martedì 22 luglio 2014

Giustizia. Caso Uva, sei anni di mala giustizia.

Rinvio a giudizio. Se finalmente si è tornati ad uno stato di diritto lo si deve alle tenacia e alla intelligenza di Lucia e della famiglia Uva.

Il Manifesto Luigi Manconi, Valentina Calderone 
Sono pas­sati oltre sei anni da quel 14 giu­gno 2008 in cui, sor­preso a spo­stare delle tran­senne in mezzo a una strada, Giu­seppe Uva veniva con­dotto in una caserma dei cara­bi­nieri di Varese. Poche ore dopo sarebbe morto nel reparto psi­chia­trico dell’ospedale cit­ta­dino. Quanto suc­cesso in que­sti lun­ghi anni è l’esempio più lam­pante di come la giu­sti­zia, in uno stato di diritto, non dovrebbe fun­zio­nare: spre­gio per le insop­pri­mi­bili garan­zie di chi si trovi pri­vato della libertà, stig­ma­tiz­za­zione della vit­tima e del suo stile di vita, sot­to­va­lu­ta­zione delle cir­co­stanze di fatto a esclu­sivo van­tag­gio di un pre­giu­di­zio di intan­gi­bi­lità per uomini e appa­rati dello Stato. Per sei anni, non uno solo dei cara­bi­nieri e poli­ziotti che quella notte chiu­sero Uva in una stanza, è stato inda­gato; e solo nell’autunno scorso, il testi­mone ocu­lare, Alberto Big­gio­gero, è stato ascol­tato dalla Pro­cura.


In que­sti anni e in ben sei tra sen­tenze e ordi­nanze, altret­tanti giu­dici cen­su­ra­rono il com­por­ta­mento pro­ces­suale del pub­blico mini­stero Ago­stino Abate: «È un diritto della fami­glia e della col­let­ti­vità intera» sapere cosa suc­cesse all’interno di quella caserma. Per­ché Giu­seppe Uva è stato trat­te­nuto senza un ver­bale di fermo? Per­ché il suo corpo era pieno di ferite e di lesioni? Per­ché, se cara­bi­nieri e poli­ziotti sosten­gono che Uva si sia fatto male da solo, non è stata chia­mata imme­dia­ta­mente l’ambulanza? Troppe domande cui per un tempo infi­nito è stata negata una rispo­sta. Il fasci­colo in mano al Pm Abate è stato trat­tato come una pro­prietà per­so­nale: insulti alla fami­glia nel corso delle udienze, inter­ro­ga­tori ai testi­moni con moda­lità a dir poco discu­ti­bili, asso­luto pre­giu­di­zio d’innocenza nei con­fronti dei poli­ziotti e cara­bi­nieri coin­volti.
Ma quei com­por­ta­menti, sia pure tar­di­va­mente, sono stati oggetto di inda­gine da parte del mini­stero della Giu­sti­zia e della Pro­cura gene­rale presso la Cas­sa­zione e hanno por­tato a due pro­ce­di­menti disci­pli­nari presso il Csm per, tra l’altro, «con­dotta ingiu­sti­fi­ca­ta­mente aggres­siva e inti­mi­da­to­ria» e «vio­la­zione dei diritti umani». Dopo­di­ché, anche il tri­bu­nale di Varese ha dovuto pren­dere prov­ve­di­menti e il fasci­colo è stato final­mente rias­se­gnato. I capi di accusa sono stati rifor­mu­lati dal pm Felice Isnardi, ma poi quest’ultimo — nell’udienza del 9 giu­gno scorso — ha chie­sto sor­pren­den­te­mente il non luogo a pro­ce­dere per tutti gli inda­gati.
Che all’interno del Tri­bu­nale di Varese suc­ce­dano fatti sin­go­lari è ormai cosa nota, ma ciò che conta adesso è che final­mente un giu­dice – quello dell’udienza pre­li­mi­nare, Ste­fano Sala – abbia deciso. E la sua deci­sione di rin­viare a giu­di­zio il cara­bi­niere (il secondo mili­tare ha fatto richie­sta di rito imme­diato) e i sei poli­ziotti era l’unica pos­si­bile, con­si­de­rati gli ele­menti di fatto che ha potuto valu­tare. Il 20 otto­bre in Corte d’Assise ini­zia il vero pro­cesso per la morte di Giu­seppe Uva. E se si è arri­vati a que­sto lo si deve in primo luogo alla volontà tenace e intel­li­gente di Lucia e dei fami­liari di Giu­seppe Uva, in una città che a lungo è rima­sta, se non ostile, lar­ga­mente sorda.

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