I processi ai banchieri hanno tempi lunghi. E rischiano la prescrizione. Ma il problema non sono solo i tempi. Ci sono episodi più gravi. Negli atti spuntano infatti rapporti con magistrati che gettano ombre sulle attività giudiziarie. Assunzioni, favori, regali. Da Vicenza e Treviso, per arrivare a Palermo. Ecco i nomi.
L'Espresso Vittorio MalaguttiIl processo? Non si può fare. Ad Ancona, i pm della Procura cittadina vagano da tre anni nel labirinto del crac di Banca Marche, un disastro da un miliardo di euro che ha travolto i risparmi di 50 mila famiglie. La lista degli indagati è lunga, 36 nomi, ma le accuse più pesanti riguardano l’ex direttore generale Massimo Bianconi, al vertice dell’istituto dal 2004 al 2012.
È lui, secondo la ricostruzione dei commissari inviati da Bankitalia, l’uomo che ha dato le carte al tavolo di un poker affollato di bari e truffatori. Ebbene, poche settimane fa, per la prima volta dall’inizio delle indagini, un magistrato è stato chiamato a decidere se mandare alla sbarra Bianconi. Niente da fare. Il 9 giugno, l’udienza sul rinvio a giudizio del manager si è conclusa con un nulla di fatto. Motivo: nel fascicolo del procedimento depositato dalla Procura mancavano alcuni documenti.
Il caso di Ancona non è un’eccezione. Nell’anno nero del risparmio, le polemiche sulla giustizia lenta si sommano a quelle sui controllori distratti, Bankitalia e Consob, capaci di intervenire solo per raccogliere i cocci. Nelle Marche come in Veneto, da Vicenza a Treviso, e poi ad Arezzo e a Genova, le indagini sui banchieri rischiano di affondare nelle sabbie mobili dei sospetti e dei veleni. I magistrati sono chiamati a esplorare una zona grigia di favori e complicità. Le inchieste delle procure tentano di smontare sistemi di potere consolidati nel tempo. Sistemi di cui spesso, come risulta dalle carte, gli stessi magistrati erano parte integrante.
Ad Ancona il rinvio deciso a giugno riguarda un filone di indagine marginale. Una storia di presunte mazzette che l’ex direttore generale avrebbe incassato per dare via libera ai finanziamenti richiesti da due imprenditori, Vittorio Casale e Davide Degennaro, anche loro indagati. Il danno stimato si aggira sui 15 milioni: poca cosa nel calderone di Banca Marche, affondata in un mare di affari sballati. Se ne riparla a ottobre.
Solo che, nel frattempo, i reati contestati a Bianconi rischiano di andare in prescrizione prima di approdare in tribunale. Intanto, il popolo degli sbancati, migliaia di famiglie che hanno perso i loro soldi nel tritacarne gestito da Bianconi, assiste rassegnato alla corsa a ostacoli della giustizia. Sono passati più di tre anni da quando, nella primavera del 2013, la Procura di Ancona aprì un fascicolo sulla disastrosa gestione dell’istituto marchigiano.
A ben guardare, però, si scopre che già nel 2010 e nel 2011 gli ispettori della Vigilanza avevano segnalato ai magistrati irregolarità e omissioni nella gestione dell’istituto marchigiano. Nulla si mosse, all’epoca. Fino a quando, dopo il ribaltone al vertice e l’uscita di scena di Bianconi (con tanto di buonuscita milionaria e lettera di encomio), i pm scesero finalmente in campo.
Ad Arezzo, epicentro del terremoto Banca Etruria, l’inchiesta della procura si è frantumata in cinque filoni. Quello principale per bancarotta, aperto dopo la formale dichiarazione d’insolvenza dell’istituto nel febbraio scorso, è alle prime battute. E gli altri riguardano aspetti secondari nella complicata vicenda di un crac da 1,1 miliardi di euro.
A ottobre potrebbe arrivare il primo verdetto, ma solo perché Giuseppe Fornasari, ex presidente dell’istituto aretino, insieme a Luca Bronchi, già direttore generale, e all’ex dirigente Davide Canestri, saranno processati con il rito abbreviato per ostacolo alla Vigilanza su uno specifico affare immobiliare. Ben altri saranno i tempi dell’indagine che punta ad accertare le responsabilità del fallimento della banca. Un’indagine che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro Maria Elena.
Proprio gli incroci pericolosi con il governo hanno finito per creare nuovi intralci in un’inchiesta già di per sé complicata. Nei mesi scorsi, Roberto Rossi, procuratore capo di Arezzo e titolare delle indagini sul dissesto della banca cittadina, è stato costretto a difendersi davanti al Csm (l’organo di autogoverno della magistratura) per gli incarichi di consulenza ricevuti dalla presidenza del Consiglio ai tempi di Enrico Letta e mantenuti anche quando a Palazzo Chigi è approdato Matteo Renzi. Il verdetto è di fine luglio. «Tutto regolare: non c’è incompatibilità». Il pm potrà continuare a indagare sul padre di un ministro del governo di cui è stato consulente.
Intanto, sono trascorsi più di tre anni da quando, nel 2013, gli ispettori di Bankitalia avevano formulato i primi pesanti rilievi sulla gestione dell’istituto. Nel novembre scorso, con l’azzeramento di Banca Etruria deciso dal governo, migliaia di azionisti e obbligazionisti hanno perso per intero il loro investimento. Le proteste e le manifestazioni di quei giorni sono un ricordo. Quel che resta sono centinaia di esposti dei risparmiatori che attendono giustizia.
A Treviso e dintorni invece, decine di cittadini sono tornati in piazza il 2 agosto per brindare all’arresto di Vincenzo Consoli, un tempo riverito gran capo di Veneto Banca. Sui social network è partito il tormentone: «Perché Consoli sì e Zonin no?». Una storia parallela, quella dei due banchieri, ex potenti finiti nella polvere. Anche Gianni Zonin, già presidente della Popolare di Vicenza, è sotto inchiesta per aggiotaggio e ostacolo alla Vigilanza, gli stessi reati che al suo ex collega di Veneto Banca sono costati un’ordinanza di custodia cautelare.
Nella città del Palladio, il capo della locale Procura si è fatto scudo di un’ovvietà: «Ogni inchiesta fa storia a sé», ha scandito il magistrato Antonio Cappelleri. Difficile affermare il contrario, in effetti. Intanto però i pm di Vicenza si sono tenuti ben stretto il fascicolo che riguarda la Popolare. Treviso invece, competente per territorio su Veneto Banca, ha ceduto il passo a Roma, con la motivazione che il reato di ostacolo alla Vigilanza della Banca d’Italia si è consumato nella capitale. Una rinuncia, quella di Treviso, disseminata di imbarazzi.
Soprattutto da quando, nei mesi scorsi, sono emersi i rapporti tra Consoli e il colonnello Giuseppe De Maio, comandante della Guardia di Finanza trevigiana fotografato in Brasile, all’epoca dei mondiali 2014, mentre brinda con il banchiere. Al vaglio del Csm è finita anche la posizione di Michele Dalla Costa, il magistrato che dal 2013 guida la procura di Treviso. Sua moglie si chiama Ippolita Ghedini e lavora nello studio di famiglia insieme al fratello Niccolò, parlamentare di Forza Italia e difensore di Silvio Berlusconi in tanti processi. Gli accertamenti su Dalla Costa riguardano incarichi professionali che la signora Ghedini avrebbe ottenuto dal gruppo Veneto Banca.Del resto anche Giuseppe Schiavon, fino al 2012 presidente del tribunale di Treviso, era in rapporti più che cordiali con Consoli. Amicizia a parte, nelle settimane scorse Schiavon si è trovato nella spiacevole situazione di dover giustificare i regali ricevuti nel 2009 e nel 2010 dall’istituto con base a Montebelluna. Regali da migliaia di euro: una mountain bike, un orologio in oro bianco. «Non ho mai chiesto o ricevuto alcun compenso da Veneto Banca», ha tagliato corso il magistrato quando gli è stato chiesto di questi omaggi.
Polemiche, veleni, sospetti: questo è il clima che circonda l’inchiesta su Consoli. Non è una sorpresa, allora, che la procura di Treviso abbia deciso di farsi da parte. A Vicenza, invece, Zonin continua a giocare in casa. In passato, i procedimenti a suo carico si sono invariabilmente chiusi con un nulla di fatto, mentre il banchiere vignaiolo, forte di una rete impressionante di relazioni nel mondo della politica, dell’alta burocrazia, della finanza e dei giornali, si è costruito la fama dell’intoccabile.
Solo ora che il suo regno è finito, qualcosa si muove. Il Csm ha aperto un’indagine per chiarire le motivazioni che hanno portato all’archiviazione di due inchieste giudiziarie, che risalgono al 2001 e al 2008, a carico dell’allora presidente della Popolare. Sono già stati chiamati a deporre il presidente del Tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, e il procuratore capo Cappelleri. Dei pm che all’epoca si occuparono di quei casi, solo uno, Stefano Furlani, è ancora al lavoro nella città berica e adesso rischia il trasferimento. Tutti gli altri hanno cambiato sede o sono andati in pensione. E qualcuno, chiusa la carriera in magistratura, ha trovato una sistemazione a libro paga della banca vicentina.
“L’Espresso”, nel febbraio 2015, ha rivelato il caso dell’ex pm Antonio Fojadelli, che nel 2014 è entrato nel consiglio di amministrazione di Nordest sgr, una società di gestione del risparmio controllata dalla Popolare di Vicenza. Nel 2002 l’allora procuratore Fojadelli chiese, e alla fine ottenne, l’archiviazione di un’inchiesta su Zonin. A distanza di anni il magistrato, da tempo in pensione, si è accomodato su una poltrona offerta dal banchiere su cui aveva indagato. Caso vuole che lo stesso Fojadelli, una volta lasciato l’incarico a Vicenza, sia approdato nel 2003 a Treviso, dove all’epoca regnava Vincenzo Consoli, patron di Veneto Banca. Dopo otto anni nella nuova sede, arriva la pensione e, nel 2014, Fojadelli accetta l’offerta della Popolare di Vicenza. Si ignora quali siano le sue competenze in materia di risparmio. Sta di fatto che anche adesso che la stella di Zonin è tramontata, l’ex pm risulta ancora amministratore di Nordest sgr.Stesso discorso per un altro magistrato come Manuela Romei Pasetti, che nel 2012 è entrata nel consiglio di Banca Nuova, controllata palermitana della Popolare Vicenza. Pochi mesi prima della nomina, Romei Pasetti aveva lasciato la toga come presidente della corte d’Appello di Venezia, competente anche su Vicenza. In quegli anni l’istituto palermitano, all’epoca guidato dal direttore generale Francesco Maiolini, aveva arruolato una schiera di dipendenti dai cognomi eccellenti: parenti di politici e di alti burocrati locali. Una lista in cui non mancavano figli e consorti di magistrati. Tra questi anche il figlio di Francesco Messineo, fino al luglio 2014 capo della procura di Palermo. E poi Germana Cupido, moglie di Ignazio De Francisci, già procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano, e Margherita Milone, nuora di Leonardo Guarnotta, che nel 2015 ha lasciato l’incarico di presidente del tribunale palermitano.
Nessun reato, salvo prova contraria, ma talvolta gli intrecci tra finanza e giustizia alimentano i peggiori sospetti. È successo a Genova, dove nel 2014 è stato arrestato Giovanni Berneschi, fino all’anno prima dominus assoluto di Carige, un’altra banca di provincia finita nei guai. Nelle carte dell’inchiesta sono emersi i rapporti tra Berneschi e alcuni magistrati, come l’ex procuratore capo Francesco Lalla e il giudice Roberto Fucigna. Entrambi, risulta dagli atti, avevano bussato alla porta del banchiere per ottenere favori di vario tipo. Proprio in quegli anni diverse indagini sul sistema Carige erano state archiviate. Una proprio da Fucigna. Solo nel 2013 comincia l’inchiesta che porterà alla caduta di Berneschi. A capo della procura però non c’era più Lalla, ma Michele Di Lecce, un magistrato venuto da fuori.
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