«Non puoi passare, occorre far parte di una lista di giornalisti autorizzati per entrare (a Gaza)». Cadiamo dalle nuvole. Inutile far notare che questa disposizione non è mai stata comunicata alla stampa estera. Alla fine, dopo un’ora passata tra telefonate di protesta e discussioni con gli agenti della società di sicurezza che gestisce il valico di Erez, otteniamo il via libera. Anche per i giornalisti con regolare accredito si fa più difficile entrare a Gaza. I comandi militari israeliani ora richiedono un “coordinamento”, ossia essere informati in anticipo dell’intenzione dei media di inviare un loro giornalista a Gaza. Un ufficiale ci spiega che le nuove procedure d’ingresso per la stampa sono state decise dopo il rapimento, il 12 giugno, dei tre giovani israeliani trovati morti a inizio settimana in Cisgiordania. Non riusciamo proprio a capire il collegamento tra la libertà di svolgere il proprio lavoro a Gaza e il caso dei tre ragazzi ebrei, ma alla fine entriamo. E siamo davvero fortunati rispetto alle decine di palestinesi, donne in prevalenza, in attesa di poter transitare. Tornano a casa, alcuni dopo un intervento chirurgico in un ospedale meglio attrezzato in Cisgiordania o in Israele. Ma non hanno un accesso facilitato, devono aspettare l’autorizzazione per il passaggio del valico. E l’attesa può durare anche ore. Fa caldo, molto. Il sole brucia e il cielo è limpido. Eppure su Gaza gravano ugualmente nuvole nere. Si avvicina la tempesta di una nuova guerra. L’esercito israeliano ieri ha deciso di inviare rinforzi militari verso Gaza per, ha spiegato, «scoraggiare» il movimento islamico Hamas e altri gruppi armati dal lanciare razzi. Il tenente colonnello e portavoce militare Peter Lerner minimizza, descrive la decisione come finalizzata alla “de-escalation”, a ridurre la tensione e a far tornare la calma. A Gaza si vedono le cose in modo molto diverso. Perchè l’aviazione israeliana – con F-16, droni ed elicotteri – ha lanciato decine di raid nelle ultime 72 ore e nonostante la “de-escalation” i civili palestinesi si attendono nuovi bombardamenti. Preludio di quella ritorsione per l’uccisione dei tre ragazzi ebrei che il premier Netanyahu ha promesso ai tanti che in Israele da giorni invocano, anche su Facebook, una punizione esemplare per i palestinesi.
Nella notte tra mercoledì e giovedì, mentre la Gerusalemme araba si trasformava in un campo di battaglia per il sequestro e l’omicidio, compiuto, pare, da coloni israeliani, di un ragazzo palestinese, Mohammed Abu Khdeir, i missili sganciati dai jet dello Stato ebraico martellavano 15 punti di Gaza, facendo almeno 11 feriti tra i quali una anziana, tre ragazze e un giovane 17enne, il più grave di tutti perchè colpito da schegge di metallo. Per il portavoce israeliano le bombe hanno centrato soltanto depositi di armi e rampe di lancio di missili. La notte precedente erano state prese di mira presunte installazioni militari di Hamas a Khan Yunis e Rafah. «I boati delle esplosioni erano così potenti che tremavano i vetri delle case anche qui a Gaza city», ricorda Meri Calvelli una cooperante italiana che vive e lavora da anni in Palestina. E a Gaza nessuno dimentica che il mese scorso il piccolo Ali Abd al-Latif al-Awour, di 7 anni, è morto dopo tre giorni di agonia per le ferite riportate in un attacco di un drone aveva come obiettivo un presunto jihadista. Una delle tante morti palestinesi che i media trascurano, talvolta oscurano.
I miliziani dei gruppi armati da parte loro continuano a lanciare razzi, in particolare verso la vicina cittadina israeliana di Sderot dove non hanno fatto feriti ma hanno provocato spavento, causato danni in qualche caso gravi e costretto migliaia di civili a tenere aperti i rifugi di sicurezza. «A lanciarli per la prima volta dal 2012 (dall’accordo di cessate il fuoco che mise fine all’offensiva aerea israeliana “Colonna di Difesa”, ndr) è anche Hamas, non solo i Comitati di Resistenza Popolare o i salafiti, in reazione alla campagna di arresti contro i suoi leader in Cisgiordania e all’assassinio di Mohammed Abu Khdeir», ci spiega un giornalista di Gaza in condizione di anonimato.
Secondo Shimon Schiffer, uno dei giornalisti israeliani meglio inseriti ai vertici dell’establishment politico-militare del suo paese, nei prossimi giorni «L’obiettivo principale dell’esercito sarà quello di limitare le capacità di Hamas in Cisgiordania e di cercare di creare un nuovo equilibrio di potere a Gaza». Israele, afferma, non vuole rioccupare la Striscia ma costituire «la base per una chiara strategia nelle settimane e nei mesi a venire». Il premier Netanyahu, aggiunge Schiffer, «ha bisogno di pensare fuori dagli schemi. Ha bisogno di trovare una risposta creativa, inattesa e audace alla crescente minaccia del terrorismo. In caso contrario, continuerà solo promettere la linea dura con Hamas». Insomma una «guerra creativa» che comunque pagherà la popolazione civile di Gaza e non certo o non solo Hamas preso di mira nei discorsi e negli ultimi interventi del premier israeliano e dei suoi ministri. In vista della guerra «creativa» di Shimon Schiffer, la gente di Gaza fa provvista, accumula generi di prima necessità, cerca di procurarsi medicinali. Chi può permetterselo acquista decine di bottiglie di acqua, i più poveri, ossia gran parte della popolazione, continua a bere l’acqua ormai salata che esce dai rubinetti. Asmaa al Ghoul, una cyber-attivista, ci dice che a differenza delle precedenti offensive militari, “Piombo Fuso” (2008) e “Colonna di Difesa”, stavolta gli abitanti di Gaza cullano una speranza. «Si diffonde l’idea che Israele alla fine non attaccherà in massa – riferisce -, lunedì scorso quando hanno trovato i corpi dei tre coloni la guerra era sicura. Poi degli israeliani hanno rapito e ucciso brutalmente un ragazzo palestinese a Gerusalemme (Mohammed Abu Khdeir, ndr) e questa notizia ha fatto il giro del mondo rendendo difficile per Netanyahu scatenare un nuovo inferno (a Gaza)».
Scende il sole, il tramonto porta con sè l’invito alla preghiera del muezzin. Le auto improvvisamente spariscono. Le strade si svuotano. Il profumo dei piatti tipici si diffonde nelle scale dei palazzi e nelle case. La gente torna a casa per l’iftar, la cena che nel Ramadan chiude il digiuno cominciato all’alba, e per stare insieme a parenti e amici. Il mese più importante dell’anno islamico Gaza lo vive nell’angoscia di una guerra sul punto di iniziare. Amer Abu Samadana, un insegnante di Rafah che vive e lavora nel capoluogo Gaza city, ci offre la sua spiegazione: «Gli israeliani puniscono una intera popolazione per i lanci di razzi, ci bombardano, ci uccidono. Piuttosto dovrebbero chiedersi perchè i palestinesi sparano quei razzi. Sono un uomo tranquillo – aggiunge – e non un sostenitore della lotta armata e di chi prende di mira le città dall’altra parte (del confine) ma gli israeliani devono capire che non possono tenerci prigionieri, sotto assedio, sotto pressione senza che questo provochi la nostra reazione».
L’unica “normalità” di Gaza in questi giorni è lo schermo della televisione, il totem intorno al quale si riuniscono le famiglie per seguire i Mondiali. L’Algeria ha occupato il cuore degli appassionati palestinesi ma la nazionale africana è stata sconfitta ed eliminata dalla Germania. Un affetto che il portiere Rais e gli altri nazionali algerini hanno voluto ricambiare donando a Gaza il premio conseguito ai Mondiali, circa 6 milioni e mezzo di euro, frutto di tante buone prestazioni in questi ultimi anni e non solo di quelle viste al mondiale in corso. Un gesto che Gaza ricorderà per sempre anche se ora tifa Brasile.
Nessun commento:
Posta un commento