Il Brasile, la sesta economia del mondo,
ha votato e nel secondo turno delle presidenziali di domenica 28
ottobre non ha invertito la rotta che sembra portarlo – e di corsa –
verso una democrazia censuaria nel migliore dei casi.
I rischi per la tenuta stessa
democrazia, una conquista che risale solo al 1985, rischi insiti nella
vittoria dalla peggiore destra del continente incarnata nel capitano
Jair Bolsonaro del Partito social liberal – neo liberale, amico di Steve
Bannon, nostalgico della dittatura, ostile alle minoranze e in
particolare agli indios e a tutte le tematiche ambientali – non sono riusciti a modificare le intenzioni di voto già registrate dai sondaggi Datafolha.
Lo scarto con il candidato presidente
del Pt Fernando Haddad si conferma molto ampio, dal 56 di Bolsonaro al
44 per cento di Haddad. Il Pt riesce a conquistare solo quattro
governatorati concentrati nel Nord-est del Paese, una zona più povera e
tradizionale roccaforte di Pt.
La campagna elettorale si è svolta
soprattutto sui social sul modello già sperimentato negli Stati Uniti da
Bannon per l’elezione di Donald Trump. Ma comunque la stampa mainstream
non ha negato appoggi a Bolsonaro e alla sua retorica “del cambiamento”
rispetto al quindicennio di “petismo”, cioè del governo Pt di Lui
Inacio Lula da Silva prima e di Dilma Rousseff dopo. Così proprio il
Paese-guida della rinascita dell’America Latina oggi si presenta con il
taglio più netto rispetto al recente passato di democrazia sociale.
Non è senza forza che le élite
proprietarie sono riuscite a travolgere le forze della sinistra, la
magistratura ha operato forzature denunciate anche da organizzazioni
internazionali, delle procedure legali per mettere Lula e Dilma fuori
gioco, uno in galera e l’altra senza possibilità di fare politica dopo
la procedura di impeachment che l’ha estromessa dal potere.
La campagna elettorale di Bolsonaro è
stata giocata sulla “sicurezza” – in un Paese dove la violenza è diffusa
e si verificano circa 70 mila omicidi ogni anno – e sulla “corruzione”,
anch’essa assai diffusa. Si dice che siano state messe in campo le tre
B: “biblia, boi bala” intendendo con questi tre termini gli evangelici –
il 30% della popolazione e l’elettorato più retrogrado anche sul piano
dei diritti civili – l’agrobusiness di un Paese che è il primo
produttore al mondo di carni e il secondo di soia – e i militari e
l’industria bellica
Il vice di Bolsonaro, il generale Hamilton Mourão
, accusato di essere stato tra i militari torturatori negli anni della
dittatura – ha annunciato a scrutinio ancora in corso quale sarà la
prima misura che metterà in atto:
confermare la riforma pensionistica voluta da Michel Temer – l’ex vice
di Dilma Roussef che l’ha sostituita nel lungo periodo transitorio verso
le elezioni – e quindi aumentare i” benefici” dei militari.
A proposito di benefici e beneficiati, a
vedere quelli delle politiche inclusive del quindicennio passato e gli
spostamenti dei flussi elettorali già al primo turno, è proprio una
revanche di classe quella che sembra essere uscita dalle urne
brasiliane. A dirlo è l’analisi del centro internazionale di studi sulle
diseguaglianze, il World Inequality Database .
Anche se serviranno ancora altri strumenti analitici per interpretare
lo spostamento di quasi 10 milioni di voti pari allo scarto tra
Bolsonaro e Haddad, quando solo pochi mesi fa le intenzioni di voto
sembravano ancora preferìre un possibile candidato Lula rispetto agli
altri in campo.
Nel rapporto “Il Brasile diviso: ritorno
alla polarizzazione crescente delle diseguaglianze” si nota come dal
2002 il 50% dei brasiliani più poveri sono stati più inclini a votare il
Pt rispetto al 10 % più ricco. Nel periodo di crescita economica
trainata dall’export e da prezzi alti dei prodotti petroliferi, i
redditi dei “decili inferiori”sono aumentati due volte più velocemente
della media nazionale. Quindi secondo il laboratorio internazionale di
ricerche statistiche, sociologiche e politiche basato sulla scuola di
economia di Parigi (Wid) non è tanto la “corruzione” e la “sicurezza” ad
aver spostato i voti della classe media, quanto la paura di perdere,
con la nuova crisi economica degli ultimi tre anni, potere di acquisto e
lussi.
In effetti, si dice, il reddito medio
pro capite è aumentato del 18% tra il 2002 e il 2014 ma a ben vedere ne
hanno beneficiato soprattutto i più poveri, attraverso programmi tipo
Bolsa Familia (il tasso di povertà si è ridotto dal 30 al 15% della
popolazione) e i più ricchi. Il conflitto strisciante, che ha portato
ora alla vittoria dell’estrema destra in un Paese di 147 milioni di
abitanti, ha quindi riguardato essenzialmente l’impiego delle risorse
federali – gli investimenti durante il Milagrinho, il piccolo miracolo
economico del 2006, sono stati ingenti, soprattutto in infrastrutture e
servizi scolastici e sanitari – e più on generale le politiche
pubbliche. Le classi medie urbane educate hanno finito per cambiare
schieramento, preoccupate – come si vede dal sondaggio sulle tematiche
elettorali – dai servizi sanitari, dalla scuola e dalla creazione di
posti di lavoro. E anche dall’inflazione che a partire dal 2013 in virtù
dell’aumento dei salari minimi e dall’attivazione di una contrattazione
nazionale volute dai governi Pt, hanno aumentato il costo del lavoro,
incluso quello domestico.
A leggere la ricerca del Wid un “errore”
del Pt potrebbe essere stato quello di aver evitato una seria riforma
fiscale durante gli anni della prosperità, lasciando invece correre i
mercati finanziari e il credito al consumo. Oppure si può dire che la
lotta alla povertà sia stato il cruccio fondamentale del Pt al governo,
mentre il resto della struttura sociale è rimasto sostanzialmente
invariato: un Paese dove le storture sono eclatanti, dove ci sono 12
gruppi patrimoniali a detenere la maggior parte dei capitali e oltre
2.000 imprese e dove il
45% delle terre coltivabili è in mano all’1% dei grandi proprietari
latifondisti che producono l’80 per cento del raccolto. Così anche le
terre che Lula aveva dato in esclusiva ai popoli indios ora fanno gola
alle compagnie dell’agrobusiness (intanto il Brasile con Temer si è
tolto dalla Cop21) e ai loro partner internazionali.
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