Quali sono le radici della crisi dell’università e della perdita della sua capacità emancipatoria?
Finalmente un libro (Ai confini della docenza. Per
la critica dell’Università, a cura di R. Bellofiore e G. Vertova,
Accademia University Press, Torino 2018) che riporta alla ribalta il problema cruciale dell’università, sempre trattato sottovoce
dai politici, dagli intellettuali e dai suoi stessi operatori
(docenti, personale tecnico-amministrativo, studenti). Non da
Confindustria e dalla sua Associazione Treelle, forse coloro che hanno
più insistito su di esso, anche perché hanno le loro potenti casse di
risonanza e hanno sviluppato idee molto chiare sul problema.
A mio parere, quattro sono gli elementi importanti del libro, cui in questa sede potrò solo accennare brevemente:
1) la devastazione
prodotta a partire dal 2000 (Riforma Berlinguer) dalle continue
“riforme” dell’Università;
2) l’analisi della stretta relazione tra la
specificità del capitalismo italiano e il modello di Università che si è
voluto impiantare;
3) il ruolo della Banca mondiale e del Fondo monetario
internazionale nella riorganizzazione dell’educazione superiore a
livello mondiale con l’imposizione del modello anglo-statunitense [1];
4) l’inchiesta innovativa svolta presso l’Ateneo di Bergamo,
sovvenzionata dalla FLC-CGIL nazionale e provinciale e non sostenuta
dal Consiglio di amministrazione dello stesso; inchiesta, il cui
obiettivo è stato quello di analizzare, a tutti i livelli, le
condizioni di lavoro nell’università (con l’esclusione degli addetti al
portierato e alle pulizie), chiedendo agli intervistati se queste
rendono possibile il raggiungimento dei obiettivi stabiliti dalla legge
per l’Università.
Sarebbe qui impossibile riassumere tutte le
criticità messe in evidenza dai gruppi di discussione, appositamente
organizzati, ma credo che, nonostante gli sforzi fatti dal personale
per far funzionare al meglio l’ateneo, l’università non può ormai
assolvere al compito assegnatole dalla Costituzione. E ciò perché si
parte dal presupposto – condiviso dai curatori – che, in seguito agli stravolgimenti summenzionati, essa non mira più alla formazione di un agente politico critico,
ma a quella di lavoratori immediatamente impiegabili nel ristretto e
immiserito mercato italiano del lavoro. Nelle parole degli intervistati
l’università italiana contemporanea offre la “preparazione di
esecutori” e, in particolare per quanto riguarda la laurea triennale,
“è coerente con la domanda delle imprese, per un profilo generico di
lavoratore alfabetizzato, anche in inglese e in informatica” (Garibaldo
F. e Rebecchi E., L’Università riparta da sé, in op. cit., p. 153).
Un’impostazione che non spinge le imprese ad
innalzare in senso qualitativo le loro attività produttive,
prefigurando trasformazioni future cui risponderebbe meglio un
lavoratore dotato di “quel sapere critico e generalistico che solo è in
grado di garantire ai soggetti… la capacità di rimodulare le proprie
nozioni e le proprie capacità nel corso del tempo” (Bellofiore, La
nuova Università. Supermarket delle competenze, in op. cit., p. 8).
D’altra parte, il nostro sistema produttivo, basato essenzialmente su
piccole e medie imprese, caratterizzate da “bassa intensità
tecnologica” (Forges Davanzati, G., La ristrutturazione del capitalismo
italiano, la nuova Università di classe e il ruolo della valutazione,
in op. cit., p. 46), non ha mai brillato per l’impegno nella ricerca
innovativa ed ha basato la sua competitività sui bassi prezzi e sulle
svalutazioni monetarie.
Per riassumere, il risultato dell’applicazione delle linee direttive alla riorganizzazione dell’Università ha condotto all’aziendalizzazione di questa istituzione, che ne distorce le finalità politiche e sociali di ampio respiro, all’immiserimento dell’attività
di apprendimento, che non favorisce la concentrazione e la
rielaborazione personale delle conoscenze acquisite e ostacola la
formazione dell’invano decantato pensiero critico, alla burocratizzazione,
che rende faticosa e farraginosa ogni attività; questo ha
significato, anche per il blocco del turn over [2], il trasferimento di
molti compiti amministrativi ai docenti, che si trovano così oberati
di compiti per i quali non sono preparati e che potrebbero essere
svolti con più profitto da un personale adeguato.
A ciò, possiamo aggiungere l’incertezza gestionale e organizzativa,
dato che ogni impiegato dà spesso una sua lettura delle regole, la
quale rende difficile e complicata l’utilizzazione dei fondi sempre più
scarsi, l’ideazione di attività didattiche innovative, l’impiego delle
malfunzionanti attrezzature e degli spazi, anche per la scarsezza di
tecnici e di custodi.
Come ci ricordano Riccardo Bellofiore e Giovanna
Vertova, in un’università così trasfigurata, non è più possibile, come
invece sarebbe auspicabile e necessario, “studiare con lentezza”, dato
che “i ritmi di studio [sono] pensati come ritmi di lavoro”, fondati
sul cosiddetto credito formativo universitario, che
“converte il tempo di lavoro da tempo di formazione critica in tempo di
lavoro alienato” (Bellofiore e Vertova, L’Università del sapere pesato
e venduto un tanto al chilo, in op. cit., p. 27). Credito formativo
che, al contempo, secondo il Sistema europeo per l’accumulazione e per
il trasferimento dei crediti (ECTS) rende misurabili e comparabili il volume dell’apprendimento conseguito dallo studente e il carico di lavoro ad esso associato nello “spazio europeo dell’educazione superiore”.
Tutto ciò fa del sapere una merce pesata e venduta
un tanto al chilo e dello studente, privato della certezza dello sbocco
lavorativo soprattutto nell’attività di ricerca, “un precario in
formazione dentro una catena di montaggio che nega qualsiasi richiesta
di criticità” (da AA. VV., Studiare con lentezza. L’università, la precarietà e il ritorno della delle rivolte studentesche,
Roma 2006, cit. a p. 26). Elementi che accomunano tutte le università
del cosiddetto Occidente, compresi ovviamente i tanto elogiati atenei
statunitensi, e che corrispondono alle mutazioni del sistema capitalistico in senso neoliberale.
Come ben illustrato dal libro curato da Bellofiore e
Vertova, tutto questo è avvenuto nel sistema educativo globale che si
trasformava radicalmente, incorporando il privato nel pubblico secondo
il principio di “sussidiarietà”, che impone alle istituzioni statali e
a quelle private di collaborare su un piano paritetico per il
conseguimento dell’obiettivo comune: fare di esso un’organizzazione
dell’impresa e per l’impresa. Su questa linea – come sottolinea
acutamente Anna Angelucci, facendo riferimento al sito della Presidenza
del Consiglio – viene abbandonata “la
visione “adversarial” dei rapporti tra la pubblica autorità e il
business privato”, favorendo la concertazione tra pubblico e privato, a tutto vantaggio di quest’ultimo.
Molto interessante è la riproposizione nel libro di
un articolo di Lucio Magri (2000), che considera la trasformazione
della scuola, avviata dalla Legge Bassanini del 1997 sulla
semplificazione dell’amministrazione pubblica, “la madre di tutte le
riforme”, da un lato, perché ha delineato i caratteri del nuovo sistema
sociale, che si andava imponendo a partire da quegli anni;
dall’altro, perché potrebbe costituire, invece, la base della
costruzione dell’uomo onnilaterale come auspicato da Gramsci, ben
consapevole che lo studio è impegno e fatica, che occorre “insegnare ad
imparare”, ripensando criticamente la relazione tra il settore
umanistico e quello scientifico. In questa concezione il sistema
formativo dovrebbe essere “lo strumento indispensabile per costituire
un soggetto, un blocco riformatore, che invece la spontaneità sociale
continuamente disgrega…” (Magri L., La madre di tutte le riforme, in
op. cit., p. 98).
Credo che l’articolo di Magri debba essere riletto in concomitanza con il bell’articolo del pedagogista anti-concordatario Mario Alighiero Manacorda
(2002), giacché anch’esso descrive in maniera molto precisa il
processo di degenerazione subito dalle istituzioni educative a partire
dalla cosiddetta autonomia, voluta da Luigi Berlinguer e della quale si
vanta ancora spudoratamente. Autonomia che ha significato l’apertura
al “territorio”, ossia ai poteri locali, innanzitutto economici, la
riduzione dei finanziamenti, sostituiti parzialmente dai “contributi
volontari” dei genitori e dal denaro di quegli stakeholders
(portatori di interessi), che intendono orientare l’insegnamento per
ricavarne personale addestrato al raggiungimento dei loro obiettivi
produttivi. L’apertura al “territorio” ha anche significato la
costituzione di una miriade di associazioni culturali più o meno
preparate, che offrono a pagamento corsi di tutti i tipi (dalla musica,
alla pittura, al giornalismo, all’editoria etc.), per tutti i livelli
educativi, per supplire alle deficienze della scuola e dell’università,
prospettando in molti casi fantomatiche possibilità lavorative.
Manacorda sottolinea anche l’incostituzionalità dell’autonomia,
perché consente ad ogni istituzione educativa di essere “coerente con
i propri principi”, ossia alle istituzioni cattoliche, per esempio, di
violare la libertà di insegnamento sancita dalla Costituzione e di
essere in linea con il Codice canonico. Coerenza sperimentata dal Prof.
Luigi Lombardi Vallauri, nipote del famoso “microfono di Dio” [3], che
nel 1998 fu allontanato dall’Università cattolica di Milano, per aver
sostenuto che le pene infernali sono incostituzionali, in quanto puniscono per l’eternità una colpa che per quanto grave si è sempre svolta in un tempo limitato.
Infine, qualche breve cenno all’interessante
problema teorico analizzato nel libro dai contributi di Augusto
Graziani, Claudio Napoleoni e Riccardo Bellofiore e che concerne la
cruciale questione dello studio del pensiero economico, osteggiato da
chi, assumendo un atteggiamento “nuovista”, ritiene sia opportuno
accantonare quanto non è più contemplato dalle teorie attuali e
dominanti. Ovviamente non intendo intervenire nel dibattito economico,
ma limitarmi a sottolineare quanto questo modo di pensare sia assai
diffuso anche in altri ambiti delle scienze sociali dove, proprio per
l’ignoranza dei “classici”, molti trasformano acriticamente le loro
idee in innovazioni epocali; in subordine, proponendo la loro immagine
di una disciplina, tendono consapevolmente o no a convincerci che essa
coincida con la disciplina stessa. E ciò ancora una volta con buona
pace del pensiero critico.
Note
[1] Fondato sulla trasformazione del diritto
all’educazione in merce, in investimento del singolo, come del resto
previsto dall’Organizzazione mondiale del commercio. Quanto ai
contenuti precisi di alcune “riforme” v. il puntuale scritto di G.
Vertova presente nel libro (Un’analisi della Riforma Moratti. Legge
133/2008).
[2] Che ha riguardato tutto il personale
universitario e che è certamente una delle cause della riduzione degli
studenti, che fa dell’Italia il penultimo paese europeo per il numero
dei laureati.
[3] Ossia il gesuita Riccardo Lombardi che, grazie
alle sue infuocate prediche radiofoniche, contribuì alla vittoria della
DC nelle elezioni del 1948.
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