giovedì 9 gennaio 2014

Quel silenzio nella sala docenti.

Quando mi capita d’essere invi­tato a par­lare di scuola in qual­che luogo più o meno poli­tico, ormai sono quasi in imba­razzo. E non credo sia una que­stione solo sco­la­stica. C’è di più. C’è un cam­bia­mento radi­cale di para­digma riguardo la società e il lavoro, che spiazza. Inten­dia­moci, la scuola la si può sem­pre rac­con­tare. E – almeno a me, pro­gram­ma­ti­ca­mente otti­mi­sta fino quasi all’imbecillità – viene sem­pre fuori un rac­conto tutto som­mato bello.

ilmanifesto.it Andrea Bagni
Non si può inse­gnare qual­cosa a qual­cuno se non si ha un po’ fidu­cia in lui o in lei. A me sem­bra che suc­ce­dano ancora nelle classi delle cose intense e impor­tanti. Rela­zioni signi­fi­ca­tive e anche affet­tive pur nella asim­me­tria. Sco­perte, pic­cole lam­pa­dine che si accen­dono. Micro­sa­pere che ha den­tro il senso della grande conoscenza.
Però mi sem­bra che dal rac­conto non venga più fuori un discorso poli­tico. Soprat­tutto non viene di “poli­tica sco­la­stica”. Vive un’idea di sapere e di poli­tica mille miglia lon­tana dalle pra­ti­che e dal discorso pub­blico che attra­versa il pre­sente. Non è solo una que­stione di scuola. È che pro­prio quella poli­ti­cità delle rela­zioni rav­vi­ci­nate sem­bra una dimen­sione let­te­ra­ria o eso­tica, ricac­ciata indie­tro dal bara­tro che ha sepa­rato la città isti­tu­zio­nale dalla società. E la società da se stessa. Per­ché non si tratta solo della crisi di Bisan­zio, chiusa den­tro le sue mura, pure in via di crollo. La cri­tica del potere pensa se stessa in una forma del tutto nuova. Come una tota­lità con­tro un’altra tota­lità. Tipo lo Stato e la volontà gene­rale del Popolo, tutto con la maiu­scola. Da una parte il vec­chio ceto poli­tico, castale, pri­vi­le­giato; dall’altra i cit­ta­dini comuni, i sin­daci delle città, gli impren­di­tori corag­giosi. Gli spi­riti ani­mali della società civile. Nuovi lea­der, ma che si sono fatti altrove dalla poli­tica, per cui Firenze sta a Renzi come il Milan a Ber­lu­sconi, la rete a Grillo. Loro biglietto da visita. L’azienda vin­cente che hanno creato dal nulla.

Il modello com­mer­ciale è la dimen­sione vitale che ci è con­cessa. Il resto è acca­de­mia o poli­tica. I tre­dici minuti di Ettore Serra alla Leo­polda sono stati illu­mi­nanti. Da una parte il Bene: i gio­vani impren­di­tori intra­pren­denti costretti all’esilio, dall’altra il Male: la poli­tica, i pen­sio­nati, il pub­blico impiego. Insomma i garan­titi dallo stato, i pro­tetti dai con­tratti nazio­nali. I paras­siti con­tro i meri­te­voli, uomini del fare.
Una delle parole fon­da­men­tali infatti è meri­to­cra­zia. L’uguaglianza diventa ideo­lo­gico egua­li­ta­ri­smo, non il pre­re­qui­sito (anche libe­rale) del merito, senza il quale resta l’ élite chiusa degli ari­stoi : i migliori per nascita – socio­lo­gica se non di san­gue. Chi è cre­sciuto nelle peri­fe­rie dell’esistenza e non ha mai visto in casa un libro, non ha molte chance di com­pe­tere con i “meritevoli”.
Alla fine la sem­pli­fi­ca­zione che ride­fi­ni­sce il con­flitto come il sotto con­tro il sopra fun­ziona alla grande. Per­mette di dare voce alla rab­bia e anche avan­zare una nuova spe­ranza – magari nella forma «pro­viamo anche con Renzi, è diverso e vin­cente, basta per­dere». Peral­tro, “man­dia­moli tutti a casa” è l’altra espres­sione chiave.
Anche nelle vicende che hanno carat­te­riz­zato il “movi­mento del 9 dicem­bre”, quello detto dei for­coni, è pos­si­bile leg­gere lo stesso segno. Noi siamo gli Ita­liani. Tutti. Voi siete i poli­tici, quelli di Equi­ta­lia. Siamo non i poveri o gli sfrut­tati ma gli impo­ve­riti. Quelli che erano e non sono più. Immi­se­riti dallo Stato nazio­nale tra­di­tore della nazione. Le tasse, che erano state lo stru­mento per otte­nere la rap­pre­sen­tanza poli­tica, ora nella crisi della rap­pre­sen­tanza tor­nano a essere il nemico mostruoso.
La sini­stra mi pare abbia rea­gito al movi­mento con gli anti­chi schemi: un’insorgenza sociale, legit­tima e per­fino pre­ziosa, ma pre-politica, che aspetta le venga spie­gato l’insieme del piano del capi­tale o della finanza sovra­na­zio­nale. Fare poli­tica come peda­go­gia. A me sem­bra, invece, più che l’espressione di qual­cosa di pre-politico la mani­fe­sta­zione di un atteg­gia­mento post-politico. Figlio di que­sta destrut­tu­ra­zione: delle sog­get­ti­vità, dei corpi inter­medi e dei lin­guaggi, sem­pli­fi­ca­zione del con­flitto. Ridu­zione a due del mondo, e in chiave molto maschile. Uno scon­tro di folle e caste che can­cella le rela­zioni concrete.
Tutto que­sto c’entra in qual­che modo con il senso di spae­sa­mento che con­nota le scuole. Intanto è biz­zarro che dopo aver pas­sato anni a pole­miz­zare con la ridu­zione dell’insegnamento a pre­sta­zione impie­ga­ti­zia, si fini­sca per essere col­lo­cati in quanto impie­gati pub­blici nella cate­go­ria dei pri­vi­le­giati. Una cor­po­ra­zione di illi­cen­zia­bili impro­dut­tivi, ancora un po’ malati di cul­tura del Ses­san­totto — che resta il grande nemico di que­sta nuova poli­tica, nell’epoca della fine della polis . Nes­suno nelle scuole prova più a difen­dere le con­di­zioni di lavoro o gli sti­pendi. Il blocco dei con­tratti è pas­sato susci­tando al mas­simo mugu­gni. Abbiamo inte­rio­riz­zato che nella crisi è già molto averlo un impiego. Un pri­vi­le­gio. Ma è tutto il lavoro che ha cam­biato sta­tuto. In tanta meri­to­cra­zia, è come se fosse scom­parso il merito del lavoro, cioè la sua fun­zione per la col­let­ti­vità, il carat­tere se non arti­gia­nale comun­que legato alle per­sone e alla crea­ti­vità. Il mondo di rela­zioni che vi si costruisce.
Chiaro quindi che per chi inse­gna si metta male. Se lavo­rare nello spa­zio pub­blico (vedi anche la sanità) non signi­fica costruire cit­ta­di­nanza, rela­zioni di atten­zione e di cura con le per­sone, sapere — allora dalla scena scom­pa­iono bam­bine e bam­bini, ragazze e ragazzi, e si accam­pano ammi­ni­stra­zione sta­tale e sin­da­cati, pro­to­colli e Invalsi. Una mega­mac­china di impie­gati sta­tali. Tri­sti. Fuori poi non è facile tro­vare come un tempo il “mondo del lavoro” cui col­le­garsi. Niente lotta di classe, solo il mas­sa­cro di una classe sull’altra – che ha per­duto da un pezzo, da quando è andata distrutta la sua iden­tità. Classe in sé ma non per sé. Non più sog­getto poli­tico, solo fat­tore fra gli altri della pro­du­zione, ingra­nag­gio qua­lun­que, domi­nato dalla legge della domanda e dell’offerta.
Negri e Hart ave­vano festeg­giato la mol­ti­tu­dine in arrivo, invece è arri­vata la fran­tu­ma­glia del grande libro di Elena Fer­rante. Buona al mas­simo per il vaffanculo.
Capi­sco le col­le­ghe e i col­le­ghi silenti che appena sfo­gliano il gior­nale al bar. Che altro si può fare? Un po’ si pro­teg­gono. Forse pro­teg­gono anche la scuola, il rap­porto con le ragazze e i ragazzi. È già qual­cosa non man­dare il mes­sag­gio deva­stante che tutto è merce, o lo sarà. Che si tratta di attrez­zarsi per la com­pe­ti­zione nella giun­gla di indi­vi­dua­li­smi vari che aspetta fuori. Che tutta la didat­tica è bene si modelli sulle prove ogget­tive e sulla som­mi­ni­stra­zione di test, per­ché solo ciò che è ogget­ti­va­mente rile­va­bile è rile­vante. Il resto è poesia.
E però mi sa che non basterà preservarsi.
Rischia di suc­ce­derci come al per­so­nag­gio inna­mo­rato dei libri di un grande epi­so­dio di “Ai con­fini della realtà”. Quando esce dalla nic­chia in cui si è sal­vato dal disa­stro trova il mondo distrutto e un sacco di libri sparsi dap­per­tutto. Ma gli occhiali per leg­gerli li ha inav­ver­ti­ta­mente schiac­ciati con un gesto disattento.

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