“Nonostante quattro processi ed indagini durate quasi un quarto di
secolo, troppi aspetti della strage di via D’Amelio restano a tutt’oggi
avvolti nel mistero. Una ferita aperta che rischia di divenire
l’ennesima sconfitta di un paese incapace di fare i conti con i lati
oscuri del proprio passato”. Pubblichiamo l’intervento del Procuratore
Generale di Palermo in occasione della commemorazione di Paolo
Borsellino e dei cinque agenti di scorta uccisi il 19 luglio 1992.
di Roberto Scarpinato
E’
trascorso quasi un quarto di secolo dalla strage di via D’Amelio ed
ogni anno a causa dell’inesorabile fluire del tempo, si assottiglia per
ragioni anagrafiche e sopravvenuti pensionamenti, il numero di coloro
che all’interno del palazzo di giustizia di Palermo furono testimoni di
quel tempo.
Di coloro che ebbero modo di conoscere personalmente
Paolo Borsellino, di condividere con lui i patemi dei suoi ultimi mesi
di vita, di attraversare quella tragica stagione di sangue quando tutto
sembrava perduto, come ebbe a dire Antonino Caponnetto in un momento di
sconforto e di verità, ed un intero popolo che si sentiva
improvvisamente orfano, si riversava nelle piazze gridando il proprio
sdegno nei confronti degli esponenti di una classe politica che appariva
imbelle e di uno stato che si era rivelato incapace di proteggere da
una morte annunciata i suoi figli migliori. Ho ancora negli
occhi l’immagine di un Presidente della Repubblica che venuto a Palermo
dopo la strage di via D’Amelio, rimase prigioniero nella morsa di una
folla immane; una folla che travolse nel suo incontenibile impeto i
cordoni di protezione della polizia e dalle cui fila si alzava veemente
il grido “assassini” rivolto all’indirizzo dei massimi esponenti delle
istituzioni.
Ogni anno che trascorre mi chiedo quanto di
questo vissuto sia rimasto e resterà nella memoria collettiva dei nuovi
abitanti di questo palazzo, delle giovani generazioni di magistrati, di
avvocati, di funzionari destinati a sostituirci.
Mi chiedo quale
verità storica, prima ancora che verità processuale, noi lasciamo loro
in eredità; quali chiavi di lettura del passato consegniamo loro perché
nella staffetta delle generazioni, essi sappiano leggere nel presente i
segni del passato e le possibili premonizioni del futuro.
Nel
pormi questa domanda a proposito della strage di via D’Amelio, a volte
resto perplesso, perché tanti, troppi aspetti di quella strage restano a
tutt’oggi avvolti in un mistero impermeabile alle indagini; lo stesso
mistero che avvolge, non a caso, quasi tutte le stragi che hanno
insanguinato la storia del nostro paese.
A questo proposito
consentitemi, rivolgendomi soprattutto ai più giovani, di tracciare un
telegrafico sommario di alcuni aspetti che sembrano accomunare lo
stragismo degli anni 1992-1993 a quello dei decenni precedenti,
lasciando intravedere una inquietante linea di continuità storica.
Più
volte mi è accaduto di ripetere che non vi è alcun paese europeo la cui
storia nazionale sia stata contrassegnata da una sequenza così lunga e
quasi ininterrotta di stragi come quella che ha caratterizzato la storia
italiana del secondo dopoguerra.
L’atto di nascita della
Repubblica italiana è tenuto a battesimo da una strage: la strage di
Portella della Ginestra del 1 maggio 1947, che vede interagire alta
mafia e settori deviati delle istituzioni segnando l’inizio della
strategia della tensione.
Una strategia che da allora scandirà
tutta la successiva storia repubblicana interferendo pesantemente sulla
dialettica politica, sugli equilibri di potere nazionale, e che si
snoderà, oltre che in progetti di colpi di stato, nella sequenza delle
stragi di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, di Peteano del
31 maggio 1972, dell’Italicus del 4 agosto 1974, di piazza della Loggia a
Brescia del 28 maggio 1974, di Bologna del 2 agosto 1980, del rapido
904 del 23 ottobre 1984 e di molte altre ancora che tralascio per
ragioni di sintesi.
Una strategia della tensione che, come hanno
dimostrato vari processi e condanne definitive ha coinvolto in varie
occasioni i vertici della mafia, così come era già avvenuto in occasione
della strage di Portella delle Ginestre.
Si pensi, solo per
citare alcuni esempi, al coinvolgimento nel progetto di golpe Borghese
del 1970, al coinvolgimento nella preparazione di attentati dinamitardi
nel 1974, alla preparazione del progetto di colpo di stato nel 1979,
alla strage del rapido 904 per la quale è stato condannato all’ergastolo
Giuseppe Calò, testa di ponte a Roma della mafia per i rapporti con la
massoneria deviata e la destra eversiva.
Alla luce di questa
telegrafica retrospettiva storica, non è dunque forse un caso che lo
stragismo così come aveva segnato l’incipit della prima repubblica
tentando di interferire sul processo politico poco prima delle elezioni
politiche nazionali del 1948, il cui esito appariva imprevedibile dopo
la lunga parentesi del ventennio fascista, ne contrassegni negli anni
1992-1993 anche l’agonia finale in una fase storica nella quale il
disfacimento del vecchio quadro politico apriva una stagione di
transizione verso nuovi equilibri di potere, il cui futuro assetto
appariva allora di incerto esito e che, a secondo dei suoi sviluppi
nell’una o nell’altra direzione, rischiava di pregiudicare, se non
direzionato con atti di forza, rilevantissimi interessi e garanzie di
impunità che si erano fondati sugli equilibri di potere della prima
repubblica.
La vera storia dello stragismo italiano è rimasta in
larga misura nell’ombra a causa dell’impotenza della giurisdizione a
fare luce sulle occulte causali politiche delle stragi, sui mandanti
eccellenti, e, talora, persino sugli esecutori materiali.
Sono a tutt’oggi senza colpevoli, ad esempio, la strage di Piazza Fontana, la strage dei Brescia, la strage dell’Italicus.
Sappiamo anche quale sia stata una delle cause di questa singolare debacle della giurisdizione nell’ accertamento della verità.
Come
è stato accertato in tanti dei processi concernenti le stragi, le
indagini della magistratura sono state quasi sistematicamente depistate,
così come era già accaduto per la strage di Portella della Ginestra, da
esponenti di settori deviati delle istituzioni.
L’elenco dei
casi accertati è troppo noto e lungo per farne menzione. Vorrei solo
ricordare che sono stati condannati con sentenza definitiva per
depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, tre vertici del
Sismi e Licio Gelli, capo della loggia massonica P2.
Si tratta di
una realtà storica talmente evidente che in questi giorni la
Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, dalla quale sono stato
ascoltato il 25 giugno u.s., sta esaminando una proposta di legge
(proposta C. 559 Bolognesi) che prevede l’introduzione nel nostro codice
penale dell’art. 372 bis concernente il reato di depistaggio.
Ho
voluto anteporre questa telegrafica premessa storica, perché la strage
di via D’Amelio rischia di entrare nel triste novero delle stragi in
buona misura avvolte dal mistero per motivi che, per certi versi,
richiamano alla mente gli stessi motivi che hanno determinano
l’impotenza della giurisdizione ad accertare la verità nelle altre
stragi italiane che ho prima menzionato.
La strage del 19 luglio
1992 è infatti a tutt’oggi, nonostante la celebrazione di ben quattro
processi ed indagini durate quasi un quarto di secolo, un mosaico nel
quale mancano ancora troppe tessere determinanti perché sia possibile
ricostruire una immagine finale nitida ed univocamente leggibile.
A
tutt’oggi non sappiamo quale fu il motivo che determinò l’improvvisa
brusca accelerazione dell’esecuzione della strage che colse di sorpresa
persino molti capi di Cosa Nostra tenuti all’oscuro.
Una
accelerazione autolesionistica per gli interessi di Cosa Nostra, perché
l’esecuzione pochi giorni prima della scadenza del termine dell’ 8
agosto 1992 entro cui doveva essere convertito in legge il decreto
Falcone dell’8 giugno 1992 che aveva introdotto il regime detentivo
speciale del 41 bis ed altre incisive norme antimafia, determinò – come
era chiaramente prevedibile – il subitaneo sblocco ed il superamento di
tutte le resistenze dell’ampio e trasversale fronte parlamentare
garantista sino ad allora contrario alla conversione in legge di norme
ritenute lesive di diritti fondamentali.
Quali interessi superiori rispetto a quelli di Cosa Nostra imposero l’anticipazione autolesionistica della strage?
Quale
era l’urgenza suprema non rinviabile per cui non si poteva attendere
per l’esecuzione della strage neppure il decorso di quei 20 giorni che
mancavano alla fatidica data dell’8 agosto, giorno di scadenza della
conversione del decreto legge?
Cosa si temeva che Paolo potesse fare di tanto grave, di tanto irreparabile, in quei 20 giorni?
Forse
mettere finalmente a verbale dinanzi alla Procura di Caltanissetta,
dove da mesi insisteva per essere sentito, o formalizzare in
interrogatori della Procura di Palermo, quel che aveva appreso sul
“gioco grande” sotteso alla strage di Capaci e a quelle in fieri,
all’interno di un complesso progetto politico stragista che – così come
era avvenuto in passato per altre stragi – vedeva ancora una volta
interagire la mafia con altre entità esterne?
Brandelli di verità
che aveva appreso in quegli ultimi mesi della sua vita, spesi nella
frenetica ricerca di chiavi di lettura per comprendere quanto era
accaduto e quanto si preparava ad accadere, anche grazie alle
rivelazioni di varie fonti tra le quali anche taluni collaboratori di
giustizia. Fonti quali, ad esempio, il collaboratore di giustizia
Leonardo Messina, il quale sentito nel processo per la strage di via
D’Amelio ha ammesso di avere anticipato a Paolo Borsellino – ma solo
riservatamente, per timore della propria vita – quanto egli sapeva sul
progetto macro politico stragista elaborato da intelligenze esterne e
discusso dai massimi vertici regionali di Cosa Nostra riuniti in
conclave segreto nella provincia di Enna, progetto rimasto poi celato
alla manovalanza mafiosa e persino a molti vertici della Commissione
provinciale di Palermo.
Quali che fossero le notizie apprese,
doveva comunque trattarsi di rivelazioni che lo avevano lasciato
sgomento, quasi avesse assunto consapevolezza di doversi misurare con un
potere così grande da travalicare quello mafioso e dinanzi al quale non
aveva difese.
Tanto sgomento da indurlo a confidare alla moglie che
sarebbe stata la mafia ad ucciderlo ma solo quando altri lo avrebbero
voluto.
Chi erano questi altri? Forse le tracce per individuarli
erano annotate in quella agenda rossa dalla quale Paolo mai si separava e
che custodiva gelosamente.
Ma questo è solo uno dei tanti tasselli mancanti del mosaico.
A
tutt’oggi non sappiamo chi fu l’artificiere della strage, il soggetto
cioè dotato delle sofisticate competenze tecniche necessarie per mettere
a punto il congegno esplosivo e garantire la riuscita dell’operazione.
Ed
ancora non sappiamo chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come
ha dichiarato il collaboratore Gaspare Spatuzza, sovraintendeva alle
operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’ autovettura poi collocata
in via D’Amelio.
Ed ancora non sappiamo a chi si riferisse Francesca
Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Mario Santo Di
Matteo, quando disperata per il rapimento del loro figlio Giuseppe
avvenuto il 23 novembre 1993, scongiurò il marito di non parlare ai
magistrati degli infiltrati della Polizia implicati nella strage di via
D’Amelio, come risulta da una intercettazione ambientale del colloquio
tra i due coniugi del 14 dicembre 1993 agli atti del processo per la
strage di via D’Amelio.
Potrei continuare con un lungo elenco di altre tessere ancora mancanti.
Sono
dunque tanti i fatti rilevanti che non conosciamo e che sembrano
chiamare in causa livelli di coinvolgimento nella esecuzione della
strage che travalicano quello mafioso.
Livelli superiori che
vengono evocati anche da altri fatti che invece conosciamo, pure ancora
avvolti nell’ombra, e che dimostrano come le indagini sulla strage
abbiano subito gravi interferenze esterne volte ad impedire il pieno
accertamento della verità, replicando così quanto era già avvenuto in
passato in quasi tutte le indagini relative alle stragi italiane, come
ho prima ho ricordato.
Mi riferisco alla sottrazione dell’agenda
rossa di Paolo e all’introduzione nel processo per la strage di via
D’Amelio di falsi collaboratori di giustizia (Vincenzo Scarantino ed
altri), che tutto ignoravano della strage, e che furono indottrinati per
dire il falso ingannando i magistrati.
Se le considerazioni sin
qui svolte hanno almeno in parte un fondamento, possiamo dunque
concludere che a distanza di 22 anni dalla strage di via D’ Amelio, non
sappiamo ancora che storia raccontare a noi stessi e ai nostri figli.
Siamo privi della verità o di parti essenziali di essa. La privazione
della verità non è solo un vulnus alla giustizia, perché non consente di
accertare le responsabilità penali ed irrogare le giuste pene. Vi è un
danno ancora più grande, se possibile. La privazione della verità non
consente di elaborare il lutto per la perdita subita, non consente di
acquietarsi consegnando questa ed altre vicende ad un passato tragico ma
ormai concluso. La privazione della verità non consente alle ferite di
chiudersi. La strage di via D’Amelio resta ancora una ferita aperta per
l’intera nazione e rischia di divenire l’ennesima sconfitta di un paese
che dinanzi all’ininterrotto stragismo che ha insanguinato la sua
storia, si è sino ad oggi rivelato incapace di fare i conti con i lati
oscuri del proprio passato.
Un passato che, quindi, sembra
destinato ad essere rimosso nell’oblio, oppure ad essere coperto sotto
il sudario di una retorica commemorativa secondo cui gli unici
responsabili del male di mafia sono sempre e solo stati i macellai di
Cosa Nostra.
A differenza di tante altre lapidi commemorative
delle vittime delle mafia che recano frasi celebrative, la lapide posta
in via D’Amelio reca solo i nomi di battesimo di Paolo, Agostino,
Claudio, Emanuela, Vincenzo, Walter. Null’altro. Come se quella lapide
ricordasse a tutti noi che ancora attendiamo di sapere quali siano le
parole giuste da scrivere e quale fu la storia che quel terribile 19
luglio 1992 trascinò nel suo gorgo malefico le loro vite.
(21 luglio 2014)
Rete per l'Autorganizzazione Popolare - http://campagnano-rap.blogspot.it
Pagine
- Home
- L'associazione - lo Statuto
- Chicche di R@P
- Campagnano info, news e proposte
- Video Consigliati
- Autoproduzione
- TRASHWARE
- Discariche & Rifiuti
- Acqua & Arsenico
- Canapa Sativa
- Raspberry pi
- Beni comuni
- post originali
- @lternative
- e-book streaming
- Economia-Finanza
- R@P-SCEC
- il 68 e il 77
- Acqua
- Decrescita Felice
- ICT
- ECDL
- Download
- हृदय योग सारस
lunedì 21 luglio 2014
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento