È “resa” la parola che rimbalza nei capannelli della Camera, al termine dell’incontro tra Berlusconi e Renzi.
Quando si capisce che l’ex premier è andato a palazzo Chigi per dare il
via libera a un accordo che non contiene neanche una bandierina per
Forza Italia. Non solo non c’è il presidenzialismo, o il semi, ma al
posto dell’elezione diretta c’è una specie di “elezione di terzo grado”,
come la chiamano i deputati azzurri che hanno dimestichezza con la
materia: i cittadini scelgono i consiglieri regionali e i sindaci, i
quali a loro volta indicano i senatori, che poi eleggono il capo dello
Stato. E poi l’intero impianto del nuovo Senato risulta un rospo
indigeribile per un partito come Forza Italia, considerata l’attuale
geografia elettorale.
huffingtonpost.it Alessandro De Angelis
Ecco perché in parecchi accompagnano al
sostantivo “resa” altre due paroline che rendono l’idea: “senza
condizioni”. Ed è magra la consolazione che, di fronte a un caffè negli
appartamenti presidenziali (nel senso di Renzi) il Cavaliere,
accompagnato da Gianni Letta e Verdini sia riuscito a ottenere quale
tecnicalità sulla cosiddetta proporzionalità del Senato. Ovvero, detta
in modo grezzo, riuscendo a strappare qualche senatore in più in
Lombardia e nel Nord (dove Forza Italia ancora non sparisce) e meno in
Valle D’Aosta. O che sia riuscito a ottenere la rassicurazione che si
farà la legge entro l’estate, già sapendo che il calendario del Senato è
ingolfato.
Sempre di “resa” si tratta. Su cui è già nata una
fronda. Oltre al direttorissimo Minzolini, al Senato è nell’ombra che
cova l’insofferenza. I pugliesi promettono battaglia e lo stesso i
cosentini ani. Un terzo del gruppo cioè è fuori controllo in vista del
voto d’Aula. Un frondista, a microfoni spenti la mette così: “Se Forza
Italia diventa una corrente di Renzi, come sta accadendo, allora liberi
tutti”. Perché è questo il sospetto sul perché della resa che allarma il
corpaccione di Forza Italia. Che Berlusconi abbia negoziato più in
termini personali che politici. “Ci ha venduto a Renzi per tutelare se
stesso e le aziende”: è questa la frase ripetuta a microfoni spenti da
truppe mai tanto sconfortate.
Una vendita che ha certo a che fare
con i guai giudiziari del Capo, convinto che l’Appello su Ruby
confermerà il primo grado e che il regalo di Natale della Cassazione sia
la perdita della libertà. Ma che ha a che fare soprattutto col quel
partito Mediaset, diventato un grande supporter di Renzi. I
telegiornali, per chi ricorda come venivano usati su Prodi, D’Alema,
Fini, trattano il premier come se fosse un alleato. I talk non mordono.
Gli house organ come il Giornale esaltano le virtù del Renzi
anti-tedesco. Ma soprattutto sono i dirigenti dell’azienda ad essersi
esposti con dichiarazioni pesantissime verso il governo “amico”.
Piersilvio è stato solo l’ultimo. Poche settimane fa Ennio Doris,
presentando il suo libro aveva già detto “io voto per Silvio ma tifo per
Renzi”. Così come erano arrivate lodi da Confalonieri e da Dell’Utri
(finché non è finito al gabbio). In fondo, dice chi sa davvero le cose,
l’unico settore dove Renzi non ha asfaltato un bel niente è quello delle
concessioni tv. E anche sulla Rai ha annunciato tagli più che riforme
che possano stimolare Mediaset in un’ottica di concorrenza. Un business
che vale un Senato, un po’ come una messa per Parigi.
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venerdì 4 luglio 2014
Riforme, Berlusconi dà il via libera a Renzi. E dentro Forza Italia crescono i sospetti: "Ci ha venduti per tutelare Mediaset"
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