Le potenze occidentali hanno penato parecchio per riuscire ad
insediare in un paese diviso e balcanizzato un cosiddetto ‘governo di
unità nazionale’ che potesse avere la legittimità minima necessaria per
chiedere un intervento straniero contro le milizie islamiste legate allo
Stato Islamico.
contropiano.org
Stati Uniti ed Ue, dopo mesi di tira e molla, hanno
ottenuto il risultato solo nel marzo scorso. Si tratta in realtà solo di
un risultato formale – sufficiente però affinché Washington potesse
iniziare i più volte annunciati raid contro Sirte – che nasconde una
estrema conflittualità tra le varie componenti del paese terremotato
dall’intervento militare occidentale del 2011. Una conflittualità che si
nutre non solo della competizione tra tribù e milizie, ma viene
fomentata dalla rivalità tra potenze internazionali, potenze locali –
l’Egitto, in primo luogo, le petromonarchie, la Turchia – e le
multinazionali energetiche che vogliono rimettere del tutto le mani
sugli enormi giacimenti di petrolio e gas conservati nel sottosuolo
libico e che anni di scontri hanno in parte reso indisponibili. Il
blocco dei pozzi e delle raffinerie, delle esportazioni e quindi dei
profitti delle grandi compagnie occidentali preoccupano i paesi
occidentali assai più del relativa insediamento dello Stato Islamico in
alcune aree della Libia. E l’intervento dei bombardieri, dei caccia e
dei droni statunitensi, così come dei corpi speciali di Parigi e Londra,
ha probabilmente più a che fare con la volontà di “mettere in
sicurezza” i territori dove si concentra l’estrazione del greggio e del
gas che con la necessità di eliminare le sacche di resistenza di Daesh
che le milizie agli ordini del governo Serraj non sono riuscite in
questi mesi a sconfiggere.
Un interesse comune al governo fantoccio di Tripoli, che senza
poter contare sulle esportazioni di idrocarburi, in un momento
oltretutto contraddistinto dalla caduta dei prezzi, non può contare su
alcuna altra entrata nelle casse di uno stato sempre più frammentato. Il
rischio è che le varie regioni della Libia, già animate da una spinta
centrifuga che Tripoli fatica a contrastare, vadano per la loro strada
di fronte sfuggendo a un governo incapace di assicurare non solo
sicurezza e investimenti, ma anche solo forniture di elettricità e cibo,
sanità, trasporti. Se per tre anni è stato quasi impossibile far
ripartire la macchina delle esportazioni di petrolio e gas – con la
conseguente perdita di decine di miliardi di euro di mancati introiti –
l’intervento militare chiesto da Serraj al Pentagono potrebbe essere
stato valutato dai clan di Tripoli come il male minore. Anche se i
militari statunitensi non si limiteranno certo a bombardare le
postazioni controllate dagli islamisti; Washington, dopo aver
patrocinato la formazione del governo fantoccio di “unità nazionale”,
diventerà più forte e invadente e pretenderà di dettare ogni asse della
politica di Tripoli.
Non è un caso che proprio venerdì scorso, alla vigilia dell’inizio dei
bombardamenti statunitensi su Sirte e altre aree – decisi e pianificati
mesi fa, hanno fatto sapere le stesse fonti ufficiali – sia stato
firmato un accordo strategico volto a riaprire tre importanti terminali
petroliferi della Cirenaica finora ostaggio di una potente milizia
ribelle – le ‘Guardie Petrolifere’ – guidata da Ibrahim Jidran che
avrebbe finalmente accettato di riaprire i rubinetti di Ras Lanuf, Sidra
e Zueitin. La National Oil Corporation (Noc), l’impresa “statale”
energetica libica, non ha nascosto il suo entusiasmo per l’annuncio
dell’accordo che potrebbe portare la produzione a quasi 1 milione di
barili al giorno, mentre dall’intervento militare occidentale con
conseguente destituzione e uccisione di Gheddafi Tripoli è riuscita al
massimo a garantire una produzione di circa 360 mila barili, appena un
quarto del totale pre “rivoluzione”.
Il problema è, come già accennato, che la Libia non è già più uno stato
unitario, ma un complicato puzzle di interessi particolari, milizie,
governo locali, tribù legate agli interessi delle singole multinazionali
e dei vari paesi in fila per spartirsi il lauto bottino.
E così il governo della Cirenaica,
insediato al Al Bayda, non vuole saperne di riconoscere Serraj e il suo
‘esecutivo di unità nazionale’ (Gna), e difficilmente lascerà che il
petrolio di Ras Lanuf, Sidra e Zueitin finisca nelle mani di Tripoli,
visto che dal 2014 ha addirittura costituito una sua azienda energetica
‘pubblica’ separata dalla Noc e basata a Bengasi. La fusione delle due
aziende, ha annunciato il governo di al Bayda, potrà avvenire solo se la
Noc sposterà la sua direzione a Bengasi e l’esecutivo di Tripoli
accetterà di destinare almeno il 40% degli introiti petroliferi alla
Cirenaica. Il cosiddetto
parlamento di Tobruk, al quale è legato il Generale Haftar con le sue
truppe finora sostenute dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti, non è
affatto incline a cedere il potere. “L’intervento straniero richiesto
pubblicamente in Libia non lo accettiamo. Le decisioni prese dal governo
di unità nazionale libico, che ancora non ha ottenuto la nostra
fiducia, sono una violazione della Costituzione e dell’accordo politico”
ha sentenziato qualche ora fa Aguila Saleh, speaker della Camera dei
deputati di Tobruk, aggiungendo: “Si sostengano e si aiutino invece le
nostre forze armate (guidate dal generale Haftar) nella lotta al
terrorismo”. A Khalifa Haftar e alle sue truppe non va giù che le rivali
milizie islamiste di Misurata, alleate di Serraj, siano la punta di
lancia dell’offensiva contro le milizie di Daesh che i raid aerei
statunitensi cercano di rendere più efficace e risolutiva. Se
l’operazione dovesse andare in porto sarebbero le milizie di Misurata ad
impossessarsi di Sirte e non le truppe di Haftar da mesi impegnate,
senza grandi successi, contro un migliaio di combattenti di Daesh, il
che indebolirebbe assai il ruolo di ago della bilancia finora detenuto
da Haftar (e dai suoi sponsor stranieri).
L’intervento straniero – statunitense, ma anche di alcune potenze
europee che da mesi hanno inviato centinaia di uomini dei corpi speciali
a combattere sul terreno – potrebbe, agli occhi di Tripoli e di Serraj,
essere la carta da giocare non solo per sbloccare la produzione di
greggio e di gas e far ripartire le finanze statali, ma anche per
obbligare o convincere i poteri secessionisti locali ad accettare la
sovranità del cosiddetto governo unitario. Ma l’intervento straniero
potrebbe al contrario accelerare la frantumazione del paese, piuttosto
che ridurla, convincendo i governi locali ad accentuare la propria
indipendenza rispetto ad un’autorità centrale così debole da essere
costretta a chiedere l’invadente sostegno di Washington e Bruxelles.
L’aver autorizzato un nuovo intervento militare straniero dopo quello
catastrofico del 2011 potrebbe rappresentare un argomento assai
convincente da usare per il governo di Tobruk e il generale Haftar
contro il ‘Gna’ di Tripoli.
Le rivalità tra le diverse potenze straniere e le diverse multinazionali
energetiche presenti nel paese potrebbero fare il resto. “Alleati”
nella lotta contro il Califfato e per ristabilire la sicurezza in Libia,
Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Italia sono rivali quando si
tratta di spartirsi la grande torta dei giacimenti libici. La Libia
ospita il 38% di tutto il petrolio africano e garantisce un greggio di
qualità ed estraibile a basso costo. Senza contare gli ingenti depositi
di gas, anch’esso di buona qualità e di facile estrazione. Un bottino da
ben 130 miliardi di dollari quasi cash, al quale occorre aggiungere le
enormi riserve d’acqua che opportunamente canalizzate potrebbero
rappresentare un altro gigantesco introito per le multinazionali in
grado di metterci le mani.
Se dopo il disastro dell’intervento militare del 2011 solo l’italiana
Eni è riuscita a continuare a estrarre ed esportare, comprandosi la
collaborazione di ras locali e milizie, gli appetiti delle omologhe di
Washington, Londra e Parigi hanno spinto i rispettivi governi a
contestare la posizione ritagliatasi dall’Italia in questi anni
difficili. L’intervento militare degli Stati Uniti potrebbe quindi
rappresentare non l’inizio di un processo di riunificazione della Libia
in un quadro di sostanziale accordo e spartizione tra le varie potenze –
il Fezzan alla Francia, la Cirenaica alla Gran Bretagna e la
Tripolitania all’Italia, con gli americani in versione “jolly” – ma al
contrario l’inizio della definitiva deflagrazione del paese sull’onda
degli infiniti appetiti dei vari protagonisti della cosiddetta lotta
contro il terrorismo jihadista.
Stavolta è stata Washington a partire in quarta – dopo aver inutilmente
chiesto a Renzi un corpo di spedizione di ben 5000 militari per
risparmiare agli Usa la fatica di condurre una costosa e rischiosa
operazione di terra – ma nel 2011 fu Nicolas Sarkozy ad attaccare per
primo quando le altre potenze stavano ancora decidendo i dettagli
dell’invasione. La fretta era dettata probabilmente dal fatto che
all’epoca Gheddafi, nel suo progetto di rafforzare l’Unione Africana
svincolando il continente dall’influenza neocoloniale occidentale, era
in procinto di varare una nuova moneta comune con altri 14 paesi
africani, soppiantando così il dollaro ma soprattutto il “Franco FCA”,
la valuta inventata nel 1945 da Parigi e successivamente agganciata
all’Euro, micidiale strumento di dominazione economica di mezzo
continente da parte della Francia.
Oggi però la situazione è assai più ingarbugliata di cinque anni fa,
anche per quegli apprendisti stregoni dell’imperialismo che pure da
decenni non disdegnano di sfasciare interi stati pur di aggiudicarsene
brandelli consistenti.
Paolo Scaroni, prima a capo dell’Eni ed oggi vicepresidente
della Banca Rothschild, ha spiegato al Corriere della Sera che «occorre
finirla con la finzione della Libia», «paese inventato» dal colonialismo
italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania,
che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi»,
spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali,
eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto
«ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche».
Ma le vicende della stessa Libia, oltre che dell’Iraq e della
Siria, dimostrano che sempre più spesso il caos e la destabilizzazione
seminati a piene mani in Africa ed in Medio Oriente sfuggono spesso di
mano.
Marco Santopadre
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mercoledì 3 agosto 2016
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