Sulla cura della casa comune è il sottotitolo dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, un documento che l’associazione di cui faccio parte ha adottato come testo di riferimento fondamentale, assumendone anche il nome.
comune-info.net Guido Viale
La casa comune è la Terra, il nostro pianeta, l’insieme di tutto ciò che vive, i monti, i fiumi, il mare; ma anche il cielo che è l’immagine di un universo infinito che ci si presenta come firmamento e che, come tale, ha ispirato tutto il pensiero e i sentimenti che in vario modo hanno cercato di “trascendere” le vicende che si svolgono sulla superficie del globo. Ma sono casa comune anche le città, le strade, i porti e gli aeroporti e l’infinita serie di manufatti che riempiono la nostra vita quotidiana, comprese tutte le forme di inquinamento che ci avvelenano. La casa comune è fatta di persone e di cose tra loro indissolubilmente connesse come tutto ciò che fa parte del nostro mondo e questo intreccio lega indissolubilmente la giustizia sociale, cioè la lotta per ridurre o eliminare le mostruose diseguaglianze che separano tra loro gli esseri umani, e la giustizia ambientale: il rispetto per le condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita, degli ecosistemi, di tutte le specie di cui l’evoluzione ha dotato il pianeta.
Se i poveri della Terra sono le persone più colpite dal degrado dei territori che abitano e dell’ambiente in cui vivono, sono loro, anche, coloro che sono più interessati a risanarli, a tutelarli, a farli rivivere; e a operare per rendere compatibile e feconda la vita di entrambi.
La cura di cui parla l’enciclica è la manutenzione: delle persone, di tutto il vivente e di tutte le “cose”. Manutenzione innanzitutto delle relazioni tra gli esseri umani; quelle sui cui si fonda la vita di una comunità, per evitare che le persone vengano trasformate in “scarti” quando non servono più.
Ma manutenzione anche dei territori, degli ambienti e delle cose; anche di quelle che non ci piacciono o non ci servono più e di cui vorremmo sbarazzarci, ma di cui dobbiamo invece farci carico comunque, per impedire che continuino a danneggiare la vita.
Dall’operaio all’artigiano manutentore
Il più delle volte manutenzione vuol dire aggiustare, riparare, migliorare: sia un territorio che dei manufatti e delle apparecchiature. Il lavoro di chi è addetto a riparare non è un’attività seriale: ogni oggetto che gli si presenta di fronte è diverso dall’altro.
Per fare il suo mestiere l’artigiano riparatore deve sviluppare tre doti: la prima è una conoscenza tecnica acquisita in processi di istruzione formale o per affiancamento; la seconda è una forte “manualità”: saper mettere le mani dentro gli oggetti che ripara; la terza è un’attenzione, che a volte sconfina con l’amore, per l’oggetto di questa sua attività. Il tutto finalizzato a prolungare la vita delle cose a cui si applica, a dare loro una “seconda vita”, a consentirne il riuso secondo i principi dell’economia circolare, che non esclude innovazione e miglioramento, ma subordina entrambi alla salvaguardia del contesto. Tutte e tre quelle caratteristiche differenziano profondamente l’artigiano manutentore dall’operaio dell’era fordista impegnato alla catena di montaggio in un’attività seriale senza intelligenza, senza passione, senza abilità tecniche; ma anche dall’“uomo flessibile” dell’epoca post-fordista (come altro chiamarla?), totalmente deresponsabilizzato nei confronti di un lavoro precario, in un continuo cambiamento del “posto di lavoro”; ed entrambi impegnati a produrre o generare scarti lungo il percorso del loro prodotto, nel contesto di economia lineare che saccheggia le risorse dell’ambiente per restituirgliele sotto forma di rifiuti. Per questo l’artigiano manutentore è il paradigma di una nuova “civiltà”, di un nuovo modo di rapportarsi con il mondo.
Quelle caratteristiche, che è facile rilevare nell’attività dell’artigiano riparatore – anche se pochi vi prestano attenzione – sono le stesse che dovrebbero presiedere alla manutenzione delle relazioni; anch’essa richiede conoscenza, studio del contesto, visione, basi di ogni vera politica; poi buone pratiche, frequentazione effettiva delle persone, soprattutto di quelle diverse da noi, che mettono alla prova la nostra capacità di comprenderle e relazionarci con loro; infine attenzione (se non amore) per la vicenda umana di ciascuno: ognuna diversa da tutte le altre, tanto da richiedere ogni volta di cambiare il nostro modo di rapportarci con loro.
Manutenzione delle cose, e di un territorio, e manutenzione delle relazioni tra le persone si rafforzano reciprocamente: una comunità si costituisce solo in un rapporto aperto e non esclusivo con un territorio dato, con il suo patrimonio di risorse naturali e di lasciti storici, sia fisici (monumenti e opere d’arte) che immateriali, cultura e tradizioni. Ma ogni territorio rinasce e si riqualifica solo se una comunità – non il singolo individuo, e nemmeno un’impresa o un gruppo di imprese a scopo di lucro – lo prende in carico, ne fa la condizione della propria costituzione.
Bene comune beni comuni non sono la stessa cosa
La casa comune è un bene comune – anzi, un insieme di beni comuni – che non appartiene a nessuno e di cui ciascuno ha ricevuto in prestito una parte, grande o piccola, o anche minima, che dovrà comunque restituire in buone condizioni, o possibilmente migliorata, alla “generazione futura”.
“Bene comune” – al singolare e con la maiuscola – e beni comuni non sono la stessa cosa. Il primo è un concetto etico di cui ciascuno dà una interpretazione in base ai suoi principi; il secondo è un concetto giuridico, se regolato da una norma, o politico, se reso operativo dall’iniziativa di un raggruppamento sociale più o meno ampio. Il primo rimanda alla ricerca di un’armonia di cui si presuppone la realizzabilità; il secondo rimanda al conflitto per impedire l’appropriazione privata – o anche pubblica, nel senso di statuale – di una risorsa, o per rivendicarne la condivisione.
Senza conflitto non possono esserci beni comuni: nessuno, secoli fa, pensava che l’acqua, o l’aria, o il cielo, potessero essere contesi; oggi di fronte al tentativo di appropriarsene (privatizzando l’acqua, mettendo sul mercato il diritto di inquinare l’aria, o occupando un’orbita terrestre con un satellite), il conflitto contro queste pratiche le trasforma in beni comuni. Tutto ciò fa sì che il confine tra i beni comuni e quelli che non lo sono ancora, o non lo sono più, sia mobile e non possa essere fissato una volta per sempre.
La cura della casa comune ci porta anche a rivedere la gerarchia che la cultura dominante ha stabilito – da parecchi secoli a questa parte; sicuramente dall’avvento della modernità, ovvero dalla nascita del capitalismo – tra lavoro produttivo, di merci, di valore di scambio, di profitti, e lavoro riproduttivo: non solo della vita biologica, ma anche delle relazioni sociali, della comunità. Il lavoro riproduttivo è cura: cura della casa comune; o di quella parte di essa che ci è dato di raggiungere, sempre che la visione che presiede ad essa sia aperta, proiettata verso l’esterno, l’altro, e verso l’avvenire, la “generazione futura”. Il lavoro produttivo, invece, è per lo più improntato all’incuria: della salute e della vita di chi vi è forzosamente impegnato; delle persone che subiscono gli impatti negativi dei processi produttivi o dei prodotti a cui essi mettono capo; dell’ambiente e della vita. La cura della casa comune esige che quella gerarchia venga invertita; messa sottosopra.
Pubblicato anche sulla Newsletter di “Generazione futura Milano” (con il titolo Sulla cura della casa comune)
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