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I cambiamenti climatici – non dovuti alle emissioni di anidride
carbonica, ma all’attività solare – devono farci riflettere su due
aspetti: come affrontarli; con quali risorse economiche. La sfida, oggi
come domani, non consiste nella velleitaria resistenza ai cambiamenti
(che ci sono sempre stati, non sono opera dell’uomo, ma adesso avvengono
a fronte di un’antropizzazione ben diversa rispetto al passato), ma
nella fattiva predisposizione di tutti gli strumenti disponibili. Da una
parte occorre che la cementificazione non significhi la predisposizione
di barriere che impediscono all’acqua di defluire; dall’altra che tutte
le infrastrutture esistenti subiscano una manutenzione efficace e
tempestiva. Ciò implica dei costi di cui la comunità deve farsi carico
per non doverne affrontare di ben maggiori, quando le catastrofi –
sempre più sovente – accadono: 1) si possono fare delle collette; 2) si
possono raccogliere coattivamente delle tasse di vario genere; 3) lo
Stato può spendere in disavanzo anche per fornire i mezzi monetari
necessari alle istituzioni dedicate; 4) lo Stato può emettere una
propria valuta nazionale non a debito che non è contemplata – né,
quindi, impedita – dall’articolo 128 del Trattato di Lisbona che si
occupa di banconote e di moneta avente corso legale nell’Unione.
Delle prime due c’è poco da dire; della spesa in disavanzo – con
debito, per di più, in moneta estera, l’euro – si sta parlando in questi
giorni tra il nostro governo ed i vertici dell’Unione (sarebbe più
esatto Disunione, ma lasciamo stare) e, quindi, cerchiamo
di riassumere i termini della questione. I singoli Stati sono liberi di
decidere le proprie politiche economiche, ma nel rispetto degli accordi
e dei parametri concordati. Di fronte ad una crisi
occupazionale, sociale ed ambientale senza precedenti, il “Pacta sunt
servanda” viene sempre superato dal “Ad impossibilia nemo tenetur”: se
ci fossero milioni di persone per strada a protestare energicamente,
nessuno avrebbe dubbi; ma – a differenza di quanto accadeva fino a pochi
decenni fa – sembra che, a parte qualche terremotino elettorale, le
situazioni reggano… finchè reggono. La spesa pubblica in disavanzo è ed è
stato lo strumento principe con cui i governi puntavano alla crescita
economica: infrastrutture, scuole e università, welfare, ecc. poi si è riscontrato un indebolimento dello strumento senza, però, che nessun’altra misura l’abbia potuto sostituire.
La riduzione delle tasse si è rivelata controproducente se ottenuta
con una pari riduzione della spesa; sarebbe efficace e necessaria a
parità di spesa: ma, con ciò, il deficit aumenterebbe. Orbene, la minore
efficacia della spesa in deficit è stata dovuta a un indebolimento del
moltiplicatore della spesa produttiva e per investimenti; il
moltiplicatore è il valore – superiore ad 1 – per cui moltiplicare (di
qui il nome) la spesa stessa per valutarne l’impatto sul Pil; per gli
antikeynesiani – ad esempio il Fmi o la Banca Mondiale – che ne vogliono
sminuire l’importanza, esso è 1,5; tempo fa esso era stato stimato, per
le grandi infrastrutture, la ricerca, ecc. intorno a 3 e si posizionava
tra il 2 e il 3 per quanto riguardava i sussidi di disoccupazione, le
pensioni sociali, ecc. Adesso succede che esso non raggiunge il 2 per le
grandi infrastrutture e, in generale, gli investimenti produttivi,
perché l’intensità del lavoro – grazie alle tecnologie – si è molto
ridotta; invece rimane elevato nelle prestazioni cosiddette
assistenzialistiche purché queste ultime raggiungano persone o famiglie
attorno alle condizioni di povertà (quei milioni e milioni che non sono
in grado nemmeno di garantirsi due pasti completi al giorno).
Allora: la lettera che lunedì 22 ottobre mattina il ministro Tria ha
inviato ai vertici economici di Bruxelles (e che il presidente Conte ha
immediatamente appoggiato) prevede che, se la manovra italiana in corso
non produrrà effetti adeguati sul Pil, onde non superare il 2,4 di
deficit (rispetto al Pil), la spesa dovrà essere tagliata. In altri
termini, questo governo – a differenza dei precedenti – dà priorità alla
crescita del Pil (quello, peraltro, che ci chiedono i “mercati”) e non
alla tenuta dei conti che, si badi, però, rimane un vincolo, non una
variabile residuale. Ma, per far crescere il Pil occorre una spinta
notevole; infatti, il rapporto tra spesa pubblica e Pil non è più
lineare, ma complesso: se un grande aumento della spesa a deficit
assicura un aumento più che proporzionale del Pil, un piccolo aumento
può avere un effetto nullo, non un effetto proporzionato.
Paradossalmente, come s’è già detto, avrà un effetto maggiore la spesa
assistenziale invece che quella – si badi bene, necessaria,
necessarissima – per le infrastrutture, l’ambiente, ecc. Siccome le
previsioni internazionali per il 2019 non sono buone (si veda, anche il
mio ultimo “L’inganno e la sfida, 2019: le ragioni di una crisi finanziaria”, il rischio è che tra qualche trimestre bisognerà ricominciare a tagliare la spesa pubblica.
Invece, proprio per affrontare la crisi,
occorrerebbe fare il contrario: lo Stato deve occuparsi dei poveri, dei
giovani, delle buche, delle bombe d’acqua, degli ospedali, del
territorio, delle scuole. Risorse si possono ricavare dalla
valorizzazione del patrimonio esistente; ma perché ciò accada e non sia
un’inutile svendita della ricchezza, occorrono investimenti anche in
disavanzo, collaborazione coi partner privati e stranieri. In uno
scenario di spinta alla valorizzazione del nostro immenso patrimonio
semiabbandonato, il deficit spending deve spingersi fino al pieno
riassorbimento di tutte le risorse disoccupate: tecniche, umane e
finanziarie (si pensi che, in Italia, 1 milione e trecentomila persone
detengono, oltre tutto il resto, più di 500mila euro inutilizzati nelle banche).
Una tale misura dovrebbe valere per tutti i paesi dell’Unione e,
quindi, varierebbe a seconda del rispettivo tasso di disoccupazione
combinato con la capacità di proporre progetti di valorizzazione delle
risorse stesse.
Tale scenario non pregiudicherebbe gli interessi dei paesi più forti
che, quindi, dovrebbero spendere meno e consentirebbe di superare la più
grande remora verso l’Europa:
vale a dire che le scelte deflazionistiche dei passati decenni abbiano
consentito solo un maggiore impoverimento ed asservimento dei cittadini
invece dell’obbiettivo contrario (per cui la politica
si sarebbe dovuta battere con determinazione). Infine, ciascuno Stato
può eserciate sovranità monetaria nazionale – per qualche punto di Pil,
senza esagerare – in quanto tali mezzi avrebbero circolazione solo
interna, non sarebbero convertibili, avrebbero, all’emissione, lo stesso
segno algebrico delle imposte (quindi ridurrebbero il deficit) e,
quindi, ritornerebbero all’emittente in pagamento delle tasse. Tale
misura, un po’ più di deficit ed il ritorno a banche
di credito legate al territorio ed agli investimenti produttivi,
assicurerebbero maggiore occupazione, la crescita sostenuta del Pil ed
un miglioramento dei conti pubblici.
(Nino Galloni, “La lettera di Tria, la spesa pubblica e le bombe d’acqua”, da “Scenari Economici” del 22 ottobre 2018).
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giovedì 25 ottobre 2018
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