mercoledì 3 agosto 2016

Turchia, Bilal e gli affari erdoğaniani

 
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Figli di papà - L’avevano definita la “Tangentopoli del Bosforo”, mica solo i media occidentali che, già tre anni or sono, volevano togliersi qualche sassolino dalle scarpe che l’allora premier turco calpestava col suo smaniare su troppi fronti. La definivano così anche i quotidiani d’opposizione interna: Cumhüriyet, spina nel fianco del governo Akp, il gülenista Zaman, il repubblicano Hürriyet che ora, tacitati per arresti, soppressioni, mutazioni editoriali e genetiche certe inchieste e notizie non possono più farle circolare. Ci finirono dentro papà famosi i cui rampolli erano implicati in operazioni finanziarie che destarono non pochi sospetti ad alcuni giudici. Baris, Salih, Oguz e soprattutto Bilal hanno cognomi pesanti che implicavano i ministri degli Interni Muammer Güler, dell'Economia Zafer Cağlayan, dell’Ambiente e Urbanistica Erdoğan Bayraktar, mentre Bilal amato secondo figlio maschio della famiglia Erdoğan trascinava nell’inchiesta nientemeno che il primo ministro di Turchia. Quando lo scandalo scoppiò il ‘sultano’ era in visita ufficiale in Pakistan, ma egualmente attivò lo staff su due fronti: l’istituzionale, introducendo un ampio rimpasto governativo che, oltre ai tre politici di governo, condusse alla sostituzione di altre sette ministri; il repressivo con cui furono epurati  400 uomini in divisa, fra poliziotti e militari, sospettati di prestare il fianco a un’iniziativa che, per Erdoğan, aveva come mandante l’acerrimo nemico Gülen.
Tutti gli uomini del presidente - Coinvolti nell’intrigo anche Mustafa Demir, sindaco dell’islamissimo quartiere di Fatih a Istanbul, Suleyman Aslan, direttore dell’Halkbank e un faccendiere turco-iraniano, Reza Zarrab, sposato con la nota cantante nazional-popolare Ebru Gundes. Costui verrà fermato a Miami nel marzo 2016 per vicende riguardanti un tentativo di elusione delle sanzioni economiche contro l’Iran; e durante il dibattimento i locali pm scoprirono che Zarrab aveva donato 4,5 milioni di dollari a una struttura di beneficienza avviata dalla first lady turca Emine Erdoğan. L’intreccio attorno al premier, perciò, s’ampliava nonostante lui cercasse di confermare i sospetti del complotto antigovernativo. Intanto i magistrati di Ankara che avevano avviato l’inchiesta si ritrovarono già ai primi del gennaio 2014 rimossi dall’incarico; essi stessi compirono un “viaggio” all’estero, chi in Germania, chi in Armenia, anticipando con una sorta di fuga reprimende peggiori da parte del potentissimo e rancoroso leader islamista. Da quel momento il boomerang accusatorio contro i giudici fu “attentato alla sicurezza dello Stato”. Prima di venire epurati i giudici turchi, gülenisti, kemalisti o indipendenti che fossero, parlavano di corruzione per tangenti intercorse fra imprenditori turchi, uomini del governo, l’istituto bancario Halkbank. Quest’ultimo era cresciuto nel ranking turco, dopo aver iniziato a sostenere gli interessi petroliferi iraniani che cercavano di aggirare l’embargo sul nucleare imposto dalla Comunità internazionale.
Amici e nemici - Negli affari della modernizzazione turca, che hanno avuto nel Bosforo un vero pilastro nell’ultimo quindicennio a direzione Akp, si misuravano tanti capitalisti del Musiad (la Confindustria islamica) tutto filava liscio finché il leader dell’Akp non iniziò a punire qualcuno. Il clan Uzan, imprenditori nei settori energetico, edilizio, mediatico - evidenziati da un odierno articolo su La Repubblica - avevano rotto un patto non scritto fra chi s’occupa di affari e chi di politica, seppure con guadagni per la propria famiglia come i segreti erdoğaniani stanno mostrando. Cem Uzan, col passo compiuto nel 2002, praticò una sorta di lesa maestà: gettarsi nell’agone politico con un partito, che pur non superando la soglia di sbarramento riportava il 7,5%, proprio alle elezioni che consacravano la salita dell’Akp al potere. Partito in quel frangente diretto da Gül (poi diventato Capo di Stato) visto che su Erdoğan pesava ancora un’interdizione disposta dalla Corte costituzionale, comunque qualche mese dopo l’ex sindaco di Istanbul, totalmente riabilitato, prendeva le redini di partito e governo. E iniziava le sue vendette: l’Uzan Group si vide sequestrare dallo Stato oltre 200 società su 278. Pur colpita la potente famiglia, che ha tuttora in piedi cause e controversie in patria e ha esportato un pezzo del suo businness in Francia, con Murat Hakan firmò la querela che aveva avviato l’inchiesta giudiziaria nel dicembre 2013. 
Intralcio giudici - In quelle faccende Bilal entrava come un faccendiere speciale. Usava i suoi studi, meticolosamente americani, con laurea presso l’Indiana University, per riprenderli nel 2006 con un dottorato di ricerca presso la Johns Hopkins University di Bologna (una delle tante università private statunitensi sparse per il mondo), però quella frequenza s’interruppe. Riprese nell’ottobre 2015, quando la tempesta della denuncia al padre premier e presidente era in corso, seguita dalla sua rabbiosa reazione contro gli avversi Uzan e quei magistrati turchi che avevano avviato l’inchiesta sulla cosiddetta “Tangentopoli del Bosforo”. Seppur tutto fosse stato tacitato in patria, due pubblici ministeri italiani (Scandellari e Cavallo), due donne, hanno voluto scavare fra alcuni elementi di quella denuncia e dei conti segreti degli Erdoğan. La famiglia, fra l’altro, negli spostamenti all’estero s’avvale di un’altra figura: la figlia Sümmeye che aveva ricevuto un incarico in Relazioni Estere nel partito di papà, e s’è recentemente unita in matrimonio con l’ingegnere e imprenditore Selcuk Bayractar, che alcuni osservatori già vedevano cooptato nel governo. Cosa finora non accaduta. Le pm italiane, oltre alle intercettazioni utilizzate dai colleghi turchi (dove il padre Recep Tayyip e il figlio Bilal parlano di denaro), registrazioni ritenute false dal presidente turco, puntavano a verificare i proventi di centinaia di milioni di euro a disposizione dello Bilal specializzando emiliano. Cifre da capogiro che, secondo indiscrezioni diffuse da agenzie e Servizi moscoviti, provenivano da commerci petroliferi che l’uomo di Ankara realizzava con gli uomini di Raqqa. Trasportando il greggio sulle navi cisterna acquisite dalla BMZ group, di proprietà del rampollo di famiglia. Quelli erano, comunque, ancora i mesi del braccio di ferro fra Recep Tayyip e Vladimir. Il futuro è tutto da scrivere, come sempre alla luce del realismo politico. 

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