica delle entrate fiscali. Maggiore è la previsione di crescita del prodotto e minore sarà la crescita attesa dei rapporti tra deficit e PIL e tra debito e PIL: per questa semplice ragione, di solito i governi in carica si mostrano molto ottimisti circa la crescita futura. In sostanza, più rosee sono le previsioni, più facile è prefigurare una riduzione del rapporto tra deficit e PIL e tra debito e PIL.
Nella misura in cui la crescita si dovesse rivelare inferiori alle previsioni, i saldi di finanza pubblica peggiorerebbero corrispondentemente e si distanzierebbero dalle previsioni contenute nei corrispondenti DEF. Ed ecco quindi trovata la fregatura. Nella lettera a Moscovici il Governo afferma che “qualora i rapporti debito/PIL e deficit/PIL non dovessero evolvere in linea con quanto programmato, il Governo si impegna a intervenire adottando tutte le necessarie misure affinché gli obiettivi indicati siano rigorosamente rispettati.”
Negli ultimi dieci anni, per ben sette volte i vari governi che si sono succeduti hanno elaborato previsioni di crescita significativamente più ottimistiche del dato che si è poi verificato: solo in tre casi su dieci la crescita si è rivelata in linea con quella prevista. Per il 2019, l’unico anno in cui si prevede una deviazione dal percorso richiesto dall’Europa, il Governo prevede una crescita dell’1,5% del PIL reale, un dato più alto dell’1,3% previsto dalla Commissione Europea, dell’1,1% previsto dall’OCSE e dell’1% previsto dal Fondo Monetario Internazionale. In sostanza, il Governo ha basato tutti i suoi impegni su una stima di crescita che appare quantomeno azzardata, e che con ogni probabilità dovrà essere rivista al ribasso tra qualche mese.
Diventa allora evidente l’importanza di quel passaggio della lettera alla Commissione: i giallo-verdi si sono impegnati a rivedere la manovra nel caso – a questo punto altamente probabile – di una crescita inferiore alle previsioni. Il ragionamento che fa il Governo è infido e semplice: noi ci aspettiamo che il nostro PIL cresca dell’1,5%. Se questo accadrà, la manovra che abbiamo messo in campo (che, è bene ribadirlo una ulteriore volta, sottrae risorse all’economia) condurrà ad un rapporto deficit/PIL del 2,4%. Se tuttavia il denominatore di questo rapporto sarà minore di quanto ci aspettiamo ora, nessun problema (per l’Europa): faremo ulteriori tagli ed aumenteremo ancora di più l’avanzo primario, così da riportarci sulla soglia del 2,4%.
In questo senso, il Governo attuale si dimostrerebbe diverso dai precedenti solamente nella forma e non nella sostanza. I governi precedenti, infatti, concordavano con Bruxelles un percorso di rientro e poi, in virtù di una crescita inferiore alle stime, riuscivano sempre a farsi concedere margini di flessibilità necessari ad evitare una manovra correttiva.
Questo governo, invece, sta facendo passare una legge di bilancio diversa da quella indicata da Bruxelles, rompendo apparentemente lo schema dell’austerità: solo apparentemente, perché ha messo nero su bianco il suo impegno a correggere quella piccola deviazione dalla disciplina di bilancio non appena, con il passare del tempo, le stime sulla crescita si riveleranno essere carta straccia. Il risultato, dunque, non cambia.
Questa lettura sembra confliggere con l’apparenza di un Governo criticato costantemente dalla Commissione Europea e pungolato ogni giorno dai mercati. Tuttavia, le istituzioni europee sembrano aver scelto una strategia lungimirante di disciplinamento del governo italiano, strategia che è stata definita pochi giorni fa dal governatore della Banca Centrale Europea: da Bali, dove era raccolta l’élite finanziaria mondiale, Draghi si è detto “ottimista su un accordo” tra giallo-verdi e Commissione, invitando tutti a “stare tranquilli, abbassare i toni e avere fiducia in un compromesso” perché “già in passato ci sono state deviazioni e discussioni e non bisogna drammatizzare.”
Draghi ha indicato la via del compromesso, arrivando a bacchettare persino l’Europa (“Tutte le parti devono abbassare i toni, non solo l’Italia”), per due motivi. In primo luogo, perché ha compreso perfettamente che la deviazione minacciata dal Governo è tutt’altro che preoccupante per la tenuta del rigore europeo. In secondo luogo, perché ha capito che una strategia aggressiva dell’Europa contro i populisti potrebbe alimentare lo scontento che sta montando in vista delle prossime elezioni europee. La strada da percorrere per mantenere l’Italia legata al guinzaglio europeo è dunque quella di concedere ai giallo-verdi i balletti di questi mesi, senza mai affondare il colpo contro il Governo ed in attesa del delicato passaggio delle elezioni europee, allo scopo di normalizzare la situazione e non permettere ai giallo-verdi di poter agitare in campagna elettorale, ancora una volta, la bandiera delle forze anti-sistema.
I mercati sembrano seguire alla lettera la strategia indicata dal governatore della BCE. Tra le varie minacce che si prospettavano all’orizzonte vi era infatti la tagliola delle agenzie di rating, prevista per la fine di ottobre. Moody’s avrebbe potuto colpire duro, decretando non solo il già atteso declassamento dell’Italia, ma anche la revisione del cosiddetto ‘outlook’ da stabile a negativo – una decisione inattesa che avrebbe accelerato le vendite di titoli pubblici sui mercati finanziari: non lo ha fatto, limitandosi al declassamento.
Se pure Standard & Poor’s dovesse optare per l’opzione minima prevista dai suoi analisti, nel suo caso una revisione dell’outlook senza alcun declassamento, l’Italia uscirebbe da questa tornata di giudizi senza danni rilevanti. A conferma di ciò c’è una sostanziale stabilità nello spread, che dimostra un andamento altalenante e mai una decisa tendenza al rialzo. Per i mercati, insomma, non c’è nessun particolar problema a lasciar lavorare questo nuovo governo dell’austerità in Italia. Con uno scenario sorprendente all’orizzonte.
Nella lettera, come abbiamo visto, il Governo si è già impegnato a modificare la già austera manovra in corso d’opera, se (cioè quando) emergeranno dati peggiori delle previsioni. Al tempo stesso, si rincorrono voci sul fatto che le principali misure espansive previste nella manovra – quota 100, il reddito di cittadinanza, la flat tax – potranno essere realizzate non dal gennaio prossimo, ma solo più tardi. Mettendo insieme queste due circostanze, possiamo comprendere come si stia profilando una straordinaria presa in giro: passate le elezioni europee, il Governo potrebbe essere costretto a rimangiarsi anche l’ultima briciola di indisciplina rimasta sul tavolo. Dal punto di vista dei giallo-verdi, questo bluff è un rischio calcolato. Permette loro infatti, per ancora qualche mese, di poter continuare a costruire la narrazione del Governo dalla parte della gente comune, che fa una “manovra del popolo” contro le élite finanziarie.
Quando poi, verso la primavera del 2019, la polvere si sarà posata e l’attenzione sarà distratta da qualche nuova finta emergenza, il Governo avrà gioco relativamente facile ad effettuare i tagli che già oggi, in tecnichese e tra le righe, si è impegnato a fare. Dopo la bocciatura della manovra da parte della Commissione europea, Conte è stato chiaro: il rapporto deficit/PIL al 2,4% deve essere considerato un tetto. “Siamo pronti forse a ridurre, ad operare una spending review, se necessario”.
Lo stesso Salvini si vanta del fatto che “l’unico organismo che potrà migliorare la manovra economica italiana è il Parlamento italiano”. A suo modo, sta confessando quanto abbiamo appena detto. Le istituzioni europee hanno bisogno di un esecutore materiale per imporre più austerità e questo esecutore sarà il Parlamento a maggioranza giallo-verde. La manovra sarà modificata, a gentile richiesta dell’Europa, senza particolari sussulti.
La bocciatura della manovra non costituisce uno strappo, ma l’inizio di un processo che potrebbe durare settimane o mesi, a seconda della velocità con cui i giallo-verdi si adegueranno. È tutto disciplinato nel processo che potrebbe portare al vero strappo, ovvero la procedura per deficit eccessivo, che però non avrà inizio che tra qualche mese: c’è tutto il tempo affinché si materializzi il compromesso auspicato da Draghi e la quiete dei mercati sembra essere il preludio di questo ritorno “morbido” all’ovile.
Al riguardo, è interessante osservare che gli analisti di Moody’s hanno giustificato l’outlook stabile e non negativo sulla base di valutazioni delle finanze pubbliche in cui i maggiori costi di quota 100 sono limitati al 2019: i guardiani dei mercati danno per scontato che la sbornia populista passerà presto, ed il superamento della Fornero sarà solo temporaneo.
D’altra parte, i giallo-verdi sanno di poter giocare relativamente sul sicuro: qualora questi tagli avessero luogo, chi avrebbe la legittimità politica di condannarli per la loro subalternità totale all’austerità europea? Sicuramente non chi, oggi, fa opposizione tifando spread ed invocando ancora più austerità. Per non finire schiacciati da questo gioco tra mercati e Governo, dobbiamo trovare la forza di organizzare l’opposizione ai giallo-verdi intorno alla parola d’ordine di rottura della gabbia europea, per poter adottare politiche economiche e sociali di reale discontinuità rispetto all’ultimo trentennio liberista.

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