venerdì 28 maggio 2021

Acqua, dieci anni perduti

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Dieci anni fa il “popolo dell’acqua pubblica” vinse i due referendum del 12 e 13 giugno 2011. Un grande impegno rimasto disilluso, un’occasione mancata su cui serve fare chiarezza mentre la sete del mondo aumenta e i governanti si travestono da Greta.

Ricordo e rimpianto di una buona idea 

Una premessa. Sommaria geografia dell’acqua

  1. I numeri dell’acqua sono incerti. L’acqua presente nel pianeta Terra sarebbe di 1,4 miliardi di chilometri cubi, o di 1,385 miliardi per la precisione. Quasi tutto mare, acqua salata. L’acqua evapora per il calore del sole, dal mare e dai continenti emersi, forma vapore acqueo, nubi, per poi precipitare sotto forma di pioggia o di neve sulla terra o sull’oceano. La pioggia, la neve, il ghiaccio, dovuto al freddo,  non sanno di sale. In quantità assoluta l’acqua non cambia, in un’unica Terra, solo che gli oceani – i mari – coprono la maggior parte della superficie terrestre e ricevono quindi la maggior parte della pioggia che cade e diventa salata, mischiandosi all’acqua di mare,salata, mentre la riserva solida di acqua dolce – ghiacciata – subisce l’attacco dovuto all’effetto serra con il connesso riscaldamento globale. I ghiacciai, sciolti dal calore, diventano fiumi e finiscono in mare e la loro acqua da dolce diventa salata. L’effetto è duplice: diminuisce la riserva (acqua dolce ghiacciata) e  aumenta il livello dell’acqua negli oceani e nei mari , coprendo molte città e attività costiere sulle sponde. 

L’acqua dolce o potabile equivale al due e mezzo, tre per cento al massimo diviso tra calotte glaciali (e ghiacciai) al settanta per cento scarso, acqua del sottosuolo al trenta per cento scarso. Le due scarsità, sommate insieme, tralasciano un altro 0,9 per cento che costituisce le acque superficiali formate da laghi, fiumi e via dicendo. Nel dettaglio, l’acqua dolce superficiale è per l’87 per cento costituita da laghi, per l’11per cento da stagni e per il 2 per cento da fiumi. Ridicola e strana la storia: è per questo 2%  di uno 0,9%, di un 3% per cento di acqua che si fanno le guerre, nel corso dei secoli. In totale, è in gran parte irraggiungibile per l’uso comune l’acqua potabile, essendo ai Poli, in Antartide, in Groenlandia, sotto forma di ghiaccio.  L’acqua dolce disponibile è dunque quella dei fiumi, dei laghi, delle paludi, delle nevi perenni e dei ghiacciai accessibili. Una grande riserva è nel sottosuolo, dove si è accumulata nel corso dei secoli e dei millenni. 

La popolazione umana ha imparato nei millenni a raggiungere l’acqua sotterranea, con una modalità che chiameremo, in forma sommaria, pozzo.  L’uso umano, per l’acqua potabile del Pianeta a disposizione dei viventi sarebbe utilizzata per il 60-70 per cento in agricoltura, per il 20-25 nelle attività di trasformazione, ricomprese tutte sotto la voce industria, mentre il resto sarebbe dedicato al consumo immediato, quello di bere, cucinare, pulire, lavare e lavarsi, ecc. Sono però suddivisioni incerte da valutare e che cambiano al cambiare delle organizzazioni sociali nel corso del tempo. 

Il consumo totale di acqua dolce sarebbe stato di cinquemila chilometri cubi l’anno a fine secolo 2000, di cui la metà soltanto utilizzati direttamente e l’altra metà dispersa. Siccome Terra è un involucro chiuso, l’acqua dispersa non è perduta; non può che entrare in un circuito idrico più o meno lungo e in gran parte incontrollabile, svolto per vie traverse; basta aspettare, basta applicare tecniche adatte… però.  Se i numeri correnti sono incerti, la progressione nei consumi in aumento lo è molto meno. Si è stabilito che l’aumento nella captazione di acqua potabile – il bisogno, la sete – cresce più rapidamente dell’aumento di popolazione: mentre la popolazione umana è cresciuta di quattro volte nel secolo scorso – da un miliardo e mezzo a sei miliardi di persone –  e aumenterà forse di un’altra metà nel secolo presente, la domanda di acqua potabile potrebbe triplicare o forse quadruplicare nel corso di questo 22mo secolo. Si profilano dunque problemi idrici difficili da risolvere per gli anni avvenire. L’acqua non s’inventa: occorre far buon uso di quella che c’è. Mitigazione, adattamento o che altro?

Mitigare qui vuol dire ridurre il carico dell’effetto serra che agisce sullo scioglimento dei ghiacci ciò che in ultimo termine significa il cambiamento di stato: dall’acqua gelata e senza sale in acqua più calda, marina e salata; Lo scioglimento dei ghiacci di Antartide e Groenlandia avrebbe l’effetto. prima indicato,  di far crescere il livello degli oceani e dei mari interni, sommergendo molte città e attività umane costruite presso i mari. Per mitigare in questo caso si deve sviluppare una serie di attività complesse e costose. Piantare alberi, riducendo-riassorbendo l’emissione di anidride carbonica che è alla base dell’effetto serra. Si può cercare di trattenere l’acqua dei fiumi, allargando i bacini e i depositi naturali di acqua dolce. Un riassunto accurato di quel che occorre fare in termini di adattamento lo si trova ne libro di Bill Gates “Clima – Come evitare un disastro”. Un obiettivo facile da raccontare e difficile da perseguire; più difficile ancora è però cambiare le nostre abitudini, il nostro modo di vivere, di mangiare, di correre dietro ai piaceri più leciti, cambiando le cose, da buone cose dolci in cose passabilmente salate. Servirà un industria che funzioni anche con un raffreddamento salato cioè usando acqua che svolga la funzione prevista sui macchinari non essendo  necessariamente  potabile, nel tessile, nell’alimentare, nel settore chimico, nel raffreddamento delle centrali elettriche e così via. Poi c’è l’agricoltura. Sembra che in Israele, nel secolo scorso abbiano provato a fa crescere pomodori irrorando le piante con acqua discretamente salata: un buon risultato dal punto di vista della coltivazione e uno pessimo badando ai sapori. Ma, “C’est ne que un début, continuons à manger“. 

Le coltivazioni possono sopportare modifiche che prevedano un uso ridotto d’inaffiamento di pioggia artificiale con un uso sapiente di semenze e di selezione di prodotti, di luoghi, di soluzioni temporali che assumano anche o soprattutto questo tema del risparmio di acqua dolce. C’è inoltre la possibilità di mettere da parte un’agricoltura troppo dispendiosa in termini di irrigazione preferibile a favore di altre produzioni meno assetate o più secche.

L’adattamento riguarda poi la possibilità di riutilizzare l’acqua dolce sporcata nell’uso abituale. Oggi non esiste unsa tecnica diffusa, disponibile per riutilizzare a breve giro l’acqua inquinata per l’uso civile o per irrigare i campi e innaffiare i giardini; oggi si manda tutto al fiume, quindi al mare l’acqua usata, tanto per togliersela di torno. Anche il fiume, però fa parte della nostra geografia; la sua acqua è la nostra acqua. Questo è valido in generale, a livello di Terra, ma vale ancor prima a livello di territorio. Forse si potrebbe fare di meglio. 

Dieci anni dopo

  1. Scadono dieci anni dal referendum italiano sull’acqua. Come molti ricorderanno i referendum che si occupavano di acqua erano in realtà due e inoltre in quell’occasione (12-13 giugno 2011) si votava anche sul nucleare e sulla responsabilità dei ministri.  I temi sull’acqua rispondevano a una convinzione diffusa, da ratificare con la legge popolare. L’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce. Come il solito, il voto ammesso da Cassazione e Corte costituzionale non era su affermazioni così sintetiche e precise, ma su particolarità della legislazione precedente che al tempo stesso potevano essere attaccate con un referendum abrogativo rendendo impraticabile (forse) il permesso-divieto della legge. In realtà i titolari dei diritti e delle leggi – governi, parlamenti – non amano che la gente comune si immischi con le loro pratiche e le loro scelte, complicate e spesso astruse, con intenti che restano coperti o addirittura segreti. Così avviene talvolta che una scelta precisa come l’abolizione del Ministero dell’agricoltura, chiesta con un referendum e fatta propria con un voto di maggioranza e da molti milioni di persone, contro una quasi inesistente opposizione, si trasformi inopinatamente nella nascita del Ministero per le Produzioni agricole. Per essere precisi: con effetto del referendum del 18-19 aprile 1993, il MAF Ministero per l’agricoltura e le foreste, antichissimo ministero dei tempi sabaudi, abolito dal refendum è rinato per effetto della legge di applicazione 491-1993 e si è trasformato in Miraaf, Ministero per le risorse agricole alimentari e forestali. 

I referendum sull’acqua bene comune andavano a colpire l’articolo 23bis della legge 133 del 2009 (“Legge Ronchi“) che stabiliva che i gestori dei servizi locali a rilevanza economica, come il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici e lo smaltimento dei rifiuti, dovessero essere scelti dall’ente locale attraverso una gara d’appalto, riducendo la possibilità dell’affidamento diretto a una società pubblica cosiddetta “in house“, ossia una società con gestione aziendale autonoma ma capitale interamente pubblico e partecipata dall’ente locale di riferimento. L’altro referendum idrico  puntava a colpire il comma 1 dell’articolo 154 della legge152 del 2006 (“Testo unico ambientale“), che stabiliva come nel costo finale dei servizi idrici che il “cittadino-utente” pagava in bolletta dovesse essere inclusa la remunerazione del capitale investito, fissata per legge al 7%.

Il referendum “contro la privatizzazione dell’acqua” nasce da una grande mobilitazione popolare, un vero record di partecipazione: 1 milione e 400 mila firme (ne bastavano 500 mila) furono raccolte da marzo a luglio 2010 dai comitati promotori. Dire “privatizzazione dell’acqua” è però fuorviante: come si è visto, uno degli articoli di legge oggetto dei referendum si riferisce a tutti i servizi pubblici di rilevanza economica, ossia quelli per i quali sono previsti una bolletta o un biglietto a prezzo controllato o un ticket. Rientrano in questa nozione di servizi pubblici di rilevanza economica l’acqua, i trasporti pubblici, lo smaltimento dei rifiuti, la refezione scolastica e altri ancora, in contrapposizione ad altri servizi, sociali e assistenziali, che paghiamo invece con le tasse.

È giusto che servizi essenziali di pubblica utilità possano essere gestiti anche da aziende private anziché esclusivamente da consorzi o enti pubblici locali? E se anche venisse abolita – col secondo quesito referendario – la remunerazione del capitale investito, ossia quel 7% di guadagno fissato per legge per chi investe nei servizi idrici, vuol dire che le nostre bollette dell’acqua saranno meno care? O il servizio sarebbe meno efficiente? Con sprechi ulteriori?

Per precisare il significato legale dei referendum torneremo rapidamente alla loro grammatica, servendoci delle spiegazioni di allora:  

Quesito referendario n° 1: “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica” .
Il quesito chiede di abrogare o confermare l’articolo 23bis della legge 133 del 2009 (“Legge Ronchi”) che stabilisce che i gestori dei servizi locali a rilevanza economica, come il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici e lo smaltimento dei rifiuti, debbano essere scelti dall’ente locale attraverso una gara d’appalto, riducendo la possibilità dell’affidamento diretto a una società pubblica cosiddetta in house, ossia una società con gestione aziendale autonoma ma capitale interamente pubblico e partecipata dall’ente locale di riferimento.
L’affidamento diretto è tecnicamente ancora possibile, ma deve essere esplicitamente motivato dall’ente locale; l’articolo impone anche che tutte le attuali gestioni pubbliche in house cessino entro dicembre 2011 a meno che non selezionino tramite gara un partner privato a cui affidare non meno del 40% del capitale.
Ai gestori a capitale misto pubblico e privato quotati in borsa l’articolo impone che la quota pubblica massima venga ridotta al 40% entro giugno 2013 e al 30% entro dicembre 2015, a meno che non decidano di partecipare a una gara per un nuovo affidamento del servizio che già gestiscono. 

Quesito referendario n. 2: “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito”
Il quesito chiede di abrogare o confermare il comma 1 dell’articolo 154 della legge152 del 2006 (“Testo unico ambientale”), che stabilisce che nel costo finale dei servizi idrici che il “cittadino-utente” paga in bolletta debba essere inclusa la remunerazione del capitale investito, fissata per legge al 7%.
La “remunerazione” comprende sia gli interessi di eventuali prestiti chiesti a banche o istituzioni pubbliche sia il guadagno d’impresa. 

Lo straordinario successo popolare dei referendum non può essere spiegato solo con la campagna di propaganda e di raccolta dei consensi. C’è dell’altro, se si vuole riflettere su quelle esaltanti giornate, e comprenderne il significato. “Fukushima” da una parte, l’antipatia per i ministri dall’altra, hanno contribuito al successo elettorale nel referendum sull’acqua. Se ben ricordo, il pubblico votante e le persone che prima ancora avevano fatto campagna per raccogliere i voti, erano spinti anche dalla preoccupazione nucleare – il caso della centrale giapponese colpita dallo tsunami –  che era un argomento decisivo contro quel modello energetico troppo dispotico – e qui c’era l’occasione puntuale per respingere il pericolo. La possibilità di mettere sotto accusa i ministri – Berlusconi e i suoi – poco stimati o invisi a sinistra e più in generale nella popolazione, era di nuovo un modo franco e aperto per dire “Basta!” mediante una legge per di più  popolare, e fare così giustizia di tutti gli abusi e la corruzione, oltretutto cogliendo un’occasione irripetibile. La questione politica centrale: “l’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce“, aveva quindi la fortuna di trovare i milioni di voti, liberi voti, di coloro che preoccupati per il pericolo nucleare, indignati contro i privilegi e i soprusi dei politici si stavano muovendo insieme. Diciamola tutta: per l’acqua soltanto non sarebbero andati in così tanti – a metà giugno! – a votare. 

Il 12-13 giugno va al voto il 57 per cento degli aventi diritto, compresi gli “oriundi“, chiamando così gli italiani con residenza all’estero, cioè quelli che avrebbero dovuto o potuto votare all’estero. Il 95% dei votanti è per il sì, con poche differenze da un referendum all’altro. Viene in mente Marco Pannella,  che per decenni ha sostenuto l’opportunità di proporre un buon numero di referendum in contemporanea, cercando di spiegare i vantaggi di tale condotta: sostenere un referendum con vari altri e raggiungere così il risultato per tutti; con il rischio però di perdere tutto per l’antagonismo organizzato nei confronti di uno soltanto (tipo referendum sulla caccia che nel giugno 1990 urtando qualche intransigenza particolare non ottennero il quorum,  sprecando il 92% dei sì ottenuti). In altre parole, in altro contesto, una forza politica che volesse assumere democraticamente i poteri, non potrebbe limitarsi a un’unica proposta, per dirompente che fosse, ma dovrebbe preferire di presentarne un complesso per consentire al pubblico di vedere, di sperare in un grande cambiamento; di farsi un’idea della politica complessiva dei ”nuovi”. In effetti il movimento 5stelle, scelse, a fianco o dietro la prima stella – l’acqua per tutti – altre quattro stelle che coprivano altri decisivi spazi della politica (ambiente, trasporti, connettività, sviluppo). E raccolse molti voti.

La delusione seguita all’esito vittorioso del referendum è stata grande; Se il referendum fosse colato a picco ci si sarebbe fatta una ragione. Il principio “l’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce” è stato invece subito disatteso dalle autorità che avrebbero dovuto rispettarlo e farlo rispettare. Il risultato vero è stato che alcune grandi società semipubbliche, cresciute in lunghi anni per gestire l’acqua nelle città e nei comuni minori, si sono ancora ingrandite, fondendosi e scalandosi tra di loro e hanno fatto giochi finanziari di ogni tipo, appoggiandosi alle città maggiori e facendosi sponsorizzare in fine da esse , con amministrazioni ansiose di avere denaro da spartire e spendere per quadrare i bilanci e premiare funzionari fedeli e di ricavarle dalla Borsa, utilizzando (o trascurando) l’esito del referendum. L’idea era di guadagnare con l’acqua e ancora di più con le azioni da vendere al pubblico, garantendo un dividendo azionario più ancora di una graditissima sicurezza idrica. Prevalse così una concezione diversa, opposta, del significato sociale e politico dell’acqua, al di là delle semplici questioni ambientali. Le società vincenti hanno ripetuto: l’acqua costa e noi ci impegniamo a darla a tutti, ciò che è assai complicato; va pagata al giusto prezzo e il giusto prezzo lo stabiliamo noi che siamo ingegneri e amministratori. Certo, c’è la povera gente e noi ne teniamo conto. Chi non ha di che pagare – al di là dei sotterfugi e degli inganni che scopriremo – avrà il necessario per sopravvivere a carico della cassa generale. E ancora: non è vero che l’acqua è di tutti, questa è una frase fatta che serve a far sognare i bambini. Noi che siamo gente capace, sappiamo che in verità l’acqua è di nessuno  (res nullius, come dicevano gli antichi) e l’usa chi se la prende, la tratta, la paga in qualche forma, la valorizza, la distribuisce e dopo di fatto ne fa quello che vuole – forse la sanifica, forse no –  con il limite di non costringere nessuno alla sete.  

La delusione è stata grande. Anche fuori d’Italia. La nostra Italia era il primo grande paese che risolveva il problema idrico con un modello democratico di soluzione. Tutti gli altri paesi, ricchi e meno ricchi, avrebbero studiato, imitato, combattuto per l’acqua all’italiana, cercato di copiare; erano pronti a farlo. L’Italia era capace di cambiare, di ridare l’acqua al popolo, di farne una ricchezza abile, sicura, generosa. La decisione, referendaria, con un così formidabile consenso, spingeva tutti gli altri popoli, ricchi e meno ricchi che fossero, a provare anche loro. Da più parti ci si aspettava di imparare qualcosa dall’esperienza italiana. Dal risultato del referendum sarebbe uscito un progetto innovativo, buone politiche per tutte le borse, per tutte le latitudini….  Il risultato trionfale, così atteso, si trasformò ben presto nel suo contrario: a darsi da fare per fare lo stesso furono in un numero ridotto di movimenti e popoli assetati. Si disse che al solito le grandi compagnie multinazionali dell’acqua avevano stretto i freni. Avevano dettato i comportamenti per tutti. Esse erano più forti di noi; a maggior ragione più forti di tutti. Così il caso del nostro referendum, di cui eravamo tanto orgogliosi, apparve ben presto come uno scherzo, una recita da parte di quei soliti commedianti degli italiani…

Non finisce qui 

  1. Con il nostro referendum inutile, il discorso dell’acqua non finisce. Il tema era stato posto per affrontare, tutti insieme, il problema centrale del futuro dell’umanità. Sono passati dieci anni, c’è un briciolo di preoccupazione, i governanti europei si travestono con la felpa di Greta, a Parigi si esortano a vicenda, si pentono per gli impegni mancati, promettono di cambiare al più presto. Vedremo. 

La cronaca dunque non è finita; quindi a questo primo resoconto sul nostro referendum seguirà almeno un altro resoconto per versare qualche lacrima sull’acqua perduta, sulla sete, sulle cose non fatte e magari per avere di che asciugarci gli occhi. Come anticipazione di tale seconda parte, pensiamo di suggerire la lettura di un testo che si serve dell’intelligenza, dell’acuto pensiero, attento e diverso, e anche della bontà affettuosa di Giorgio Nebbia, uno scienziato che rimpiangiamo ogni giorno. L’intervista che pubblichiamo è uscita sul quotidiano il manifesto nel 2002 con il titolo : 

Saperi e numeri dell’acqua, controcorrente
Problemi, scarsità, ritardi e rimedi della situazione idrica nazionale. Con un’intervista a Giorgio Nebbia prosegue il viaggio tra chi beve e chi ha sete
GUGLIELMO RAGOZZINO – il manifesto 21/07/02 

e che comincia così:

“Giorgio Nebbia, scienziato delle cose concrete, non si è limitato e non si limita a spiegare e insegnare quello che sa, e via via elabora – idee innovative, numeri attendibili – ma è spesso capace di far vedere un altro aspetto, imprevisto, di qualche conoscenza o idea corrente. Per esempio: quanta acqua importiamo, comprando una T shirt di cotone o un chilo di riso basmati? Nel corso degli anni, Nebbia ha insegnato merceologia all’università di Bari ed è stato deputato e poi senatore della sinistra indipendente. Il compito che si è dato, di informare e spiegare, sempre e comunque, ne fa un autore tra i più saccheggiati, anche in tema di acqua”.

Nebbia, la settimana scorsa, a Catania, ho letto un suo articolo sulle navi dissalatrici…

Ma va. Come cominciava?… Ah, è vero, l’ho scritto io, chissà quando. La questione delle navi dissalatrici è interessante, ma è meglio inquadrarla in un discorso più ampio che riguardi almeno l’acqua in Italia. Poi arriveremo anche alle soluzioni, una delle quali è il gran mare salato. In Italia l’acqua è scarsa, in relazione ai bisogni e agli usi e distribuita in modo ineguale tra nord, centro e sud. Un anno per l’altro, dal cielo cadono 300 miliardi metri cubi di acqua; metà rievapora, metà scorre nei fiumi o si deposita sottoterra o nei laghi, reintegrando i giacimenti di acqua. La popolazione che aumenta e si sposta nelle città, che consuma più merci, e quindi inquina di più, è all’origine di frequenti scarsità di acqua dolce che si concentrano e si autoalimentano. I prelievi di acqua sono ogni anno, grosso modo, di 10-12 miliardi di metri cubi per l’acqua potabile, 10-15 miliardi per gli usi industriali, di processo o di raffreddamento, e 40 miliardi per gli usi agricoli. In tutto 60 o 65 miliardi di metri cubi all’anno di acqua che viene usata e poi continua a circolare in un flusso continuo. L’acqua però è stata contaminata dalla vita e ha contaminato la vita. In sostanza, a ogni giro, le falde idriche non sono più quelle di prima: la qualità è mediamente peggiorata.

E questo descrive la cattiva distribuzione. Ma non può essere più preciso sulle cifre?

No. Vi è una carenza di dati statistici. I servizi metereologici sono stati smantellati. Un tempo c’era un omino con un imbuto che aveva il compito di informare su quanta pioggia era caduta in un certo territorio. Ora le tecniche di informazione sulla piovosità sono raffinate, ma nessuno sa quanto sia piovuto realmente. In Puglia, un anno sarebbero caduti 200 millimetri, un altro anno 650. Rilevazioni del genere non servono a niente. D’altro canto si sa poco anche dell’acqua delle falde, le miniere sotterranee di acqua. I dati non sono attendibili, diversi tra Istat e ministero dell’ambiente. Si sa soltanto che l’acqua è poca e in quantità crescente è contaminata. Nelle regioni italiane che si affacciano sul mare, spesso le falde sono contaminate dall’acqua di mare stessa: il mare interagisce con gli acquiferi, la salinità aumenta e la qualità dell’acqua dolce peggiora, mentre la quantità diminuisce; ma numeri su tutto questo non ce ne sono, anche se un censimento sarebbe dovuto essere un obiettivo primario di ogni riforma.

E’ possibile aumentare la disponibilità di acqua potabile?

A livello di paese, si può importare acqua dal paese vicino, dalla regione vicina. Per esempio va di gran moda parlare di una condotta tra l’Albania e l’Italia. Tecnicamente si può fare. Ci sono fondali profondi, ma il canale d’Otranto è stretto…

Io la trovo una cosa scandalosa…

Io non ci trovo niente di male, in astratto. Anzi da un punto di vista etico è l’applicazione di una forma di solidarietà fra i popoli, come rifornire d’acqua, dal Nilo o dalla Turchia, israeliani e palestinesi. Il tuo vicino ha sete e tu intervieni. L’acqua in eccesso si può esportare, prima che diventi mare. Certo che se la gestione è gangsteristica o mafiosa, se l’acqua viene rubata, o sottratta a necessità locali, se non c’è una decisione popolare, se manca un controllo politico e democratico sulla scelta, l’acqua non si tocca…Ma anche nel caso della dissalazione vi sono gli stessi rischi.

E’ il punto di partenza…

Un momento. La dissalazione dell’acqua di mare è una tecnica che si usa da molto tempo e richiede energia: calore o elettricità. Il calore consente di distillare l’acqua separando il sale. Con l’elettricità si può comprimere l’acqua contro una membrana con un processo di osmosi inversa, sul quale qui non è il caso di insistere. Sono processi entrambi affidabili e usati in situazioni particolari in cui il costo energetico sia ridotto o trascurabile. Le centrali elettriche buttano letteralmente via calore a bassa temperatura. Per esempio la centrale di Brindisi/Cesano, quella da 2.400 megawatt, potrebbe essere rimodellata con un impianto di dissalazione che potrebbe fornire, che so, 30 milioni di metri cubi di acqua pulita all’anno, andando incontro alla richiesta di acqua da bere di Puglia.

Come l’impianto Eni di Gela in Sicilia che immette acqua dissalata…

L’unico inconveniente, diciamo così, ambientale, è rappresentato dalla salamoia. Il sale che viene sottratto all’acqua di mare, da qualche parte deve essere infilato. E l’inquinamento è considerevole, per cui è semplice il ragionamento: dove mai si può gettare sale senza inquinare troppo? Nel mare aperto, lontano dalle coste. Da qui l’idea di utilizzare navi attrezzate per “fabbricare” acqua potabile e portarla in luoghi in cui manca. I greci in passato lo hanno fatto, per rifornire le loro isole e hanno messo a punto una considerevole tecnologia. Potrebbe ritrarne beneficio anche l’industria cantieristica italiana che mi sembra vada un po’ a rilento. Quanto alle tecniche di dissalazione, vi sono svariate imprese italiane che vendono impianti ai paesi arabi, ricchi di energia e poveri di acqua. In altre parole, è possibile una flotta di navi cisterna che nel corso degli spostamenti producano l’acqua da immettere nei serbatoi sulla terra ferma. I modi per sconfiggere la sete sono molti: intervenendo sui consumi, pianificando l’uso delle risorse esistenti. Anche gestire un acquedotto presenta qualche difficoltà…

Lo si vede con l’acquedotto pugliese che per la “Gazzetta ufficiale” era stato ceduto all’Enel (che lo aveva indicato tra i suoi “attivi” al momento di vendere le azioni) ma poi è passato in proprietà alla regione Puglia. Un acquedotto grandioso, ma povero di acqua.

L’acquedotto ha una storia più nobile di questi pasticci. E’ una storia di bisogni umani. In Puglia, all’inizio del secolo scorso vi era un’intollerabile scarsità di acqua. Vi era però acqua alle sorgenti del Sele, oltre le montagne. Così nel 1910 si decise di forare la montagna e di portare l’acqua del Sele, che allora non era utilizzata, giù, giù, fino a S. Maria di Leuca. A cento anni di distanza l’acquedotto non ce la fa più. La fonte si è impoverita, perché anche la popolazione campana tira più acqua, la domanda pugliese è cresciuta e la manutenzione non è stata fatta. Dopo il terremoto e le conseguenti frane, nessuno ha fatto le riparazioni del caso. Si è tentato di collegare con bacini, laghi artificiali e condotte, tramite gli enti di irrigazione di Puglia, Basilicata e Molise, le risorse idriche esistenti, in modo di ottimizzare l’acqua potabile, integrando bacini e acquedotti. Ma di nuovo la mancanza di manutenzione ha riempito di fango una idea di interesse pubblico. Naturalmente sono cresciuti sospetto e sfiducia. E sì che esiste una legge importante per la difesa del suolo e la salvaguardia delle risorse…

Lei intende la legge 36/94, la legge Galli?

Ahimé no. La legge alla quale mi riferisco è la 183/89, quella dei bacini idrografici. E’ stata un tentativo estremo di riordinare secondo natura l’acqua e il territorio. La legge Galli, piena di buone intenzioni, per razionalizzare i troppi acquedotti esistenti, ha rappresentato un passo decisivo in direzione della privatizzazione, se non dell’acqua, esclusa per legge, almeno delle attività connesse. Il risultato sarà un rincaro dell’acqua, con prezzi molto differenziati da una città all’altra.

Si può fare altrimenti?

L’acqua a mio parere dovrebbe avere lo stesso prezzo, almeno per un consumo base adeguato e sufficiente: i maggiori consumi devono essere pagati di più per scoraggiare gli sprechi. Prima ancora della nazionalizzazione elettrica, all’inizio degli anni `60, vi era una cassa conguaglio elettrica che veniva alimentata dai maggiori ricavi di alcuni produttori e uniformava le tariffe. Per l’acqua servirebbe un’agenzia nazionale che stabilisca una tariffa uguale per tutti e consenta a tutti una quota disponibile. L’acqua che costa di meno va in aiuto di quella che costa di più. Un formidabile strumento di democrazia e di solidarietà. Oltre che un modo per imparare molte cose ignote sull’acqua. Un compito finale ma non minore dell’agenzia dovrebbe essere quello di restituire al pubblico le acque da bere date in concessione dalle regioni a privati che le imbottigliano e le vendono a prezzi esorbitanti; a 200 mila vecchie lire al metro cubo. Insomma: un po’ di etica merceologica non farebbe male a questo paese.

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