Se qualcuno ancora dubitava che la “governance” europea non è più nella disponibilità dei singoli governi, ieri sera Mario Draghi ha calato la mazza sulle residue illusioni “sovraniste-nazionali”.
contropiano.org Claudio Conti
Parlando all'assemblea annuale dei
governatori delle principali banche centrali, a Jackson Hole, nel
Kansas, l'attuale presidente della Bce ha illustrato sia le competenze
dei signoli governi “nazionali” - ovvero provinciali – sia quelle degli
organismi sovranazionali, e il loro reciproco rapporto. Il tutto mentre
illustrava limiti e possibilità della sua personale competenza: la
politica monetaria.
I media mainstream hanno interpretato il
suo discorso dal lato “difensivo”: io posso anche fare politiche “non
convenzionali”, ma il percorso della “crscita” dipende dalle “riforme
strutturali”, a partire da quella principale: la distruzione del mercato
del lavoro in ogni singolo paese dell'eurozona.
Non c'è possibilità di equivoco. Gli
esempi che ha fatto sono solari, anche se falsi. Gli ostacoli
all'aumento dell'occupazione sono a suo avviso soprattutto nelle
“rigidità” che impediscono gli "aggiustamenti". Ha citato esplicitamente
l'Irlanda, dove la diminuzione dei salari (ia nominali che reali) ha
fatto diminuire anche la disoccupazione strutturale. In Spagna, al
contrario, fin quando i salari hanno mantenuto un livello decente la
disoccupazione strutturale è salita, per diminuire quando il governo di
destra Rajoy è intervenuto per rimuovere i suddetti ostacoli.
Dov'è la falsità? La Spagna non è
cresciuta affatto, al massimo ha interrotto il ritmo di caduta del Pil.
Al punto che la sua bilancia commerciale – la differenza tra
esportazioni e importazioni – ha segnato un record negativo.
Ma per la Bce (per la Troika) non c'è
altro tasto su cui battere per “uscire dalla crisi”: abbassare i salari,
favorire i licenziamenti facili nella speranza – solo quella, perché le
evidenze empiriche dicono il contrario - “le risorse”, e quindi anche
la forza lavoro, “possa spostarsi da un settore all'altro”. Guardate
cosa sta accadendo da quasi venti anni in Italia: si chiudono imprese,
si privatizza, si licenzia (collettivamente, per “stato di crisi”), si
dismettono interi settori produttivi, e non “si sposta” un beneamato
nulla. Cresce la disoccupazione e basta. Appena tamponata dagli
ammortizzatori sociali, che hanno in memoria la data di scadenza.
Fin qui nulla di nuovo, si dirà. Esatto.
L'unica novità sta nella “scoperta” – quasi imbarazzante per un ex
allievo di Federico Caffè, che ha dedicato al tema numerosi testi oltre
che inumerevoli lezioni – che occorre «un ampio programma di investimenti pubblici, coerente con le proposte del prossime presidente della Commissione europea».
Anche i sordociechi hanno imparato, negli
ultimi anni, che la parola d'ordine dell'Unione Europea è “basta
investimenti pubblici”, perch* la priorità era – ed è - “tagliare la
spesa pubblica per ridurre il debito”. E come si può fare ad “aumentare
gli investimenti pubblici” mentre si riduce il totale della spesa?
Semplice, a suo parere, basta falcidiare quella “improduttiva”. Un
termine generico su cui chiunque può essere d'accordo a prima vista,
salvo dividesi ferocemente su cosa vada considerato davvero
“improduttivo”. L'indicazione è quella di abbassare le tasse – riducendo
quindi anche le entrate degli Stati - nelle aree in cui l'effetto
espansivo può essere maggiore, riducendo le spese improduttive dove si
producono danni minori. Anche in questo caso, non ha lasciato troppi
margini al dubbio: in una nota al testo scritto, c'è scritto nero su
bianco “cuneo fiscale”, da ridurre. Insomma: Renzi esegue quel che gli
viene indicato dall'alto, anche se gli effetti non si vedono.
Qualcuno ha voluto vedere in queste
“novità” una linea di “ammorbiimento del rigore”. A noi sembra il
contrario. Draghi non ha affatto indicato un'altra via rispetto a quanto
concordato finora, per esempio, con la Bundesbank e il governo tedesco.
Semplicemente ha dovuto constatare che il “rigore”, da solo, non
produce alcun risultato se non accompagnato da una robusta iniezione di
investimenti pubblici nei settori ad alta tecnologia. Che però sono
anche quelli che distruggono più rapidamente occupazione.
Il “mercato del lavoro duale” immaginato
da Draghi e dai piloti della Troika – da un lato lo sforzo perché
“l'occupazione sia concentrata su settori ad alto valore aggiunto e
altra produttività, che a sua volta è legato alle competenze”,
dall'altro la massa informe degli “inoccupabili” perché dotati di
competenze medio-basse – è indicato come obiettivo ancora una volta
esplicito: i salari «devono meglio riflettere le condizioni locali del
mercato del lavoro e della produttività» e devono «permettere una
maggiore differenziazione tra lavoratori e settori». Pochi
(relativamente) lavoratori ben pagati perché altamente competenti, e
tantissimi “generici” da retribuire il minimo possibile.
È il “nuovo modello di sviluppo”, che
sostituisce e cancella il “modello sociale europeo”. Naturalmente deciso
dall'alto, al di fuori di qualsiasi procedura o discussione
democratica, senza alcuna possibilità di interlocuzione da parte dei
diretti interessati.
Sugli effetti sociali di questo “nuovo
modello di sviluppo” arrivano con imbarazzante tempismo i dati –
pubblicati oggi – sulla spesa sanitaria dei paesi Ocse, e in in
particolare di quelli europei. L'OECD Health Statistics 2014, il
database dell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico fa sapere infatti che la prima ondata di crisi economica, nel
2008-2009, ha tagliato la spesa sanitaria dei Paesi Ocse con picchi fino
al -25%.
La tendenza diffusa al ribasso della
spesa sanitaria ha riguardato in particolare l'Italia, i Paesi iberici,
la Grecia e l'Ungheria,paesi in cui ha continuato a calare anche dopo il
2010. La situazione peggiore si è registrata ovvamente in Grecia,
casualmente il paese che più di tutti ha dovuto sperimentare le “cure”
suggerite dalla Troika: lì, tra il 2009 e il 2012, si è assistito
addirittura a un calo del 25% della spesa sanitaria, in perfetta
coincidenza con la più generale caduta della spesa pubblica nazionale.
Ma cosa implica la riduzione della spesa
sanitaria? Intutti i casi: turni di lavoro più faticosi per gli
operatori, strutture meno curate, mancanza di investimenti
infrastrutturali e tecnologici. In particolare taglio della spesa
farmaceutica, per “scelta obbligata” sia delle strutture pubbliche che
delle famiglie. Niente affatto compensata dal contemporaneo aumento
della quota di mercato occupata dai “farmaci equivalenti”, o “senza
marchio”; tra il 2008 e il 2012, questa quota è cresciuta in media del
20% per raggiungere il 24% della spesa totale farmaceutica. L'aumento
dei consumi di farmaci 'no brand' è stato particolarmente forte in
Spagna (+ 100%), Francia (+ 60%), Danimarca (+ 44%) e Regno Unito (+
28%).
Ecco, dunque. Il “nuovo modello di
sviluppo” - in cantiere ormai da oltre un ventennio, visto che le sue
caratteristiche strutturali erano già contenuto negli accordi di
Maastricht del 1992 – magari non riesce a far sviluppare proprio nulla.
Ma un “merito”, agli occhi del capitale multinazionale e dei suoi
organismi “tecnici”, indubbiamente ce l'ha: impoverisce tutti, crea
penuria e distrugge ogni “pretesa” - sia salariale che normativa, ovvero
diritti – della forza lavoro.
Sembra l'800, ma è il futuro che ci ci stanno disegnando addosso.
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