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Figli di papà - L’avevano definita la
“Tangentopoli del Bosforo”, mica solo i media occidentali che, già tre anni or
sono, volevano togliersi qualche sassolino dalle scarpe che l’allora premier
turco calpestava col suo smaniare su troppi fronti. La definivano così anche i
quotidiani d’opposizione interna: Cumhüriyet,
spina nel fianco del governo Akp, il gülenista Zaman, il repubblicano Hürriyet
che ora, tacitati per arresti, soppressioni, mutazioni editoriali e
genetiche certe inchieste e notizie non possono più farle circolare. Ci
finirono dentro papà famosi i cui rampolli erano implicati in operazioni
finanziarie che destarono non pochi sospetti ad alcuni giudici. Baris, Salih,
Oguz e soprattutto Bilal hanno cognomi pesanti che implicavano i ministri degli Interni Muammer
Güler, dell'Economia Zafer Cağlayan, dell’Ambiente e Urbanistica Erdoğan
Bayraktar, mentre Bilal amato secondo figlio maschio della famiglia Erdoğan trascinava
nell’inchiesta nientemeno che il primo ministro di Turchia. Quando lo scandalo
scoppiò il ‘sultano’ era in visita ufficiale in Pakistan, ma egualmente attivò lo
staff su due fronti: l’istituzionale, introducendo un ampio rimpasto
governativo che, oltre ai tre politici di governo, condusse alla sostituzione
di altre sette ministri; il repressivo con cui furono epurati 400 uomini in divisa, fra poliziotti e
militari, sospettati di prestare il fianco a un’iniziativa che, per Erdoğan,
aveva come mandante l’acerrimo nemico Gülen.
Tutti gli uomini del presidente
- Coinvolti
nell’intrigo anche Mustafa Demir, sindaco dell’islamissimo quartiere di Fatih a
Istanbul, Suleyman Aslan, direttore dell’Halkbank e un faccendiere
turco-iraniano, Reza Zarrab, sposato con la nota cantante nazional-popolare
Ebru Gundes. Costui verrà fermato a Miami nel marzo 2016 per vicende
riguardanti un tentativo di elusione delle sanzioni economiche contro l’Iran; e
durante il dibattimento i locali pm scoprirono che Zarrab aveva donato 4,5
milioni di dollari a una struttura di beneficienza avviata dalla first lady
turca Emine Erdoğan. L’intreccio
attorno al premier, perciò, s’ampliava nonostante lui cercasse di confermare i sospetti
del complotto antigovernativo. Intanto i magistrati di Ankara che avevano
avviato l’inchiesta si ritrovarono già ai primi del gennaio 2014 rimossi dall’incarico;
essi stessi compirono un “viaggio” all’estero, chi in Germania, chi in Armenia,
anticipando con una sorta di fuga reprimende peggiori da parte del potentissimo
e rancoroso leader islamista. Da quel momento il boomerang accusatorio contro i
giudici fu “attentato alla sicurezza dello Stato”. Prima di venire epurati i
giudici turchi, gülenisti, kemalisti o
indipendenti che fossero, parlavano di corruzione per tangenti intercorse fra
imprenditori turchi, uomini del governo, l’istituto bancario Halkbank. Quest’ultimo
era cresciuto nel ranking turco, dopo aver iniziato a sostenere gli interessi
petroliferi iraniani che cercavano di aggirare l’embargo sul nucleare imposto
dalla Comunità internazionale.
Amici e nemici - Negli affari della
modernizzazione turca, che hanno avuto nel Bosforo un vero pilastro nell’ultimo
quindicennio a direzione Akp, si misuravano tanti capitalisti del Musiad (la
Confindustria islamica) tutto filava liscio finché il leader dell’Akp non
iniziò a punire qualcuno. Il clan Uzan, imprenditori nei settori energetico,
edilizio, mediatico - evidenziati da un odierno articolo su La Repubblica - avevano rotto un patto non
scritto fra chi s’occupa di affari e chi di politica, seppure con guadagni per
la propria famiglia come i segreti erdoğaniani stanno mostrando. Cem Uzan, col
passo compiuto nel 2002, praticò una sorta di lesa maestà: gettarsi nell’agone
politico con un partito, che pur non superando la soglia di sbarramento riportava
il 7,5%, proprio alle elezioni che consacravano la salita dell’Akp al potere.
Partito in quel frangente diretto da Gül (poi diventato Capo di Stato) visto
che su Erdoğan
pesava ancora un’interdizione disposta dalla Corte costituzionale, comunque
qualche mese dopo l’ex sindaco di Istanbul, totalmente riabilitato, prendeva le
redini di partito e governo. E iniziava le sue vendette: l’Uzan Group si vide
sequestrare dallo Stato oltre 200 società su 278. Pur colpita la potente famiglia,
che ha tuttora in piedi cause e controversie in patria e ha esportato un pezzo
del suo businness in Francia, con Murat Hakan firmò la querela che aveva
avviato l’inchiesta giudiziaria nel dicembre 2013.
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