sabato 4 gennaio 2014

Una riflessione su politici e politicanti.

La politica contemporanea appare sempre più dominata dalle strategie del marketing. È bene tuttavia non lasciarsi andare a previsioni apocalittiche: tutti i grandi politici sono stati in qualche modo grandi “piazzisti”. Il punto è che non erano solo quello. E allora: come possiamo distinguere la forma dalla sostanza?



micromega di Emilio Carnevali
Che con i “se” e i “ma” non si faccia la storia può essere, a seconda della cornice di una discussione o del sottotesto di un'allusione, sia una scontata ovvietà che una ingannevole e totale falsità: è il caso, quest'ultimo, di quelle frettolose e disincantate stroncature del discorso in omaggio a un certo storicismo deteriore. Uno storicismo – talvolta accompagnato dal sorriso sardonico dell'osservatore che «la sa lunga» – in cui trovano spazio solo grandiosi scenari e ineluttabili processi, e di fronte al quale l'arbitrarietà del caso, la volontà dei singoli individui, l'“eccedenza” della circostanza frivola, risulterebbero in qualche modo annichiliti.

Seguendo con grande passione la politica americana mi è capitato a volte di pensare a cosa sarebbe successo se Barack Obama non fosse riuscito a ribaltare le sorti degli ultimi due duelli televisivi con Mitt Romney dopo la prima, rovinosa sconfitta nel primo incontro di Denver.

Obama andò a rinchiudersi nel Kigsmill Resort di Williamsburg, in Virginia, con uno sparring partner d'eccezione che doveva simulare le “aggressioni” del suo avversario repubblicano: l'attuale segretario di Stato – ed ex candidato democratico alle presidenziali del 2004 – John Kerry. Con l'aiuto del suo staff Obama attinse a tutte le tecniche, i trucchi, le astuzie, il repertorio di “colpi bassi” che costituiscono l'addestramento standard per i dibattiti televisivi: doveva aver accumulato un bel po' di ruggine – era l'unanime parere degli esperti – per incorrere in errori da principiante come quelli commessi nel primo round, quando fu pizzicato ad abbassare ripetutamente lo sguardo di fronte ad attacchi particolarmente incalzanti, o si trovò ad indugiare con lo sguardo nel vuoto anziché puntare dritto agli occhi il suo brillante rivale.

I preoccupatissimi sostenitori del presidente capirono che ce l'avrebbe davvero fatta nel momento in cui, durante il terzo incontro, Romney lo accusò di aver fatto talmente tanti tagli alla difesa che la marina statunitense si era ridotta ad avere «meno navi di quante ne avesse nel 1917». La risposta di Obama fu folgorante: «Penso che il governatore Romney non abbia dedicato abbastanza attenzione a come funzionano le nostre forze armate... Bene, governatore: abbiamo anche meno cavalli e baionette perché la natura del nostro esercito è cambiata». Anche il pubblico presente, ingabbiato dentro severissime direttive disciplinari, non riuscì a trattenere le risate. Il generoso Romney era andato al tappeto e da lì non si sarebbe più rialzato.

Dunque i destini della maggiore superpotenza del pianeta sono stati decisi da alcuni episodi all'interno di un duello verbale che ben poco potrà mai dirci delle reali doti politiche – e figuriamoci di quelle “morali” – di un candidato? Se affrontata senza esagerazioni, e senza unilateralismi, la domanda è meno oziosa di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Rimanda infatti ad un tema al tempo stesso intrigante ed inquietante all'interno della più generale riflessione sulla democrazia: oggi lo definiremmo “marketing”, ma non è nulla di nuovo da ciò che una volta veniva chiamato retorica o sofistica o arte della persuasione.

La tradizione politica “progressista” ha da sempre coltivato una certa diffidenza verso questo tipo di tecniche. È una ritrosia sospinta da un nobilissimo pregiudizio di matrice illuminista, secondo il quale andrebbero banditi dalla sfera pubblica moderna quegli strumenti di manipolazione delle coscienze che fanno leva più sulle suggestioni emotive e irrazionali che sulla linearità dell'argomentazione logica.

Eppure la retorica è sorella della democrazia, tanto è vero che nasce insieme ad essa. È fra il V e il IV secolo avanti Cristo, nel periodo più florido della potenza ateniese seguito alla vittoria sui persiani, che si rende necessaria un'arte capace di far ottenere il successo all'interno di un ordinamento democratico. Gli imperatori, i re, i dittatori – almeno nel tempo antico – non avevano bisogno di essere buoni oratori: gli bastava essere buoni comandanti militari, o anche solo buoni “custodi” del sangue della propria stirpe.

Nel Teeteto di Platone, il sofista Protagora (parlando per bocca di Socrate) dice che «i sapienti e buoni retori fanno sì che alle città appaia giusto il bene anziché il male». E per fare questo devono possedere un'abilità, una competenza specialistica, come quella padroneggiata dal medico rispetto ai corpi o dall'agricoltore rispetto alle piante.
Ecco perché la retorica non è un feticcio da esorcizzare, ma un fatto della politica democratica con cui fare i conti serenamente, senza reazioni di preventivo rigetto.

Facendo un volo di duemilacinquecento anni dall'antica Grecia ad oggi, c'è un testo un po' “irregolare” che contiene tuttavia una riflessione estremamente penetrante ed acuta su questi stessi argomenti. Lo ha pubblicato la rivista americana Rolling Stone nel 2000: Forza, Simba (ora nella raccolta di saggi Considera l'aragosta, Einaudi).

In occasione delle primarie del partito repubblicano lo scrittore David Foster Wallace venne spedito a seguire una settimana di campagna elettorale di John McCain, il candidato che contese a George W. Bush la nomination per sfidare il democratico Al Gore alla successione di Bill Clinton.
McCain era l'outsider, il politico “antiapparato”, si potrebbe dire in omaggio a categorie familiari anche qui da noi. Era inoltre un uomo che suscitava un istintivo senso di simpatia e fiducia nella base repubblicana in virtù della sua storia personale: fatto prigioniero in Vietnam nel 1968, si rifiutò di essere liberato quando i nord vietnamiti volevano farlo in seguito alla nomina del padre a capo di tutte le forze navali del pacifico (e nell'ambito di più complesse trattative diplomatiche fra i due fronti): benché quasi agonizzante, McCain non volle venir meno al codice di condotta dell'esercito, secondo il quale i rilasci dei prigionieri devono avvenire nell'ordine di cattura. E così si fece altri quattro anni di “cella punitiva”.

Da quella settimana di campagna elettorale David Foster Wallace ricavò un racconto vivido, coinvolgente e terrorizzante, perennemente sospeso fra curiosità e diffidenza, attraversato dall'ansiosa ricerca di una possibilità di conciliazione fra “umanità” e “politica”, fra “scaltrezza” e “rispettabilità” (una cronaca – sia detto per inciso, perché è un particolare del tutto irrilevante – scritta da un elettore democratico, quale era appunto DFW).

Cosa rimane della spinta ideale anche del migliore fra gli uomini, quando questi è esposto ai riflettori delle telecamere e delle macchine fotografiche 14 ore al giorno, tutti i giorni della settimana? Quando le stesse frasi, le stesse battute, le stesse espressioni di vergogna, o indignazione, o rabbia, sono recitate sempre uguali a se stesse, in modo del tutto meccanico, dentro un serratissimo discorso di 22 minuti e mezzo che i giornalisti al seguito hanno ormai imparato tutti a memoria? Cosa rimane della genuinità di un impegno politico quando ogni volta che si apre bocca si deve calibrare perfettamente l'impatto che le proprie parole avranno sui media, su vari segmenti dell'elettorato, sulle complesse dinamiche di posizionamento e riposizionamento dei diversi candidati?

Ma sarebbe un'errore pensare che siamo di fronte a una rivoluzione recente: «Tutti i politici vendono qualcosa, lo hanno sempre fatto», scrive giustamente DFW. «Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy e Martin Luther King e Gandhi sono stati grandi piazzisti». Il punto è che «non erano solo quello. E la gente lo sentiva. Avevano quel qualcosa in più». Come qualcosa in più aveva Nelson Mandela, per riprendere un altro gigante del Novecento del quale abbiamo assistito alla scomparsa solo recentemente. Una domanda sorge quasi da sé dopo questi esempi: potranno ancora esistere persone del genere, figure in grado di incarnare con i loro atti e le loro parole le speranze di un intero popolo? Ma anche senza voler scomodare paragoni troppo impegnativi, come possiamo distinguere un buon politico da un volgare politicante? Come possiamo riconoscere quel “qualcosa in più” che differenzia il primo dal secondo, che separa una grande ambizione dal semplice amore per le folle, dal puro compiacimento per le proprie parole e la propria immagine riflessa negli occhi altrui? Come riuscire a scorgere la “verità” contenuta nell'involucro ben confezionato da astutissimi (e ben retribuiti) professionisti del settore?

DFW arrivò alla conclusione che quella verità non si scoprirà mai: «Piazzista o leader o tutte e due le cose o nessuna che sia, il paradosso finale – quello più minuscolo e centrale, perso nella profondità remote di tutte le altre scatole e riquadri rotanti che formano il puzzle della campagna elettorale e rivestono McCain – è che il fatto che lui sia davvero 'reale' dipende meno da ciò che c'è nel suo cuore che da ciò che c'è nel vostro».

Un grande leader è sempre lo strumento di qualcosa che lo trascende. Deve essere un “ariete” e un vessillo, oltre che un tattico e uno stratega. Deve dare gambe, braccia, voce e testa a delle idee, ad un progetto di cambiamento, ad una mobilitazione collettiva. E deve essere bravo a fare tutto ciò. Non deve fare meno di questo, ma non può fare di più. Non può estirpare quel grumo di sfiducia e sospetto che è ben radicato negli assuefatti della civiltà dell'immagine. Cioè in elettori/consumatori ben consapevoli di quanto possa essere ingannevole il luccichio tipico delle merci che occhieggiano dagli scaffali del supermercato. Ed in fondo potrebbe essere un bene che questa diffidenza sia ormai così diffusa, perché è dalla sua totale mancanza che nasce il pericoloso germe del fanatismo.
Sta a noi, tuttavia, non crogiolarci dentro il disincanto fino a pensare che non possa mai esserci nulla di più che brama di potere dietro l'appello ad una speranza. Quella speranza è anche e sopratutto nostra. Non lasciamocela portare via.

P.S. Nel corso delle primarie repubblicane del 2000 John McCain insisteva molto sul fatto che lui, in quanto candidato antiestablishment, diversamente da Bush non accettava Bundled moneySoft money (finanziamenti privati a pioggia che aggirano – ai limiti della legalità – i limiti della Federal Election Commission). Qui da noi più i politici si dichiarano antiestablishment (da Grillo fino a Renzi, cioè fino a colui del quale questo articolo ha preso indirettamente le difese rispetto ad alcune accuse superficiali che gli vengono mosse), più si dichiarano antiestablishment – si diceva – e più tuonano contro i finanziamenti pubblici ai partiti e a favore di quelli privati. Cioè a favore di una sfera pubblica dove la retorica democratica, come avviene negli Usa, è tanto più efficace quanti più sono i milioni di dollari che i candidati riescono ad attirare dai grandi poteri economici e finanziari. Strani paradossi del nostro strano paese.

(3 gennaio 2013)

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