domenica 28 ottobre 2018

Ambiente. I rischi di un mondo in degrado.

Le conseguenze del degrado globale del suolo e del territorio sono state analizzate per la prima volta in modo esaustivo in un rapporto internazionale. Tra pesanti cali delle rese agricole, migrazioni forzate ed estinzioni di specie animali, il quadro che ne emerge è tetro, eppure le soluzioni ci sono, ma devono essere attuate in tempi brevi.  


lescienze.it Giovanni Sabato
I rischi di un mondo in degradoLa sussistenza di oltre tre miliardi di persone a rischio. Un calo del dieci per cento delle rese agricole globali in trent’anni. Un deciso contributo alla sesta estinzione di massa.
E un’altra potente spinta al cambiamento climatico e alle migrazioni forzate. Sono fra le conseguenze del degrado globale del suolo e del territorio, analizzato per la prima volta in modo esaustivo da quasi 200 esperti per conto dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES). E descritto in un rapporto fitto di dati, analisi e possibili rimedi: Assessment Report on Land Degradation and Restoration. 
 Luca Montanarella, del Joint Research Centre della Commissione Europea a Ispra, è uno dei due coordinatori del lavoro. Per inciso, nominato attraverso la FAO, perché l’Italia non è fra i 129 paesi membri dell’IPBES.
Innanzitutto, cos’è l’IPBES?
È un po’ un analogo di quello che è l’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’IPCC, per il clima: un’interfaccia fra l’intera comunità scientifica che si occupa di biodiversità e servizi ecosistemici e i decisori politici. L’interlocutore primo è la Convenzione per la biodiversità, ma questo rapporto informerà anche, per esempio, le discussioni della Convenzione mondiale per la lotta alla desertificazione.


E che cosa dirà?
Presenta essenzialmente le prove scientifiche del processo di degrado del territorio in atto, definito come perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici, più una serie di possibili scenari futuri.
La sintesi purtroppo è semplice: se continuiamo così, andiamo verso una distruzione massiccia della biodiversità e del territorio e una pesante perdita dei servizi che ne ricaviamo.
E di certo non raggiungeremo gli obiettivi di sviluppo sostenibile sul suolo e sul territorio, in particolare quello che per il 2030 mira a un equilibrio globale tra la degradazione e le azioni di recupero così da azzerare il degrado netto.

E questo è grave?

Sì. Si stima che nel 2010 il degrado sia costato l’equivalente del dieci per cento del PIL mondiale.
Procedendo inasprirà le emissioni di gas serra (per il rilascio del carbonio dal suolo e la deforestazione), porterà all’estinzione di molte specie, comprometterà la sussistenza di due quinti dell’umanità.
Le rese agricole caleranno fino al 50 per cento in parti di Africa, Asia e Sud e Centro America, promuovendo instabilità sociale e migrazioni.
E ciò favorirà un ulteriore degrado, in un circolo vizioso che va interrotto.

C’è da spaventarsi, ma… c’è da crederci?
Come per l’IPCC, sono rapporti compilati con regole molto rigide.
Gli esperti non fanno ricerca ma usano i risultati già pubblicati. Abbiamo incluso oltre 3000 fonti raccolte e valutate per attendibilità e rilevanza, anche con un’ampia peer review esterna.
Una peculiarità è che mettiamo un forte accento sulle conoscenze locali indigene, perché vari governi hanno sottolineato che c’è una vastissima conoscenza su questi temi che deriva non da pubblicazioni scientifiche ma da saperi locali.

Che hanno dato contributi rilevanti?

Sì, specie nel capitolo, forse tra i più importanti, dedicato alla percezione del degrado. Che dipende moltissimo dalle culture e dalle visioni del mondo locali. Quindi lo studio ha coinvolto anche molti antropologi, sociologi e altri esperti degli aspetti socioculturali: ciò che è degradato ai nostri occhi può non esserlo per le popolazioni del posto. E non solo in paesi lontani.

Cioè, anche in Italia e in Europa?
Se definiamo il degrado come perdita di biodiversità, è chiaro che noi nella storia ne abbiamo persa molta, alterando molto il territorio. Ma questa non è necessariamente la percezione: pensi agli stupendi paesaggi agricoli dell’Italia centrale, del tutto antropizzati e tecnicamente degradati, ma tenuti in un equilibrio che si può considerare ottimale.

Che cosa si può fare per rimediare?

Non c’è una soluzione magica che risolve tutto: le cause sono tante e le situazioni sono diverse. Quindi serve un grande coinvolgimento a tutti i livelli: dalle Nazioni Unite e dai governi per creare un ambiente di governance che favorisca le azioni positive, fino agli organismi locali e agli individui, per realizzare le tante attività relativamente piccole che possono cambiare la situazione.
Ne individuiamo molte dimostratesi efficaci, in ogni regione e ambiente. Ma sono azioni poco visibili e spendibili politicamente, e perciò forse si fanno pochi progressi.


I rischi di un mondo in degrado
Disboscamento di un'area della foresta amazzonica.
(Credit: AGF/Ton Koene)


Per esempio?
Uno dei grandi imputati è l’agricoltura, specie intensiva.
Ma non possiamo certo ridurre la produzione di cibo.
Bisognerà quindi cambiare a vari livelli, da pratiche agricole più sostenibili, e c’è un enorme catalogo di buone pratiche già attuate ed estendibili da subito, alle abitudini personali, per esempio con diete con meno carne.
Non si può dire sempre «è colpa degli altri», dobbiamo capire che ne abbiamo tutti un po’. Ma, ripeto, l’azione locale è possibile se l’ambiente normativo la permette.

In che senso?
Un grosso tema che affrontiamo per esempio è il commercio.  
C’è una grossa deresponsabilizzazione perché consumiamo prodotti fatti altrove e non ne percepiamo l’impatto. Se questo viene reso più visibile, per esempio con l’etichettatura, il consumatore può scegliere.

Ma possiamo permettercelo, di contrastare il degrado?

I costi dei rimedi all’apparenza sono enormi, ma non se rapportati al costo della degradazione, che è nascosto ma immenso, di migliaia di miliardi di euro, e ai loro vantaggi.
Inoltre il rapporto individua tantissimi casi studio di progetti di recupero su piccola scala realizzati con le popolazioni locali, con costi limitati e grandi benefici, che sommati diventano incisivi.

Che riscontri state avendo?
Oltre a informare i decisori, il rapporto mira a sensibilizzare l’opinione pubblica e tutte le parti interessate.
Qui le reazioni ci hanno sorpreso: sulla stampa mondiale a oggi sono stati pubblicati oltre 5000 articoli, e organizzazioni intergovernative ci stanno invitando a presentarlo un po’ ovunque. Speriamo che ne nascano azioni efficaci.


Almeno, rispetto a quello che accade all’IPCC, non dovrete scontrarvi con i negazionisti…
Beh, il problema nessuno lo nega, tuttavia si nega la possibilità di risolverlo. Eppure noi mostriamo che le soluzioni ci sono e, anche sul mero piano economico, valgono ampiamente la spesa necessaria.
Il guaio è che richiedono investimenti importanti a breve, e tempi lunghi per i risultati: ben che vada arriveremmo all’equilibrio nel 2050.  
Però sono pochi i politici a cui interessa il 2050.

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Chi è:
Luca Montanarella si è laureato nel 1984 in scienze agrarie all’Università
di Perugia. Ha poi studiato come post doc all’Università di Leida e all’Università di Groningen, entrambe nei Paesi Bassi. Dopo aver lavorato alcuni anni come specialista di cromatografia e spettrometria di massa, nel 1991-1992 è stato funzionario direttivo al Ministero delle politiche agricole italiano. Dal 1992 lavora come esperto di gestione del territorio e del suolo al Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione Europea a Ispra, in Lombardia. Dopo aver diretto diversi istituti del JRC, dal 2003 guida l’azione Soil Data and Information Systems, ora rinominata SOIL. Ha guidato vari panel europei e internazionali su questi temi, inclusi lo UN Intergovernmental Technical Panel on Soils, presso la FAO, e l’IPBES.

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