Le elezioni brasiliane, che hanno visto la schiacciante vittoria dell’ex-militare Jair Bolsonaro, un candidato che non è certo esagerazione definire un fascista, è un segnale allarmante per l’America Latina e, per certi versi, per il mondo intero. Ecco perché.
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Chi sia Jair Bolsonaro, l’osceno personaggio in questione, è ormai noto: un ex militare, da ormai 3 decenni in politica senza aver lasciato particolari segni di sé prima di questo ultimo anno in cui è diventato il front-runner per la presidenza. Le sue esternazioni sono lo specchio delle sue idee aberranti: dalla dittatura alla tortura, dalla misoginia più sudicia all’omofobia arrabbiata. I suoi toni incendiari – durante un comizio ha invitato a sparare ai suoi avversari – hanno avuto come logico effetto una impennata della violenza politica, con i suoi supporter che si sono sentiti autorizzati a passare alle vie di fatto con pestaggi, linciaggi ed omicidi. E questo è solo il prologo.
Questo suo stile “politicamente scorretto” (ma sarebbe più giusto dire: da fascista, appunto), gli appelli ai sentimenti più viscerali – odio, razzismo, vendetta –, l’ostilità verso i partiti tradizionali, le pose da nazionalista e da uomo forte, e la vicinanza ideologica con molti protagonisti della destra occidentale, tutti schierati dalla sua parte, hanno indotto molti commentatori a classificare Bolsonaro come l’ennesimo caso di rivolta populista – epiteto subito ripreso dalla stampa italiana.
Si tratta però di una visione di comodo, parziale, e quindi fuorviante. Non ci sono dubbi che, in generale, la liberal-democrazia è sotto attacco un po’ ovunque e ha perso quell’appeal che soltanto una trentina di anni fa portava a parlare di fine della storia. Le similitudini, però, finiscono fondamentalmente qui.
In Occidente, l’ondata populista è figlia soprattutto di un sistema economico fallimentare che ha prodotto ingiustizie sociali, diseguaglianza e crisi. Diversa invece la situazione in Brasile, dove ad ingrossare le fila di Bolsonaro è, soprattutto, la borghesia bianca ed agiata, fomentata dai plutocrati e dal grande capitale brasiliano. Bolsonaro stravince nelle città ricche – quelle che in Europa e USA rimangono spesso le roccaforti del centrismo moderato – mentre è la sinistra del PT a vincere nelle zone più povere del paese.
Per capire come si sia arrivati a questo punto, bisogna innanzitutto chiarire che Bolsonaro non è, in fondo, un fenomeno estemporaneo, quanto piuttosto l’ indegno ma naturale epilogo della vicenda politica brasiliana, contraddistinta da un golpe bianco contro Dilma e dallo scandaloso arresto politico di Lula che tutti i sondaggi davano come vincente contro Bolsonaro.
È chiaro che l’establishment – che ha controllo ferreo su media e potere giudiziario – non era più disposto a tollerare la sinistra al potere, anche nella versione PT, fortemente edulcorata. Il primo dato è capire la struttura economica e politica di un paese che, nonostante i miglioramenti sociali, quasi tutti merito di Lula e Dilma, rimane pervaso da ineguaglianza e ingiustizia e controllato da una oligarchia, che il PT non è riuscito, o fors’anche non ha voluto, intaccare. Bolsonaro si è posto, fin da subito, come il protettore di quel tipo di interessi: se in passato le dichiarazioni del nuovo presidente erano state vaghe e, a volte, dal sapore statista, la campagna elettorale ha chiarito fin da subito le cose. Al ministero dell’economia andrà Paulo Guedes, economista turbo-liberista della University of Chicago, rinverdendo l’alleanza tra neo-liberisti e fascisti. Non sorprende, naturalmente, che anche il grande capitale internazionale si sia accodato. Prima il Wall Street Journal ha dato il suo endorsement, poi ci hanno pensato le grandi corporation a elargire complimenti, mentre i mercati festeggiavano. D’altronde, come hanno chiarito diversi impenitenti commentatori americani, forse Bolsonaro non sarà un democratico, ma “negli ultimi anni il Brasile ha vissuto una dittatura economica”. Dittatura che, per i mercati, equivale al non potersi arricchire senza limiti, al dover rispettare obblighi ambientali, all’esistenza di minimi programmi di redistribuzione del reddito.
Al capitale si è unita, come si diceva, la borghesia. I dati del primo turino sono impietosi: i partiti centristi si sono volatilizzati ed i loro elettori sono accorsi al richiamo della destra reazionaria ed ultra-liberale, soprattutto in nome di un odio quasi atavico verso la sinistra. Bolsonaro, con il suo programma law and order ha puntato molte fiches sull’esasperazione crescente verso la corruzione del ceto politico – cosa in cui, ahimè, pure il PT è rimasto invischiato – e sulla violenza sociale fuori controllo. Nel serrare le fila a destra è impossibile però ignorare la bestialità di una classe media che preferisce le pallottole ai programmi sociali, nostalgica di uno Stato “forte” che ne protegga i privilegi e contraria spesso ideologicamente allo Stato Sociale.
Naturalmente Bolsonaro prende voti anche tra i poveri – e persino tra i neri – seppur in misura minore che il PT. Poca sorpresa anche qui: che la destra fascista mieta consensi tra quelli che Marx avrebbe chiamato lumpen non è certo una novità, anche se chiaramente è un atto di accusa verso la debolezza della sinistra che in un quindicennio passato al potere non è riuscita a creare un blocco sociale che andasse oltre i suoi limiti storici.
Quello che è chiaro è che in America Latina, capitale e borghesia non sono disposte a nessun compromesso con chi mette in discussione lo status quo.
Da una parte si rilancia il capitalismo più predatorio e selvaggio, con
l’intenzione di cancellare quei programmi sociali che anche la moderata
World Bank ha definito di successo. Dall’altra si vuole silenziare
qualsiasi alternativa politica. Bolsonaro è la faccia cattiva ma non
certo l’eccezione, se pensiamo che l’opposizione “liberale” venezuelana
ha come unico obiettivo la cancellazione, per legge, della sinistra.
Che in generale dovrebbe cominciare a porsi qualche domanda sulla
ricerca del successo elettorale a tutti i costi: perché sembra sempre
più chiaro che la democrazia va bene solo fin quando chi vince obbedisce
agli ordini del potere.
(29 ottobre 2018)
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