domenica 30 maggio 2021

...e non avete ancora visto niente! Nota semiseria su «Great Reset» e dintorni.

 «Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: “Andate e versate sulla terra le sette coppe dell'ira di Dio” Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra; e scoppiò una piaga dolorosa e maligna…»

(Apocalisse di Giovanni, XVI, 1-2)

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Si è fatto un gran parlare, anche in ambienti a noi contigui, del presunto progetto di «Great Reset» (grande riaggiustamento), che facendo strumentalmente leva sulla pandemia da Covid-19, mirerebbe a una profonda riconfigurazione dell’economia mondiale. Come è ormai noto, The Great Reset è anche il titolo di un libro di Klaus Schwab e Thierry Malleret, considerato da alcuni come una conferma dell'esistenza del suddetto progetto. Cosicché siamo andati a vedere cosa c'è nel libro, convinti di trovarvi sostanziose indicazioni, ancorché business friendly, sulla ristrutturazione possibile del modo di produzione capitalistico (MPC). 

Abbiamo allargato le nostre ricerche ad altri testi della stessa risma. Risultato: una grande delusione. Pubblicazioni come quella di Schwab e Malleret testimoniano della situazione di stallo delle frazioni attualmente dominanti della classe capitalista, più che della loro dinamicità. Farne un manuale della ristrutturazione ad uso del grande capitale, non solo è far troppo onore a suoi autori; è soprattutto non comprendere cosa spinga il MPC a rivoluzionare se stesso. Lo vedremo meglio nella seconda parte di questa breve nota. Ma andiamo con ordine.

* * * *

Il libro scritto a quattro mani da Schwab e Malleret, Covid-19 : The Great Reset (World Economic Forum 2020), è costituito da un insieme di proiezioni sulle ricadute della crisi da Covid a differenti livelli – macroeconomico, microeconomico, individuale etc. – nell'ottica di preparare l'opinione pubblica alle cosiddette «sfide» portate alla ribalta dalla pandemia. Contrariamente alla vulgata, il volume è lungi dal costituire un insieme di ricette per il grande padronato in vista di una ristrutturazione complessiva del MPC. In realtà, a questo livello di riflessione, una sola idea forte – e non proprio nuova – emerge nel corso della lettura: quella di una rimessa in causa del subappalto su ampie distanze geografiche, tipico delle catene globali del valore. Come molti altri commentatori, Schwab e Malleret concepiscono tale rimessa in discussione non come un riallineamento dei salari nei paesi centrali dell'accumulazione al livello dei paesi semi-periferici – per dirla con una formula, un trasferimento della Cina a domicilio – ma, piuttosto, come una rilancio della robotizzazione nell'insieme delle aree centrali dell'accumulazione capitalistica:

«Nella misura in cui i paesi si ripiegheranno su se stessi e le imprese mondiali accorceranno le loro catene di approvvigionamento, iper-efficienti ma molto fragili, l'automazione e i robot che permettono una produzione più locale pur mantenendo bassi i costi, saranno molto richiesti». (op. cit.)

Ciononostante, la robotizzazione della produzione citata dai nostri rimane, implicitamente, un orizzonte lontano. Essi considerano in effetti che, a breve termine, le attività maggiormente interessate dal salto tecnologico saranno segmenti relativamente ristretti dell'attività economica, come ad esempio le consegne a domicilio (allo scopo di sostituire i corrieri in bicicletta o su quattro ruote), citando gli esperimenti in questo senso fatti a Washington, Tel Aviv e in alcune città cinesi. I luoghi di produzione sono praticamente assenti dal quadro.

Schwab e Malleret sono altresì convinti – e non senza ragione – che non sarà possibile alcun ritorno al passato, anche recente, in settori come quello dell'istruzione, per il quale prevedono l'avvento di un sistema ibrido, che articoli la didattica a distanza sperimentata nel corso dei lockdown, alla parziale riabilitazione dell'insegnamento tradizionale, per la totalità della popolazione studentesca o solo per una parte di essa, a seconda dei casi e dei contesti. La giustificazione di un tale sistema, in particolare per gli studi universitari, potrebbe venire – secondo gli autori – dal rifiuto degli studenti (o delle loro famiglie) di sostenere alti costi di iscrizione, mentre la qualità dell'insegnamento fornito non sarà più la stessa.

Viene però da chiedersi se l'adozione più o meno permanente della didattica a distanza, sia particolarmente decisiva in vista di una generale devalorizzazione della forza-lavoro, o non sia – piuttosto – un elemento di continuità col cronico sotto-investimento in infrastrutture che negli ultimi decenni ha caratterizzato la scuola e le università pubbliche nella maggior parte dei paesi avanzati, mitigato solo dal quasi-onnipresente declino demografico in corso in questi stessi paesi…

Per il resto, Schwab e Malleret si limitano a fare l'inventario dei settori maggiormente colpiti dalla crisi da Covid, senza sbilanciarsi in proiezioni particolari sulle loro eventuali trasformazioni. Tra questi settori, vengono citati il trasporto aereo e, per le attività commerciali, l'immobiliare. Riguardo al primo, viene esclusa una decisa ripresa dei viaggi d'affari, che rappresentavano il 30% del traffico aereo e il 50% degli utili delle compagnie prima della pandemia – con effetti a cascata su altri settori connessi, come quello dell'autonoleggio (cfr. il caso di Hertz negli USA). Lo stesso si può dire per il secondo settore, dove la combinazione dello smart working (invero ancora sotto-utilizzato) e del massacro prossimo venturo di imprese-zombies, travolgerà sulla sua strada un gran numero di promotori immobiliari e farà scoppiare parecchie bolle.

In sintesi, le proiezioni contenute in Covid-19: The Great Reset non dicono nulla di veramente nuovo, e diversamente da Taylor e Ford in altri tempi, non si fanno sufficientemente carico della questione centrale di ogni ristrutturazione capitalistica: l'approfondimento del rapporto di sfruttamento nel «segreto laboratorio della produzione» (Marx).

La stessa constatazione si può estendere a pressoché tutti i rapporti provenienti dagli organi di riflessione della classe capitalista che ci è capitato di spulciare negli ultimi mesi. Valga per tutti l'esempio del documento del Gruppo dei Trenta, Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid1, pubblicato nel dicembre del 2020, nel quale – contrariamente alle apparenze – la volontà di conservare le principali caratteristiche di una configurazione produttiva che ha ormai esaurito il suo potenziale (ritorno in auge del plusvalore assoluto) prevale, ancor più nettamente che nel libro di Schwab e Malleret, sulla critica dello status quo ante. Eppure lo scopo dichiarato del rapporto, tra le cui firme in calce c'è anche quella di Mario Draghi, è quello di orientare i decisori politici verso risposte alternative alla crisi economica rispetto a quelle già adottate nel corso del 2020:

«I governi dovranno sempre più abbandonare le misure di sostegno ad ampio raggio, in favore di misure più mirate. Ciò significa farla finita col tentativo di preservare lo status quo pre-pandemico, e permettere la necessaria riallocazione delle risorse in modo che le economie ne escano più sane e più forti.» (Op. cit., Introduzione, p. IX)

Il punto di partenza degli autori è l'assunto (vero, a nostro avviso, ma non ancora confermato dai fatti) secondo cui la crisi da Covid sarebbe portatrice di una «enorme crisi di solvibilità delle imprese in un gran numero di paesi» – crisi occultata o procrastinata dalle agevolazioni al credito promosse dalle banche centrali e dagli Stati, nonché (aggiungiamo noi) dall'allentamento della regolazione bancaria sui crediti «non performanti». Al contempo, la focalizzazione delle politiche statali sulla liquidità delle imprese non è, secondo il Gruppo dei Trenta, priva di magagne: inadeguatezza di fronte all'eterogeneità dei bisogni dei diversi settori o imprese, esacerbazione del sovra-indebitamento di una parte di queste ultime, sotto-utilizzo delle competenze del settore privato nel calibrare le misure di sostegno economico, e last but not least un livello di indebitamento pubblico insostenibile a lungo termine.

Il rapporto propone tre principi di base che informano di sé tutte le raccomandazioni formulate: l'attenzione alla solidità delle imprese a medio-lungo termine (criterio da adottare per le misure più mirate), la razionalizzazione dell'uso dei fondi pubblici (facendo maggiormente leva sulle risorse del settore privato laddove ve ne siano), la prevenzione dei danni collaterali (tanto a livello della stabilità del sistema finanziario che del welfare). Seguendo questi tre principi, il rapporto suggerisce agli Stati di restringere il loro sostegno eccessivamente lasco alle imprese, per concentrarsi sul processo di selezione delle aziende realmente redditizie e sulla maniera di sostenerle: inutile prolungare le sofferenze di imprese comunque destinate a scomparire, ma altrettanto inutile sostenere imprese già redditizie che non hanno bisogno di alcun aiuto. Gli autori del rapporto fanno appello a non ostacolare l'inevitabile «distruzione creatrice», ma soprattutto a controllarne la tempistica («to manage the timing of creative destruction», p. 3) in modo da evitare urti eccessivamente brutali, le cui conseguenze potrebbero rallentare la ripresa.

Tra gli strumenti di politica economica preconizzati nel rapporto, troviamo – come detto – l'introduzione di programmi mirati di credito alle imprese, e perfino la partecipazione statale al capitale di società economicamente sostenibili ma in difficoltà, ma anche l'accresciuta finanziarizzazione delle piccole e medie imprese, che gli autori pretendono essere un metodo di finanziamento più efficace rispetto al credito bancario tradizionale (nessuna allusione alla bolla delle obbligazioni corporate negli Stati Uniti, né alle sue conseguenze sull'investimento); troviamo la promozione della green economy e della digitalizzazione – ma con moderazione, per non penalizzare i settori inquinanti o tecnologicamente ritardatari; troviamo una critica delle misure statali di facilitazione dell’accesso al credito bancario per sostenere l'economia «reale» (prestiti garantiti dallo Stato), ma anche la creazione di bad banks sull'esempio cinese, per concentrare e neutralizzare la massa di crediti deteriorati che vanno accumulandosi nel sistema bancario.

Insomma, il Gruppo dei Trenta propone una notevole varietà di ricette, nella prospettiva di una gestione «centrista», consensuale, della devalorizzazione a venire. In buona sostanza, esso condensa la visione del «keynesismo finanziario» che ha pilotato la mondializzazione ascendente, tuttora in voga ai piani alti delle istituzioni sovranazionali, e rappresentativo di una frazione del capitale finanziario che non può effettivamente attaccare lo status quo senza rimettere in causa la propria egemonia sull'insieme della classe capitalista. Anche il rapporto del Gruppo dei Trenta resta dunque a metà del guado. Il problema è che nessuna devalorizzazione può realizzarsi con un consenso bipartisan (quand'anche sotto l'egida di un Draghi qualunque), ovvero nella concordia fra capitale industriale e capitale portatore d'interesse, e fra opposte fazioni in seno al primo e al secondo – ovvero senza scontro all'interno del grande capitale stesso su chi debba incassare le maggiori perdite. E nessun avvio vigoroso di ristrutturazione può darsi senza uno scontro di classe non necessariamente rivoluzionario, ma comunque duro e violento, che ricordi alla società dove si trova il suo baricentro (l'estrazione di plusvalore nel processo di produzione immediato). Per ristrutturare un intero modo di produzione, ci vuole un padronato da combattimento, temprato sul campo all'arte della guerra (di classe).

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Forse qualcuno ricorderà la battuta di un economista, tale Solow, il quale verso la fine degli anni 1980 fece notare che «l'era dell'informatica è dappertutto, tranne nelle statistiche della produttività». Oggi si potrebbe riprendere quella formula a proposito della digitalizzazione, il che la dice lunga sul carattere poco più che embrionale dei processi che questo termine evoca. Ma mentre la Terra – o quantomeno l'area europea occidentale – si trova impelagata in una situazione fatta, in realtà, di investimenti e incrementi di produttività ai minimi storici, di intere porzioni dell'economia «reale» tenute in vita da Stati e banca centrale, in condizioni prossime all'accanimento terapeutico e in spregio ad un laissez-faire ormai solo di facciata; mentre, insomma, la frazione egemone del grande capitale avanza col freno a mano tirato, nel terrore di perdere il controllo della vettura, l'angoscia delle anime belle si scatena contro un «nuovo che avanza»... a passo di tartaruga. Questi valorosi si fanno beffe di chi ha paura del Covid – suvvia, che sciocchezze, Madama la Marchesa! – ma non arrossiscono nel dare pubblico sfogo alle loro paure (pur comprensibili), denunciando (per l'arcimillesima volta) «svolte totalitarie» ogni quarto d'ora, come il gauchisme degli anni ‘70 del secolo scorso denunciava ad ogni pie' sospinto la «fascistizzazione». Da un anno a questa parte, le abbiamo sentite tutte: dal lockdown come contro-insurrezione preventiva, al confinamento per scongiurare l'iper-inflazione chiudendo in casa i consumatori (sic!). Unico risultato: alla confusione della comunicazione ufficiale (politica e mass- mediatica), si è aggiunta la confusione della comunicazione «alternativa». Pazienza: passerà. C'è da chiedersi, però, se alle volte un meditabondo silenzio non sia più salutare.

Che possano esistere borghesi desiderosi di un Great Reset più o meno spinto è – beninteso – del tutto plausibile, così come notoriamente ce ne sono che fantasticano di vivere in eterno o di traslocare su Marte: ciò non prova altro che la loro disconnessione dalle prosaiche vicende terrene, la loro incapacità di farsi carico degli interessi collettivi della loro classe di appartenenza. Come se bastasse pigiare il tasto di un computer per far passare, in quattro e quattr'otto, il rapporto sociale capitalistico ad uno stadio superiore e ultimativo. Come se bastasse pigiare il tasto di un computer per cancellare, tutto d’un colpo, la riproduzione inerziale della stratificazione di sedimenti extra-economici (istituzionali, antropologici etc.) che il rapporto capitalistico si porta inevitabilmente appresso. Si pensi al piano Morgenthau, che nel 1945 annunciava un obiettivo ben più modesto: la riduzione della Germania al rango di paese produttore di materie prime agricole. Settantacinque anni dopo, la Germania è e resta il paese più industrializzato d'Europa. Difficile convincere i tedeschi a diventare degli indiani! Il famoso «c'è stata una storia, ma ora non c'è più» (Marx, Miseria della filosofia) può funzionare nei discorsi, ma non nella pratica. A dispetto delle intenzioni di molti suoi fautori, il genere distopico (antistorico per definizione) deve del resto il suo successo al suo innegabile effetto consolatorio: all'epoca della Cortina di Ferro, il lettore medio occidentale richiudeva la sua copia di 1984 col sollievo di vivere nella metà «libera» del mondo bipolare. Oggi può richiuderla con analogo sollievo, constatando lo scarto considerevole tra la società iper-sessualizzata in cui vive e quella immaginata da Orwell, dove il Partito vieta i rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione; e anche se «sovversivo», preferirà pur sempre Mediaset a Russia Today, e si compiacerà di non vivere in Cina, malgrado la bassa percentuale di popolazione incarcerata di questo paese2.

A prendere certe strade, tanto più se a partire da presupposti o intenti «anticapitalistici», si smarriscono due delle determinazioni fondamentali del MPC: la concorrenza e la lotta di classe. Riguardo alla prima: che il capitale non sia un soggetto cosciente dotato di una volontà univoca, ma sia permanentemente attraversato dalla competizione fra imprese, settori, gruppi di interesse, Stati, para-Stati e blocchi di paesi; che questa competizione attraversi, oggi anche più che in passato, non solo i governi o i parlamenti (la schiuma in superficie) ma gli stessi apparati statali – tutto ciò risulterebbe ovvio e cristallino, se l'uomo non fosse, come diceva il vecchio Hobbes, «l'animale col privilegio dell'assurdo», ovvero se il rapporto ideale con le proprie condizioni d'esistenza fosse immediato e trasparente – nel qual caso, non ci sarebbe spazio per sovrastrutture di sorta, politiche, giuridiche, religiose o d'altro tipo. Eppure, capita ancora che la rappresentazione immaginata delle dinamiche reali riesca a sorprenderci, a tal punto esse appaiono rovesciate. Non è necessario sapere che il giro d'affari della più big delle BigPharma (Johnson & Johnson) non eguaglia quello di multinazionali di taglia relativamente modesta nel settore dell'automobile o del petrolio; basterebbe sapersi guardare intorno: non abbiamo forse avuto sotto gli occhi, nel corso dell'ultimo anno, incessanti conflitti fra ministeri, fra regioni e Stato centrale, fra esecutivi e deep States, e perfino all'interno degli stessi esecutivi? Non abbiamo sotto gli occhi, in questo preciso momento, una campagna vaccinale – di cui si denuncia l'(assai pallido) inquadramento militare – che a dispetto di una corsa al vaccino realizzata in tempi da record (niente meno che un indice delle riserve di produttività esistenti), soffre quasi ovunque di ritardi e difficoltà logistiche più o meno importanti, interamente dettati dalla contesa fra poli economici e geo-strategici concorrenti? In che cosa il bisogno sociale di vaccini anti-Covid sarebbe più «artificiale», «manipolatorio» e contraddittorio rispetto – per attenersi ad un solo esempio – ai bisogni attuali di energia o di mezzi di trasporto? In che cosa i rischi per la salute connessi alle nuove tecnologie vaccinali sarebbero maggiori di quelli corsi quotidianamente da miliardi di individui nella «sperimentazione di massa» permanente che è (e non da ieri) la semplice vita quotidiana nel MPC? La conservazione dei sovrapprofitti (leggi brevetti) dei grandi laboratori farmaceutici non si è forse realizzata a spese di altri settori e, più in generale, della ripresa economica, magari in attesa del momento buono per trasformare la sospensione temporanea dei brevetti in un'arma di guerra economica? Insomma: non riconosciamo forse, nello svolgimento stesso della crisi pandemica, la caratterizzazione classica, e mai smentita, del capitale come leva e inseparabilmente ostacolo allo sviluppo delle forze produttive sociali? Lo Stato-Capitale, come entità monolitica e quasi metafisica, ce lo si può permettere quando si è punk a sedici anni, o fricchettoni a settanta; diversamente, si è pregati di mettere sul piatto qualcosa di più sostanzioso.

La fiaba della tabula rasa digitalizzata, riassume in qualche modo tutto lo spettro delle possibili novità e tendenze che una paura – questa sì – alimentata ad arte, fa passare per incombenti apocalissi a cui si tratterebbe di «resistere». E qui arriviamo alla seconda determinazione di cui sopra (la lotta di classe). Si tratta forse, per i nostri, della «resistenza» ai metodi per nulla futuribili del plusvalore assoluto, tornati in auge nel corso degli ultimi 40 anni – alle settimane lavorative di 50-60-70 ore (vedi il caso Texprint a Prato), al sotto-investimento cronico responsabile di tanti infortuni e morti sul lavoro (ritornati all'onore delle cronache con la morte di Luana D'Orazio), alle condotte antisindacali così diffuse nel mondo della piccola e media impresa, riabilitata dal mito del «piccolo è bello»? Mica tanto. E d’altra parte, fare appello alla resistenza contro un «nuovo che avanza» dai contorni incerti, ma dipinto come il male assoluto, non sfocia forse nell'assolvere ciò che esiste qui ed ora? «Solo chi comprende che il nuovo è identico all’antico, opera al servizio di ciò che sarebbe diverso.» (Theodor W. Adorno, Riflessioni sulla teoria delle classi). È curioso come oggi proliferino i riformismi più stravaganti e velleitari, mentre sembra divenuta impronunciabile la prospettiva elementare di lavorare meno (a parità di salario), in maniera meno pericolosa e più pulita – tutti obiettivi per nulla rivoluzionari, ma possibili all'interno delle compatibilità capitalistiche anche grazie agli incrementi di produttività promessi dalle nuove tecnologie del digitale (IoT, IA, stampa in 3D, cobotica etc.). Prima che i tecno-allergici saltino sulla sedia e si mettano a gridare come isterici, precisiamo che non si tratta di fare l'apologia della «tecnologia liberatrice», di considerarla «neutra» o progressiva in sé: non è mai stata tale – nemmeno nelle società precapitalistiche. Un triplice promemoria, ciò malgrado: 1) gli uomini fanno la storia in circostanze che concorrono a produrre, ma che non scelgono mai a piacere (è un truismo, ma abbiamo imparato a non dare nulla per scontato...); 2) l'equipaggiamento tecnologico della società è ad ogni istante una di queste circostanze; 3) da qualche secolo a questa parte, l'evoluzione concreta di tale equipaggiamento non è distinguibile dal processo dell'accumulazione del capitale, nel quale è il rapporto fra proletariato e capitale (la lotta di classe) l'elemento motore che spinge il capitale ad accumularsi sotto forma di mezzi di produzione.

«Producendo l’accumulazione del capitale – e nella misura in cui ci riesce –, la classe salariata produce in misura crescente [...] essa stessa gli strumenti della propria estromissione o della propria metamorfosi in sovrappopolazione relativa». (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, in Opere, vol. , a citta del sole, 2011, p. 1295).

Da tale partecipazione attiva alla propria «estromissione», deriva anche l'atteggiamento peculiare e ambivalente del proletariato rispetto ai salti tecnologici a livello del processo di produzione, che ingenerano apprensione e incertezza ma raramente movimenti di lotta su vasta scala. Un caso? Può darsi, ma teniamo presente che se un capitalismo tecnologicamente dinamico ha i suoi inconvenienti, un capitalismo tecnologicamente stagnante ne comporta di più. È quando la classe si lascia schiacciare con più facilità, che la controparte ha meno bisogno di investire in nuovi macchinari per mantenere la redditività del capitale. Se ogni proletario non ambisse che a morire di lavoro, non ci sarebbe alcun Great Reset da temere. Mentre, con tutta probabilità, una forte ripresa della lotta di classe nei luoghi di lavoro rimetterebbe oggi all'ordine del giorno la parola d'ordine della riduzione della giornata lavorativa, creando anche le condizioni per un nuovo e autentico progetto riformista, passibile di collaborare alla ristrutturazione capitalistica (anche dal punto di vista della pianificazione del processo lavorativo e dell'orario di lavoro). Di contro, a coloro che considerano questo il peggiore degli scenari, faremo notare che da quando la questione della durata della giornata lavorativa sociale è scomparsa dal dibattito pubblico, ovvero da quando la valorizzazione ha ripreso ad appoggiarsi, in maniera via via crescente, sul plusvalore assoluto, la «sovversione» non ha fatto il benché minimo passo in avanti, almeno da quel che ci risulta. Non è l'assenza totale di una prospettiva riformista a rendere la rivoluzione possibile.

Infine, una domanda sciocca: da dove nasce tutta questa sarabanda? Non senza un filo di malizia, proviamo ad applicare alla pseudo-teoria del Great Reset, lo stesso criterio sommario che essa adotta nell'analisi della gestione della pandemia (non proprio un «affare», dal punto di vista del capitale sociale complessivo, a giudicare dai dati sul PIL del 2020): quello del cui prodest. A chi giova questa «libera interpretazione» degli oscuri piani di Satana? Dopo aver ascoltato per un annetto la stessa solfa, una mezza idea ce la siamo fatta: giova a chi, in termini di posizione di classe, sa già da oggi di non avere più posto nel mondo di domani (comunque si andrà delineando). Dobbiamo essere più espliciti? Detto fuori dai denti: alla piccola borghesia esangue di cui pullula, in modo del tutto abnorme per un paese relativamente avanzato, questa Italia sul viale del tramonto. Viene in mente un passo del Me-ti di Brecht: «Sempre nella vita c'è qualcosa che è in procinto di perire. Ciò che perisce non vuole però semplicemente morire, ma lotta per la propria sopravvivenza, difende la sua causa persa». Due parole, nella citazione, contano più delle altre: causa persa. Non è certamente una causa persa quella del proletariato, per il quale ogni ristrutturazione è una sconfitta, nella stessa misura in cui prepara una riproduzione del rapporto sociale capitalistico su scala ancor più allargata (un'estensione del salariato). Ci scusino allora i piccoli borghesi di tutti i paesi se non muoveremo un dito per salvarli, né piangeremo la loro scomparsa – si tratti di padroni di bar, di gestori di impianti sciistici, di tatuatori o di medici «critici». Lanciamo invece un auspicio, a mo' di messaggio nella bottiglia: che nel giro di qualche tempo si possa tornare a parlare di cose serie, anziché di idrossiclorochina.

Concludiamo ribadendo ciò che per noi è l'essenziale: ogni ristrutturazione è un processo di lunga durata, che si configura allo stesso tempo come una lotta tra le classi e una lotta interna tra frazioni della classe capitalistica. Per il momento non siamo ancora allo scontro aperto, e in tutta evidenza la frazione «centrista» – votata al mantenimento del plusvalore assoluto come modalità prevalente di estrazione del plusvalore – resta al comando. Lo scontro si manifesta in maniera appena più pronunciata a livello geopolitico, nella tendenziale degradazione dei rapporti commerciali e diplomatici fra Stati Uniti e Cina (ma bisogna tenere conto che ognuna delle due potenze ospita a sua volta, al proprio interno, modernisti e conservatori). La polarizzazione in seno alla classe capitalista non è del resto slegata dalla polarizzazione fra le classi: l'antagonismo tra capitali passatisti e modernisti è debole anche perché il livello di conflittualità di classe è ancora debole. La discesa agli inferi della big finance – propiziata da quella che chiameremo la fase due della crisi da Covid– segnerà in questo senso la svolta. Quando? Prima di quanto molti non immaginino. A costo di prendere una cantonata, diremo: entro l'anno.


Note
1 Disponibile qui: https://www.oliverwyman.com/content/dam/oliver- wyman/v2/publications/2020/dec/G30_Reviving_and_Restructuring_the_Corporate_Sector_Post_Covid.pdf.
2 In Cina si contano ufficialmente 1,6 milioni di detenuti per 1,39 miliardi di abitanti, contro 2,1 milioni per 331 milioni di abitanti negli USA. Anche aggiungendo la cifra tonda di 7 milioni di cinesi internati (secondo le stime più generose) nei campi di lavoro, il rapporto fra il numero di detenuti e la popolazione totale resta inferiore rispetto a quello degli USA.

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