collettivo militant
La strategia del sommergibile, l’hanno chiamata proprio così gli spin doctor di Renzi, neanche ci trovassimo in piena “Battaglia dell’Atlantico” durante la Prima Guerra Mondiale. Parliamo del tentativo di salvare in extremis le sorti del referendum autunnale, fortemente caldeggiato dall’Unione Europea, limitando al massimo l’esposizione mediatica del Premier rispetto alla riforma costituzionale.A ben vedere si tratta di una vera e propria inversione ad U da parte di quel Matteo Renzi che fino a poche settimane fa aveva fortemente personalizzato la consultazione referendaria, tanto da farne dipendere il proprio futuro politico (se perdo lascio!), e che adesso, intervistato dalla CNBC, è obbligato a volare più basso: sono sicuro che vincerò il referendum, ma non perché questa sarebbe la mia vittoria, non è il referendum di Renzi ma si decide del futuro dell’Italia. Allora, cos’è successo nel frattempo? Cosa ha spinto a più miti consigli il rottamatore toscano, notoriamente malato di protagonismo?
Semplice, sulle scelte di Renzi e del suo entourage ha pesato la batosta presa dal PD alle amministrative, e non bisogna(va) essere dei fini analisti politici per comprenderlo, ma ancor di più hanno pesato le cause sociali e politiche che hanno determinato quel risultato e che sono state rese particolarmente evidenti soprattutto dall’andamento dei ballottaggi. Quando la stragrande maggioranza degli elettori che ha deciso di tornare alle urne lo ha fatto per votare contro di lui e contro il Partito Democratico. Un segnale di “disconnessione sentimentale” che non dev’essere sfuggito al buon Matteo e che sicuramente ha messo in allarme i padrini politici della (contro)riforma costituzionale, resi nel frattempo ipersensibili anche dal risultato del referendum inglese sulla Brexit. Un’inquietudine che trova la propria dimostrazione plastica nel balletto, ancora non concluso, sulla data del referendum e nell’apertura sui possibili ritocchi all’Italicum, la nuova legge elettorale che insieme alle riforme costituzionali rappresenta il pilastro della Terza Repubblica prossima ventura.Prima della scoppola amministrativa l’intenzione del governo era infatti quella di velocizzare al massimo il passaggio referendario e si era arrivati ad indicare la data del 2 ottobre come quella più probabile. Le ragioni di tanta fretta erano duplici, da una parte si voleva mettere la Corte Costituzionale di fronte al fatto compiuto (a partire dal 4 ottobre la stessa è chiamata a valutare la costituzionalità dell’Italicum, un passaggio non del tutto scontato vista la recente bocciatura del “Porcellum”), dall’altro si voleva arrivare a presentare la Legge di Stabilità davanti alla Commissione europea con i compiti a casa già fatti, e così magari riuscire a strappare qualche punticino di flessibilità da potersi spendere in termini di consenso interno. Dopo il flop elettorale i piani però sono cambiati, anzi sono proprio saltati, e la data del referendum è così iniziata a scivolare sempre più in la nel tempo, avvolta da un’imbarazzante indeterminatezza. Fino a qualche giorno fa si parlava del 6 novembre, ora si ipotizza la data del 27 novembre, mentre sembra chiaro anche ai più distratti il tentativo di prendere tempo a fronte di quella che fino a qualche mese fa era annunciata come una vittoria schiacciante e che ora rischia di trasformarsi in una Waterloo politica.
Anche le giravolte intorno alla legge elettorale la dicono lunga in tal senso. Napolitano, vero garante della (contro)riforma europeista della Costituzione e fino a poco tempo fa convinto pasdaran dell’Italicum, ha recentemente aperto ad una sua possibile modifica ipotizzando lo slittamento del premio di maggioranza dai partiti alle coalizioni. Non certo un ritocco di poco conto per chi aveva immaginato un sistema politico bipartitico e che invece oggi si vede costretto suo malgrado a fare i conti con un sistema tripolare. Ma procediamo con ordine e vediamo cosa prevede la nuova legge elettorale, anche perché non tutti, giustamente, hanno ben chiaro i termini della questione. In estrema sintesi, una volta abolito il Senato elettivo (con il referendum), il sistema elettorale della Camera (Italicum) prevede una soglia di sbarramento del 3% e una forzatura maggioritaria senza precedenti: si voterebbe infatti in 100 collegi plurinominali e, su 630 deputati, ben 340, pari al 54%, andrebbero di diritto al partito che ottiene il maggior numero di voti. Questo avverrebbe con due possibilità: 1) direttamente al primo turno se il partito di maggioranza ottiene più del 40% dei voti espressi; 2) dopo il ballottaggio tra i due maggiori partiti nel caso nessuno avesse raggiunto il 40% al primo turno. Senza coltivare alcun feticismo per le istituzioni parlamentari borghesi appare evidente come anche formalmente questa legge sancisca il passaggio dalla democrazia liberale descritta come “governo dei più” ad una vera e propria “dittatura della minoranza” senza nemmeno il “controbilanciamento” istituzionale della seconda camera. E con il pallino del potere legislativo che, in caso di vittoria dei Si, passerebbe, di fatto, dal parlamento all’esecutivo. Per avere un’idea di quello che stiamo dicendo basta guardare alla fotografia che ci consegnano le ultime consultazioni elettorali, con un astensione stabilmente intono al 50% e con partiti che oscillano intorno al 25% (quindi il 12,5% reali) e che, grazie a questo sistema elettorale, otterrebbero la maggioranza assoluta… altro che “una testa un voto”. Anche in questo caso però gli ultimi accadimenti politici hanno scompaginato il quadro e quello che sarebbe stato un sistema elettorale da sogno per un PD che alle europee del 2014 veleggiava al 40% a finito col trasformarsi in un vero e proprio incubo con le recenti elezioni amministrative, con la definitiva affermazione di un sistema tripolare e con il populismo anfibio del M5S che si è dimostrato capace di sbaragliare ai ballottaggi tanto il centrodestra quanto il centrosinistra. Mettendo Bruxelles di fronte al rischio concreto che una forza per certi versi “euroscettica” possa conquistare nel giro di pochi mesi il governo del paese e consegnare all’instabilità politica la quinta economia del continente.
Arriviamo dunque alla questione referendaria. Ci sembra di poter dire che al di la delle questioni specifiche e al netto della propaganda di regime (semplificazione, velocizzazione, riduzione dei costi, ecc) su cui pure torneremo in seguito, le linee guida che informano questa (contro)riforma costituzionale siano sostanzialmente due: l’esecutivizzazione della politica, col passaggio da una repubblica di tipo parlamentare ad una di tipo “governamentale”, e la centralizzazione delle decisioni politiche, con la riforma del Titolo V ed il rafforzamento delle competenze statali su molte delle questioni che fino ad oggi erano state delegate alle regioni. Non si tratta di meri aggiustamenti istituzionali, ma di “armi giuridiche” indispensabili per la grande borghesia per affrontare l’agenda della ristrutturazione produttiva imposta dalla UE, tanto che, non a caso, Stefano Ceccanti, costituzionalista che ha lavorato alla stesura della riforma, parla schiettamente della stessa collegandola alla necessità di europeizzare la forma di governo ed il sistema politico in modo da approdare in Italia, finalmente, ad un “europeismo attivo” capace di giocarsi alla pari il confronto con le altre cancellerie europee.
Se il quadro che abbiamo velocemente tratteggiato si avvicina anche di poco alla realtà è chiaro che la partita che abbiamo di fronte non può essere derubricata ad una guerra nel campo avverso, ma dev’essere assunta come una questione politica che ci investe direttamente e che di deve vedere mobilitati e attivi. Occorre però scegliere bene e con cura il campo principale su cui provare a portare la nostra lotta. Da questo punto di vista ci sembra di poter dire che ogni tentativo di opporsi alla (contro)riforma ponendosi esclusivamente sul piano della difesa della “Costituzione più bella del mondo”, della “Costituzione nata dalla resistenza”, ecc ecc è destinato inevitabilmente al fallimento. Se ci attestassimo sulla semplice difesa dell’esistente saremmo facilmente spazzati via dalla retorica nuovista del fronte del Si. E del resto il fallimento della raccolta di firme da parte dei comitati del No è un segnale che va colto a pieno. Le bugie del Si vanno smontate, una per una, ma quello è un piano su cui al massimo riusciremmo a intercettare quelli che un tempo avremmo definito i “sinceri democratici”, un pezzo di società culturalmente residuale e politicamente ininfluente. La battaglia va invece portata sul piano del conflitto sociale e di quello politico, rendendo il più possibile chiara la connessione tra i due livelli e su questo provando a mobilitare anche quel pezzo di paese che ormai da tempo diserta le urne. Se voti No, voti contro il Jobs Act. Se voti No, voti contro la “buona scuola”. Se voti No, voti contro il “decreto Madia” e le privatizzazioni. Se voti No, voti contro lo “Sblocca Italia”. Se voti No, voti contro Renzi e lo mandi a casa. E insieme a lui mandi a casa pure la Boschi, Padoan e il governo della Unione Europea.
Dopo di che, senza alimentare facili enusiasmi, è chiaro che oltre le colonne d’ercole del governo Renzi non sorge il sol dell’avvenire nè tantomeno c’è il socialismo. La vittoria del No aprirebbe però una fase di instabilità che a noi servirebbe come il pane e che ci darebbe del tempo (politico) e dello spazio (politico) da poter sfruttare. Quanto tempo e quanto spazio non è dato saperlo, ma sarà sicuramente di più di quello di cui potremmo godere in caso di una vittoria del Si e della conseguente ulteriore stabilizzazione del quadro politico. Saper usare questo tempo e questo spazio per provare ad invertire la rotta, per iniziare quantomeno a costruire nuovi rapporti di forza, poi sta solo a noi.
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