venerdì 28 maggio 2021

La rete ferroviaria inglese torna pubblica: l’arretramento del neoliberismo

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Dedicato a quelli che “solo le imprese private ottimizzano risorse e assicurano i migliori risultati”…

Gli effetti delle privatizzazioni – soprattutto nei servizi pubblici – si vedono ad occhio nudo. Che si tratti di autostrade, funivie, telefonia, energia o ferrovie (per non dire della scuola e dell’istruzione ad ogni livello), il risultato è sempre lo stesso: servizi scadenti, pericolosi, costosi, truffaldini, fatiscenti.

Dopo 40 anni il fallimento è evidente, ma nell’Unione Europea non esiste la parola “autocritica” e il Recovery Fund è stato pensato per confermare lo stesso modello, ma con vincoli ancora più esasperati e stringenti.

Là dove tutto è cominciato – la Gran Bretagna di Margareth Thatcher, tra gli stessi conservatori inglesi – si torna invece indietro. Se non alla nazionalizzazione integrale, almeno ad un “modello misto” in cui il ruolo centrale torna in mano al “pubblico”.

L’Unione Europea è la rovina dell’Europa.

Quando ne prenderemo atto ci chiederemo “ma come abbiamo fatto a non vederlo tutti e prima?

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Al termine della stagione thatcheriana, il Primo Ministro John Major decise, a metà degli anni Novanta del secolo passato, di privatizzare le ferrovie inglesi. Era l’ultimo atto di una lunga stagione di arretramento dello Stato dalla gestione delle attività economiche: si concludeva così un enorme processo di privatizzazioni che fece incassare all’erario inglese oltre 60 miliardi di euro complessivamente.

Mentre l’Unione Europea consolidava in quegli stessi anni il suo disegno di liberalizzazione, separando i destini della rete ferroviaria, monopolio naturale destinato a restare nella sfera della proprietà pubblica, rispetto alle imprese ferroviarie orientate verso un percorso di competizione e possibile privatizzazione, anche proprietaria, il modello inglese era basato su uno spezzatino che frazionava British Rail in più di cento aziende, tutte collocate sul mercato.

La parte più discussa della disarticolazione ferroviaria britannica era la privatizzazione proprietaria della rete infrastrutturale. Per attirare l’interesse degli investitori fu congegnato un meccanismo in base al quale il montante dei pedaggi di accesso alla infrastruttura avrebbe reso agli azionisti annualmente almeno l’8% del capitale investito.

Il collocamento delle azioni fu un successo: quel modello rendeva la società della rete una sorta di investimento obbligazionario ad alto rendimento, oltretutto garantito.

Nella gestione successiva accadde un vero e proprio disastro. Per attrarre ulteriori investitori, e per garantire un maggiore rendimento, furono ridotte le risorse spese per la manutenzione ordinaria e straordinaria della rete. Seguirono gravissimi incidenti ferroviari, concentrati nel nodo di Londra, con decine e decine di morti.

Non avendo definito alcun parametro di controllo sulla qualità del servizio erogato e sugli standard di sicurezza che andavano garantiti, la privatizzazione della rete ferroviaria inglese si è rivelata una vera a propria catastrofe.

Anche perché sono aumentati enormemente i costi di transazione: nella frantumazione societaria che si è determinata i prezzi di trasferimento ed i contratti tra i diversi soggetti hanno costruito un reticolo giuridico di negoziazioni molto complesse e costose.

Già nel 2009 il governo laburista aveva nazionalizzato una delle società ferroviarie di trasporto passeggeri di media e lunga percorrenza, la East Cost Railways, che era entrata in una crisi irreversibile: questo processo è stato completato nel 2015.

A distanza di un quarto di secolo dalla completa privatizzazione, sono ora gli stessi conservatori, oggi guidati da Boris Johnson, a tornare indietro rispetto alla impostazione adottata da John Major. Pur se il Ministro dei trasporti Grant Shapps sostiene che non si tratta di una nazionalizzazione, poco ci manca. Gli inglesi, che pure hanno puntato sulla Brexit, in realtà stanno per adottare proprio il modello comunitario di riorganizzazione delle ferrovie.

Dal 2023 nascerà Great British Railways (GBR): sarà il soggetto pubblico che gestirà la rete ferroviaria e che definirà gli orari, imponendo parametri di efficienza e di puntualità alle imprese ferroviarie private. In buona sostanza viene mutuato a livello nazionale il meccanismo con il quale Transport for London governa i servizi ferroviari del nodo metropolitano della Capitale.

Insomma, la rete ferroviaria torna completamente pubblica ed assomma a sé anche il compito di regolazione e controllo sull’operato delle imprese ferroviarie private che accederanno alla infrastruttura.

La furia iconoclasta del liberismo lascia il posto ad un modello misto, nel quale lo Stato gestisce la rete e detta le regole alle imprese ferroviarie che erogano servizi, controllandone l’operato.

Si tratta di un segno dei tempi, visto che sono gli stessi conservatori britannici ad effettuare una mossa in controtendenza rispetto ai principi di riduzione del ruolo dello Stato che proclamavano un quarto di secolo fa. La pandemia ha certamente lasciato il segno, e la necessità di assicurare maggiori garanzie e sicurezze diventa un segno dominante per il prossimo futuro.

Questa riforma arriva dopo un lavoro durato tre anni per la definizione di un modello alternativo rispetto all’originario disegno che ormai mostrava la corda. L’analisi, e la successiva proposta al governo conservatore, è stata effettuata da Keith Williams, precedentemente amministratore delegato di British Airways.

Si tratterà di capire, nella fase transitoria che ora comincia, quali saranno tutte le implicazioni di questo cambio di architettura. Qualcuno sostiene che le tariffe torneranno a crescere, per assicurare una migliore qualità del servizio.

* Universitas Mercatorum

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