martedì 30 ottobre 2018

Merkel e Juncker. Crollano i pilastri dell’Unione Europea

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Una costruzione di qualsiasi tipo si regge su “pilastri portanti”. In politica, specie internazionale, difficilmente le singole personalità riescono a diventare dei pilastri, ma se restano a lungo al centro della scena significa, quanto meno, che sono loro il punto di coagulo, mediazione, tenuta, di un complesso gioco di forze economiche, politiche e militari.

L’inizio del nuovo millennio, in Europa, è stato segnato dalla centralità di Angela Merkel. Ossia della Germania e di un certo modello di accumulazione – mercantilista e ordoliberista – che ha disegnato l’Unione Europea (il sistema dei trattati) su misura per le proprie esigenze. Sia produttive che finanziarie.
La sua annunciata uscita di scena – nel 2021, se non ci saranno precipitazioni della crisi interna anche prima di quella data – è quindi una bomba sugli equilibri altamente instabili che caratterizzano sia la potenza continentale egemone che tutta l’Unione. O, più precisamente, il segnale d’allarme proveniente dalle faglie sotterranee che sostenevano quegli equilibri; l’indizio che rivela rotture difficilmente ricomponibili.
Le pesanti sconfitte politiche registrate dalla Cdu in Baviera e in Assia, nelle ultime due settimane, sono state accompagnate da cadute ancora più gravi dello storico alleato-dipendente, la Spd. Il centro dello schieramento politico che aveva segnato tutta la storia recente – sia tedesca che europea – è venuto meno. La “brava massaia” proveniente dall’Est ne ha dovuto trarre le conseguenze, spiegando che non si tratta di un ripiegamento temporaneo, o di un mettersi a disposizione di progetti europei, ma di un ritiro puro e semplice.
«Il governo ha perduto credibilità: non possiamo andare avanti in questo modo», «È giunto il momento di aprire un capitolo nuovo». La “verifica” fissata per dicembre potrebbe addirittura porre fine in anticipo al suo ultimo cancellierato.
Contrariamente all’opinione comune, costruita – specie in Italia – intorno a una narrazione encomiastica delle virtù tedesche e in particolare di questa maestra nell’arte della mediazione, il “regno di Angela” non è stato affatto il regno del buonsenso, della pace, della prosperità. Una sintetica ricapitolazione delle sue imprese – stilata dal sempre attento Giuseppe Masala – è un autentico bollettino di guerra; all’interno e all’esterno dell’Unione, a cominciare dai rapporti tra capitale e lavoro.
Ha trasgredito il Trattato di Roma che è alla base dell’UE: la solidarietà tra nazioni europee è stata sostituita dalla competitività che ha trasformato l’intero continente in una agone dove gli animal spirits delle varie nazioni si sono confrontati con una ferocia inaudita. Una eterna lotta per contendersi quote di mercato a scapito dei partners grazie ad una feroce svalutazione del costo del lavoro.
Ha trasformato l’EU in una zona priva di crescita autonoma totalmente dipendente dalla crescita dei paesi importatori extra UE, in primis gli USA.
Grazie ad un uso spregiudicato del trattato di Maastricht ha affogato la forza del marco nella miseria della peseta, dell’escudo, della dracma e della lira consentendogli di aumentare artificialmente le esportazioni tedesche fuori dalla UE senza che l’Euro si rivalutasse.
Ha appoggiato il golpe nazista ucraino al solo scopo vigliacco di far firmare un trattato di libero scambio tra UE e Ucraina che ha consentito alle merci tedesche di invadere il mercato ucraino trasformando un paese di quasi 50 milioni di abitanti nel più povero d’Europa.
Ha saccheggiato la Grecia senza tenere in minimo conto il principio di solidarietà che dovrebbe muovere la UE.
Ha sostenuto la folle guerra di Sarkozy contro la Libia per dare uno sbocco nel mediterraneo alla Françafrique.
Nonostante la ricchezza enorme accumulata dalla Germania non ha né risolto il problema del sottoutilizzo della Germania Est e soprattutto ha lasciato le classi subalterne tedesche in povertà.
Ha permesso agli industriali tedeschi di creare cartelli oligopolistici illegali al fine di demolire la concorrenza straniera (si pensi allo scandalo delle case automobilistiche tedesche scoppiato in USA).
Nonostante l’enorme ricchezza accumulata ha consentito alle banche nazionali di accumulare per avidità titoli di finanza strutturata che ora svalutati rischiano di far saltare il sistema finanziario tedesco.
Per tenere basso il costo del lavoro e mantenere la competitività ha importato milioni di immigrati indifferente alle naturali tensioni sociali che questo avrebbe comportato e in definitiva facendo rinascere forze xenofobe e razziste.
Ha isolato l’Eu dal resto del mondo per l’assurda idea di far diventare la Germania, per interposta EU, in un player geopolitico mondiale.
A causa delle sue politiche folli, che storicamente portano alla guerra, ha fatto rompere gli indugi agli inglesi che giustamente hanno tagliato la corda da un’avventura che non può finire bene.
Ha trasformato l’UE in un enorme bollitore, di rivendicazioni, rabbia, livore di tutti contro tutti.
Non ha fatto tutto da sola, ovviamente. Nella più completa assenza di un grande progetto politico comunitario, la sua arte mediatoria si è tradotta nell’accompagnare al meglio – col minimo degli scossoni inevitabili – l’adeguamento delle strutture politiche e delle istituzioni europee ai desiderata del grande capitale industriale e finanziario. In primo luogo di quello basato in Germania. La competizione mascherata da “regole” invece della cooperazione.
E’ stata questa la ragione del suo successo e della sua lunga durata. E si tratta naturalmente della stessa ragione che ha portato all’attuale crisi, contemporanea, dell’Unione, della Germania, della Cdu e della propria leadership.
Ora tutti i nodi arrivano contemporaneamente al pettine. Le prossime elezioni europee sono l’orizzonte, o il bivio, che determinerà le sorti dell’Unione. Non perché l’inesistente Parlamento di Strasburgo – unico al mondo senza potere di proposta legislativa – possa mutare alcunché, ma per la probabile emersione sul terreno politico della “competizione economica” coltivata per decenni sotto la regia merkeliana.
Questo comporterà prevedibilmente molti più problemi nella costruzione di indirizzi condivisi, tranne che sui modi peggiori di trattare i flussi migratori.
Un ulteriore indizio verrà dalla scelta del successore di Angela Merkel. Se, come lei stessa ha detto ieri, «È giunto il momento di aprire un capitolo nuovo», allora sono fuorigioco i vertici Cdu a lei più vicini. E salgono le quotazioni dei suoi storici avversari interni. A partire da Friedrich Merz, presidente del gruppo Cdu al Bundestag dal 1998 al 2000 e dal 2002 al 2004. Poi fuori – fino ad un certo punto – dalla politica perché trasformato in lobbista delle imprese metallurgiche, quindi passato al fondoBlackRock (la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York. Gestisce un patrimonio totale di oltre 6.000 miliardi di dollari, tre volte il Pil dell’Italia), e fondatore del “Initiative Neue Soziale Marktwirtschaft” che si occupa della diffusione di una “nuova economia sociale di mercato”.
Un “non nemico” degli Stati Uniti, insomma, sicuramente più gradito a Washington di quanto non sia ormai frau Merkel. Non è uno sforzo eccessivo di fantasia immaginare che, se si dovesse realizzare questo passaggio di consegne, a quel punto l’Unione Europea vedrebbe scendere di parecchio le proprie ambizioni come polo imperialista autonomo. Anche perché molto più lacerata da spinte interne molto contrastatnti.
In qualche modo la sensazione che un’epoca, in Europa, stia finendo molto rapidamente e molto male arriva dall’inchiesta su/contro Jean-Claude Juncker pubblicata questa settimana da L’Espresso; ossia da un gruppo editoriale che ha fatto dell’”europeismo senza se e senza ma” il suo marchio di fabbrica.
Un attacco che parte da un’inchiesta giudiziaria puntuale e “documenta il ruolo centrale di Juncker nelle politiche che hanno reso il Lussemburgo il primo paradiso fiscale interno all’Unione europea. Uno scandalo svelato a partire dal novembre 2014, proprio mentre Juncker si insediava al vertice della Ue, dall’inchiesta “LuxLeaks”, firmata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), di cui fa parte l’Espresso in esclusiva per l’Italia. Analizzando oltre 28 mila documenti riservati, i giornalisti del consorzio hanno rivelato i contenuti degli accordi fiscali privilegiati (tax rulings) con cui il Lussemburgo di Juncker ha garantito a 340 multinazionali, da Amazon ad Abbott, da Deutsche Bank a Pepsi Cola, di pagare meno dell’uno per cento di tasse.
Ma che si trasforma in una durissima accusa alla gestione junckeriana dell’Unione Europea: “Una voragine nei conti dei 28 Paesi dell’Unione europea: mille miliardi di euro all’anno, tra elusione ed evasione fiscale. Multinazionali che non pagano le imposte e smistano decine di miliardi di dollari dei loro profitti, accantonati grazie a operazioni finanziarie privilegiate in Lussemburgo, verso altri paradisi rigorosamente “tax free”. Stati membri dell’Unione che si fanno concorrenza sleale sulle tasse. È disastroso il bilancio che sta lasciando Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, nonché ex padre-padrone del Granducato, mentre imbocca l’ultimo anno del suo mandato, in scadenza dopo le elezioni del 2019: il suo viale del tramonto”.
I due personaggi politici che più e meglio hanno rappresentato gli interessi del capitale multinazionale e finanziario, insomma, escono di scena fra i fischi di quanti li avevano fin qui idolatrati oltre ogni ragionevolezza.
La loro caduta non provocherà la fine dell’Unione, ma ne è il sintomo.

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