Con una decisione saggia e rigorosa il Tribunale per i minorenni di Roma ha concesso l’adozione di una bambina da parte di una donna convivente con la madre biologica.
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Le ragioni di questa decisione sono indicate nitidamente nella sentenza, dove si sottolinea che «la legge italiana consente al convivente del genitore di un minore di adottare quest’ultimo a prescindere dall’orientamento sessuale dei conviventi. Una diversa interpretazione della norma sarebbe non solo contraria al dato letterale, alla ratio legis e ai principi costituzionali, ma anche ai diritti fondamentali garantiti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo». Si può ben dire che si tratta di una decisione storica, nella quale tuttavia non si può cogliere alcuna forzatura o “supplenza” giudiziaria.
Le parole appena ricordate mettono in evidenza come la via scelta dal Tribunale fosse l’unica percorribile, se si vuol rispettare quella soggezione del giudice alla legge di cui la Costituzione parla all’articolo 101. Da tempo, infatti, la legge italiana e sentenze nazionali e internazionali hanno indicato con chiarezza quali siano i criteri da seguire perché, in una materia così delicata, possano essere garantiti i diritti fondamentali delle persone, in primo luogo quelli dei minori.
Per evitare equivoci interessati, bisogna subito ricordare che il Tribunale non ha affrontato questioni come il riconoscimento di un legame matrimoniale tra persone dello stesso sesso o l’attribuzione a queste coppie del diritto all’adozione legittimante, materie per le quali ha riconosciuto esplicitamente la competenza del legislatore. La sentenza è fondata sull’articolo 44 della legge del 1983, che prevede l’adozione «in casi particolari» sottolineando che «l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato». È evidente, quindi, che questo tipo di adozione prescinde tanto dall’esistenza di un matrimonio, quanto dall’orientamento sessuale di chi intende adottare; e l’articolo 44 non lo vieta né ai single né alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Ignorare questo dato normativo porterebbe a una illegittima discriminazione tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali.
La sentenza ricorda una decisione della Corte costituzionale del 2010, che ha riconosciuto la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, poiché siamo di fronte ad una delle «formazioni sociali» di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, sicché alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», che comprende anche le decisioni riguardanti i figli.
La Corte ha poi specificato che «può accadere che, in relazione a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». E, nel 2012, la Corte di cassazione ha insistito proprio su questo punto, dicendo esplicitamente che, trattandosi di diritti fondamentali, le coppie formate da persone dello stesso sesso possono rivolgersi ai giudici «per far valere, in presenza appunto di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata». Il caso particolare deciso dal Tribunale rientra esattamente tra quelli che la Corte costituzionale e la Corte di cassazione avevano messo in evidenza, sicché non è proprio il caso di parlare di un vuoto normativo.
Questa è una linea che attua quanto è scritto nella carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, nell’articolo 9, ha abbandonato la distinzione tra coppie eterosessuali e omosessuali. E bisogna ricordare che la Corte europea dei diritti dell’uomo, occupandosi nel 2013 proprio di adozioni, ha ritenuto che sia discriminatorio prevedere trattamenti differenziati tra questi tipi di coppia. Le nuove forme di genitorialità trovano così pieno riconoscimento.
Muovendo da questo ineludibile contesto giuridico, il Tribunale ha esaminato con grande scrupolo la situazione concreta, per accertare se l’interesse della bambina fosse adeguatamente garantito. E lo ha fatto con dovizia di riferimenti alla sua condizione psicologica, alla qualità dell’ambiente familiare, alla necessaria stabilità della convivenza che le due donne hanno voluto garantire anche attraverso espliciti impegni giuridici. Nessun rischio di pregiudizio per «insano sviluppo psicologico della piccola», dunque. Che invece potrebbe venire, come ricorda la sentenza dal «convincimento diffuso di parte della società» che stigmatizza questo tipo di unioni. È da augurarsi che questa decisione contribuisca ad un comune cammino di incivilimento, mostrando come alcune reazioni di oggi siano solo manifestazione di quella «politica del disgusto» i cui pericoli sono stati così bene illustrati da Martha Nussbaum.
(30 agosto 2014)
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